“SIATE SOTTOMESSI GLI UNI AGLI ALTRI NEL TIMORE DI CRISTO” (Ef 5,21)
SPUNTI PER LA RIFLESSIONE

 

 

L’obbedienza senza libertà è schiavitù
La libertà senza obbedienza è arbitrio.

 

Il teologo Dietrich Bonhoeffer, ucciso dai nazisti nel 1945 a soli 44 anni, offre una regola aurea che merita meditazione e soprattutto allenamento, non solo nella vita religiosa ma anche in quella sociale. L’obbedienza autentica deve sbocciare da una scelta libera, che può essere anche sofferta, crocifissa. Altrimenti è schiavitù.
L’obbedienza ignaziana, perinde ac cadaver, pur essendo formulata in modo così energico e suscettibile di equivoco, si innesta nella medesima linea: una volta che hai scelto liberamente di aderire a un percorso, devi avere il coraggio della totalità e della radicalità, sempre in ordine alla scelta iniziale della coscienza. Stabilito un patto di alleanza devi esservi fedele, a qualunque costo, sempre.
L’uomo, ogni uomo o donna, è chiamato anzitutto a un’obbedienza fondamentale: alla propria storia, alle proprie origini, al proprio corpo, alla propria famiglia, insomma a una serie di situazioni e persone, tempi e luoghi, eventi e condizioni che l’hanno preceduto, fondato e su cui egli non ha avuto possibilità di scelta e di decisione. Una serie di obbedienze che siamo chiamati a compiere fin dalla nascita e che ci accompagneranno nel cammino dell’esistenza, che siamo chiamati ad accogliere, ad assumere, con umile disponibilità e grande responsabilità.
Un credente legge questa obbedienza come creaturale. E’ la condizione di creatura che ci pone nella dimensione di obbedienza: creati dalla parola e dall’agire di Dio, riceviamo come obbedienza, come compito, missione da adempiere, chiamata, quella di vivere la nostra vita a immagine di Dio (cf Gn 1,27). “Se l’obbedienza è prima di tutto obbedienza a una chiamata, l’obbedienza fondamentale a Dio passa attraverso l’accettazione della propria creaturalità, cioè della chiamata ad accogliere la vita stessa come dono. Il comando che consente all’uomo di mangiare di tutti gli alberi del giardino eccetto uno solo (cf Gn 2,16-17) vuol verificare che l’uomo si umanizza se nonambisce il tutto, se accetta i limiti insiti nella propria dimensione creaturale”. Il credente riconosce quest’accettazione dei limiti che è costitutiva della creatura di fronte al Creatore e che gli consente di diventare pienamente uomo fuggendo la tentazione della totalità, la tentazione primordiale di cercare di mettersi al posto di Dio.
Non solo, ma “il credente, il cristiano, è l’obbediente a Cristo ed è colui che obbedisce in Cristo: è la fede stessa che pone l’esistenza cristiana sotto il sigillo dell’obbedienza”. Il cristiano è un obbediente, non semplicemente uno che esegue dei comandi, un servo, non semplicemente uno che compie dei servizi. E’ uno che ascolta “ciò che lo Spirito dice” (Cf Ap 2,7).
Nella mentalità biblica “ascoltare significa obbedire”. Nell’Antico Testamento i verbi che indicano l’ascolto vengono usati anche per esprimere l’obbedienza (una affinità tra ascolto e obbedienza che troviamo anche nel latino oboedire da ob-audire).
Nel Nuovo Testamento il proprium dell’obbedienza cristiana si trova nell’obbedienza di Gesù. I testi più significativi che ci parlano della sua obbedienza (Rom 5,19; Fil 2,8; Eb 5,8) compiono una sintesi della sua vita e della sua opera salvifica. Gesù è venuto nel mondo per compiere la volontà del Padre suo. Obbedire è fare la volontà di un altro. E’ affidarsi.
Al centro di questa obbedienza vi è la relazione filiale che Gesù vive con il Padre, e al suo cuore vi è l’amore per il Padre e per i fratelli. Il Vangelo di Giovanni, poi, sottolinea tale dimensione presentando Gesù come il pienamente spossessato di sé: in ciò che dice e fa sempre rinvia al Padre che lo ha mandato. Questa obbedienza amorosa dà senso al vivere di Gesù, dà senso alla sua morte in croce e ne fa un atto di libertà.
L’ambito dell’obbedienza di Gesù è la Scrittura. In essa Egli trova il criterio di discernimento per la sua missione e il suo ministero, la luce che orienta il suo cammino e la sua vocazione nell’obbedienza a Dio. E’ questa obbedienza alla volontà di Dio, conosciuta soprattutto attraverso le Scritture, che porta Gesù a sottomettersi anche agli uomini e agli eventi per compiere la sua missione.
È nell’obbedienza di Cristo che s’innesta l’obbedienza del cristiano e di noi consacrati/e in particolare; qui essa trova la sua misura e la sua forma, una forma plasmata dallo Spirito che ci obbliga a viverla creativamente, responsabilmente, non in modo legalistico.  L’obbedienza autentica è sempre sottomissione a Dio e non a una semplice creatura, qualunque sia la sua dignità. Non è quindi la saggezza umana dell’autorità il motivo della nostra obbedienza, anche se oggi, più che mai, auspichiamo che i superiori siano ricchi di equilibrio, saggezza, capacità di governo e tanta prudenza, quella prudenza che è la genitrice, la radice, la misura e la forma di tutte le altre virtù cardinali. Quella prudenza che è il ‘buon genio’ del governo di noi stessi e degli altri .
A volte, o molte volte (non lo so), abbiamo patito per l’ipertrofia dell’autorità o per l’abdicazione dalla medesima, oppure per autorità miopi o presbiti incapaci di arricchirsi della memoria e di sognare la profezia. Ha scritto Saint-Exupery: «Se vuoi costruire una barca, non radunare insieme delle persone per procurare la legna, preparare gli attrezzi, distribuire i compiti e organizzare il lavoro, ma piuttosto risveglia in esse la nostalgia per il mare aperto e infinito».
Guai se chi è costituito in autorità non è capace di sognare, di cogliere nel suo servizio la splendida possibilità di annunciare il regno e contemporaneamente di realizzare se stesso, non solo perché serve, soffre, si dona, ma perché mette a frutto per il Regno tutte le proprie capacità. Sì, sognare, anche nell’Europa che invecchia, che è sempre più scristianizzata, perché il Vangelo è giovane, perché lo Spirito insegna quella “sapienza del crepuscolo”, di cui oggi abbiamo bisogno e che dà slancio e vigore.
Il criterio dell’obbedienza cristiana è Cristo. Egli, nello Spirito, interiorizza in ciascuno di noi le esigenze radicali del Vangelo e ci porta a viverle come espressioni della volontà di Dio, assunte fino a farle diventare nostre. E’ alla luce di questa obbedienza che si comprendono e si vivono le varie mediazioni della volontà di Dio. Sempre tenendo presente che su tutto deve regnare il Vangelo.
Quando le mediazioni si sostituiscono a Dio e pretendono obbedienza per se stesse, allora devono essere ricondotte all’obbedienza evangelica (Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini – At 5,29). Colui che è costituito in autorità, se desidera svolgere bene il suo servizio, deve lasciare un posto vuoto nella comunità, un posto per Gesù, perché nella comunità nessuno si auto-comanda, né si auto-invia. E’ Gesù che chiama e invia.
Scrive San Paolo nella lettera ai Filippesi:
«Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce» (Fil 2,5-8).

Ecco perché Dio lo esaltò e gli diede un nome ch’è sopra tutti i nomi( cf Fil 2,5-9).
Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù, riempitevi di essi, rivestitevi di questi sentimenti.
Paolo rivolge questo invito a ciascun cristiano, a ciascun battezzato. Questo invito per noi consacrati e consacrate acquista un carattere di urgenza, di impellenza, di necessità. La nostra risposta si chiama sequela: sequela di Cristo casto, povero, obbediente. I voti, vissuti nell’obbedienza della fede, come ogni atto di fede, appaiono una rinunzia, anzi talvolta una morte, ma una morte inseparabile dalla resurrezione, come quella di Gesù, una morte che è in se stessa vita, in quanto accoglienza della vita di Dio. I voti sono un servizio alla vita del mondo, un dono ricevuto nella fede e offerto nella libertà, per questo noi consacrati non dobbiamo distinguerci per la radicalità della rinuncia, ma per la radicalità dell’amore e del servizio alla vita.
Così descrive i voti David Maria Turoldo, all’interno del suo canto delle Beatitudini,  con la sua penna di fuoco:
Beati voi, o poveri, o primi eredi
che avete il cuore già oltre le cose,
principi siete di stirpe divina.

Beati voi, o mondi di cuore, in voi
come in un lago si specchia Iddio
e voi ovunque vedrete il Signore.

Beati voi, o miti, o obbedienti: o inermi, voi siete
la invincibile forza di Dio,
voi soli avrete in possesso la terra.

Il testo della lettera ai Filippesi, che ho appena letto, rivisita tutta la vita di Gesù sotto la categoria dell’obbedienza: dall’incarnazione, alla esistenza terrena fino alla morte in Croce. Cristo Gesù, pur essendo Dio, ha rinunciato allo splendore della gloria e alle prerogative della propria condizione divina, ha assunto la nostra umanità fragile, sofferente, povera, limitata, si è posto in uno stato di sottomissione e obbedienza totale al Padre e alle leggi degli uomini, fino a giungere allo svuotamento totale di sé, nella morte di Croce. E tutto questo per amore!
Un tale abbassamento non comprende solo un atteggiamento di umiltà, di povertà, di obbedienza, ma è la perdita di se stessi nella donazione totale del proprio essere.
Gesù, trasfigura gli eventi della sua vita, la contraddizione, il dolore, l’incomprensione, il tradimento; accogliendoli nella fede e nell’adesione all’amore-volere del Padre, e li rende occasioni di obbedienza a Dio. «Qui l’intero evento pasquale, in cui risiede la salvezza universale, è colto come obbedienza di Cristo: obbedienza che porta il Cristo alle sofferenze fino alla croce (cf Eb 5,7) e lo porta anche a essere costituito sacerdote che intercede presso Dio e che è causa di salvezza per coloro che obbediscono in Lui. In questo testo è chiaro il passaggio dall’obbedienza di Cristo a Dio all’obbedienza del cristiano al Cristo stesso».
In un’omelia tenuta in San Marco il   25 marzo 1970 , alla Messa per le Religiose del patriarcato, Sua Eccellenza Albino Luciani ( il futuro Giovanni Paolo I) disse: «L’obbedienza è strumento ascetico: mortifica l’amor proprio, fa di noi un’offerta al Signore, ci fa  simili a Cristo vittima obbediente. Ma non va essa contro la dignità e la libertà della persona umana ? Ecco la grande obiezione di oggi. Apriamo il Vangelo. È vero: da una parte, Gesù insegna che bisogna fare il bene per amore, proclama la libertà, condanna il legalismo farisaico; dall’altra, però, dà prescrizioni morali e pratiche, obbliga i suoi seguaci a osservarle ed impianta un’autorità fornita di precisi poteri al servizio dell’uomo. Sul Vangelo si basa il Concilio per dire che l’obbedienza consacrata, “lungi dal diminuire la dignità della persona umana, la conduce a maturità, facendo sviluppare la libertà dei figli di Dio” (cf  PC, n.14).
La nostra vita di speciale consacrazione al Padre per Cristo nello Spirito non è altro che questo; non è un generico stare bene con se stessi ma dare, donare la propria vita, amare fino alla fine, offrire la propria vita per gli amici e per i nemici, avendo gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù.
Gesù è venuto a rivelarci questa realtà: un Dio che è dono totale ed eterno di se stesso, che è vita eternamente donata. È in questo abisso di amore che Egli ci invita ad entrare con la sua obbedienza, con la nostra obbedienza.
Questo invito è, deve essere, il pane quotidiano di noi consacrati. Come l’obbedienza del Figlio narra il Padre, perché la rinuncia a se stesso lo rende trasparenza dell’amore del Padre, «chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14, 9), così la nostra obbedienza deve narrare l’amore di Cristo nell’oggi della storia. La nostra vita è chiamata a rappresentare una delle tracce percettibili lasciate dalla Trinità nella storia per risvegliare il fascino e la nostalgia della bellezza divina (cf VC 20). Narrare l’amore di Cristo oggi…Narrare l’amore di Dio per gli altri, per tutti. Sì, proprio tutti. Guai se ci fosse un aggettivo a qualificare chi merita il mio amore. Tutti, persino Caino. L’altro mi riguarda, appartiene alle mie cure, è scritto nei miei pensieri e nel mio cuore. Scegliendo Cristo, ho scelto di essere come Lui, di amare come Lui: quando lava i piedi ai discepoli, quando si rivolge a Giuda che lo tradisce chiamandolo amico, quando prega per chi lo uccide, quando piange Lazzaro morto o si commuove per il nardo profumato… Oso essere come Lui obbediente alla volontà del Padre, consapevole e felice di fare un libero dono della mia libertà e della mia volontà a Dio, per amore. L’amore che, perché tale, sa essere creativo anche nella routine, nella quotidianità di chi contemporaneamente obbedisce e comanda nello spirito di servizio, dando valore e vestendo di creatività anche le cose che paiono insignificanti.
L’amore che sa essere creativo anche nel perdono… Il perdono reciproco è un’esigenza fondamentale del rapporto autorità/obbedienza, anche se non è facile disarmare il cuore di fronte alla vera o presunta ingiustizia. Quel grande profeta dei nostri tempi che è stato il Patriarca Atenagora ha scritto: “Bisogna riuscire a disarmarsi. Io questa guerra l’ho fatta: Per anni ed anni. E’ stata terribile. Ma, ora, sono disarmato! Non ho più paura di niente perché l’amore scaccia la paura. Sono disarmato dalla volontà di spuntarla, di giustificarmi a spese degli altri. Non sono più all’erta, gelosamente aggrappato alle mie ricchezze. Accolgo e condivido. Non tengo particolarmente alle mie idee, ai miei progetti. Se me ne vengono proposti altri migliori, li accetto volentieri. Perciò non ho più paura. Quando non si possiede più niente, non si ha più paura. “Chi ci separerà dall’amore di Cristo?” Ma se ci disarmiamo, se ci spogliamo, se ci apriamo al Dio-uomo che fa nuove tutte cose, allora è lui a cancellare il passato cattivo e a restituirci un tempo nuovo dove tutto è possibile”.

Dobbiamo raccontare con la vita l’obbedienza di Gesù, l’amore di Gesù, la disponibilità di Gesù a fare sempre la volontà del Padre (Gv 4, 34; 5.30; 6, 38) Gesù fa sempre la volontà del Padre perché solo lì trova in pienezza se stesso. Non possiede nulla in proprio. Egli è l’inviato di Dio: i suoi pensieri e i suoi progetti sono pensieri e progetti del Padre suo: «Ecco, io vengo, per fare o Dio la tua volontà» (Eb 10,7). Gesù è il figlio obbediente. Egli sa che il modo migliore di vivere la sua relazione con il Padre è quello di una totale obbedienza alla sua volontà-amore. Così il volere del Padre diventa la missione del Figlio.
Noi siamo talmente abituati a ripetere che Gesù fa la volontà del Padre, a leggerlo, a dirlo, che ci sembra quasi una cosa scontata, una cosa solo sua e che poco ci appartiene. Il nostro piccolo cuore di fronte all’immensità del suo amore obbediente tende a ritagliasi un piccolo spazio: abbiamo paura di “perderci”. Ci accontentiamo, allora , di un’obbedienza legata più alle nostre piccole e mediocri misure che ai suoi ampi orizzonti; ai nostri progetti a corto raggio, limitati, invece che alla totalità del suo amore che fa grandi anche le piccole cose; ci accontentiamo della poca acqua delle nostre cisterne screpolate piuttosto che attingere alla sorgenti della salvezza. Madre Canopi, del Monastero di Orta S. Giulio, nel Nord Italia, ha scritto che «la più terribile idolatria che si oppone all’obbedienza è proprio quella che ogni giorno ci fa bruciare incenso davanti al nostro giudizio, nume supremo al cui trono vorremmo costringere tutti a prostrarsi. Dovremmo invece diffidare anche del nostro preteso “buon senso” sul modo di vivere il voto dell’obbedienza premuniti di tante garanzie e assicurazioni anti-struttura, anti-autorità, anti-rischio. In pratica vorremmo immunizzarci contro la sofferenza che ogni obbedienza comporta, in quanto è morire alla volontà propria per vivere in Cristo».
Conosciamo, purtroppo, per esperienza personale, le fragilità della nostra obbedienza: interessata, paurosa, trascinata, poco responsabile, autosufficiente, e quelle del nostro servizio di autorità: distante, burocratico, calcolatore, moralizzante, interessato, debole… E non dovremmo stupircene… E’ farina del nostro sacco, sono i frutti del nostro orto, che esigono potature. Anche per questo c’è da imparare da Gesù…Il p. Clorivière scrive: “(Alcuni) obbediscono sempre (fanno cioè tutto quello che è loro comandato) e non praticano mai l’obbedienza religiosa, perché la loro sottomissione è puramente naturale, obbediscono come dei servitori, sia per compiacenza, sia per timore, sia per vano desiderio di essere stimati. Non è la voce di Dio quella che ascoltano nel comando del superiore, vedono in Lui soltanto una persona che amano e che temono o a cui desiderano piacere”. Costoro dimenticano che l’obbedienza autentica è essenzialmente un atto di fede e, in quanto tale, partecipa necessariamente dell’oscurità inerente per definizione ad ogni atto di fede.
Altri, a loro volta, dimenticano che il potere che libera è quello del Dio crocifisso. Le sue braccia inchiodate e aperte sono la testimonianza che la vera autorità, il vero potere, è quello del Crocifisso: un potere che vuole l’alterità dell’altro fino a lasciarsi uccidere per offrirgli la resurrezione. “Perciò il potere assoluto – quello di Dio (…) – s’identifica con l’assoluto del dono di sé, con il sacrificio che comunica la vita agli uomini e fonda la loro libertà. Il Dio incarnato è ‘colui che dona la propria vita per i suoi amici’ e prega per i suoi carnefici.
Il potere di Dio significa il potere dell’amore. Per ‘follia d’amore’, colui che è la Vita in pienezza, diventa per noi la vita al cuore della morte”. Questo paradosso dell’amore, così debole nella sua sovranità, così sovrano nella sua debolezza, è una scuola per me, per noi, è un sostegno una guida per coniugare nella quotidianità il sacramento dell’altare e il sacramento del fratello.
Nella comunità cristiana, nelle nostre comunità religiose, deve maturare quella responsabilità, quell’obbedienza reciproca - è il criterio di reciprocità al quale ho appena fatto riferimento - che nasce dalla coscienza di essere “corpo di Cristo”, di non appartenere a se stessi, ma a Cristo e, tramite Cristo, a Dio (cf 1 Cor 3,23). E in questo apprendimento, chi è costituito in autorità ha un ruolo ben preciso. Ce lo insegna ancora Gesù con la pedagogia usata verso i due discepoli di Emmaus.
Ogni persona consacrata è chiamata a far propria la profonda dinamica apostolica di Cristo: sentirsi mandata dal Padre e, quindi, impegnata a realizzare con grande senso di responsabilità non i propri progetti umani o il proprio interesse, ma l’opera che Dio ha affidato a lui e al suo Istituto.  
La speciale consacrazione che ci riveste è un legame di singolare appartenenza al Signore: in Lui abbiamo deposto la nostra volontà, per sintonizzarla con la sua,; con Lui possiamo fare nostro il Cantico del Verbo, che entra nel mondo come un figlio che vuole dare gioia al padre, come uno sposo che vuole darsi completamente alla sposa: «Ecco, io vengo; (…), per fare o Dio la tua volontà» (Eb 10,7).
«Che cosa dobbiamo fare? – scrive Edith Stein, Santa Teresa Benedetta della Croce. Cercare con tutte le forze di essere vuoti, di avere i sensi mortificati, la mente rivolta al cielo attraverso la speranza; la ragione rivolta a Dio con l’occhio schietto della fede, la volontà votata per amore alla volontà di Dio».
La Scrittura conosce la dialettica tra la nostra volontà e la volontà di Dio: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore» (Is 55, 9); «Io mi trovo dunque, in questa situazione: quando voglio fare il bene, il male è sempre accanto a me. Infatti acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra sento un’altra tendenza che combatte contro l’imperativo della mia mente e mi rende come  schiavo della tendenza al peccato, che è nelle mie membra» (Rm 7,21).
Abbiamo sperimentato molte volte questa lotta nella nostra vita, nella convivenza comunitaria, nella quale Dio ci dà la possibilità di imparare e di educarci reciprocamente all’obbedienza, ma a un prezzo:lo stesso pagato da Gesù che: «Pur essendo Figlio,egli imparò l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per coloro che gli obbediscono» (Eb 5, 8-9).

Imparò l’obbedienza dalle cose che patìEb 5,8-9).
Per l’obbedienza del consacrato non c’è altra via che quella di Cristo, della sofferenza e della croce. La sofferenza è inevitabile, ma è sempre un passaggio alla vera gioia. «L’anima innamorata di Dio – scriveva Caterina da Siena – non schiva la fatica che incontra a motivo dell’obbedienza, ma tanto gode quanto più vede che deve faticare. E tanto più gode ed esulta quanto più stretto è il legame che ha con il superiore cui deve obbedire, perché vede che quanto più la volontà è legata quaggiù, tanto più è legata con Cristo in cielo».
Le tappe obbligate di questo cammino hanno nomi precisi: lealtà (un grande pericolo minaccia oggi le comunità; ci si avvia verso una convivenza “anomica”, ,  che cioè tende ad evitare le norme; ma una convivenza in cui i valori appaiono rarefatti e dilaga l’indifferenza reciproca); responsabilità reciproca (gli incarichi precisi di alcuni non possono rendere disimpegnati gli altri); fiducia (il sospetto e il doppio gioco indeboliscono ogni esercizio dell’autorità); ammissione delle proprie colpe e dei propri limiti; correzione e perdono reciproco; paziente disciplina del dialogo, dell’ascolto, del confronto, lavoro continuo su di sé. Solo così la comunità potrà diventare luogo dell’inveramento dell’obbedienza a Dio.
“Lavoro continuo su di sé…Ha scritto Susanna Tamaro: «Il cammino interiore è simile al lavoro che una volta facevano gli uomini per accendere il fuoco. Si batte e si ribatte una pietra contro l’altra, senza stancarsi, finché scocca la scintilla. Per nascere il fuoco ha bisogno del legno ma per divampare deve aspettare il vento. Cerca dunque sempre il fuoco nella tua vita, attendi il vento, perché senza fuoco e senza vento i nostri giorni non sono molto diversi da una mediocre prigionia».

Il voto di obbedienza, così vissuto, diventa uno stato di vita scelto per facilitare l’ascolto della volontà di Dio nella propria esistenza e per contrastare la tendenza a rinchiuderci nei nostri progetti. Ci si sottomette alla volontà del Superiore non immediatamente, né soprattutto, per la sofferenza che ciò comporta, come se la sofferenza automaticamente ci santificasse; ma si sceglie questa via perché accettare di dipendere dal giudizio di un altro aiuta efficacemente le persone a camminare verso quel decentrarsi da sé che è necessario e favorisce la realizzazione della missione propria dell’Istituto. L’obbedienza non è mai una minaccia per una sana autostima. La maturità affettiva e la consapevolezza dell’utilità dell’obbedienza per la vita delle persone consacrate e la missione dell’Istituto rendono possibile un’obbedienza gioiosa. Chi obbedisce, infatti, non annulla la sua libertà, ma la esalta. Non mortifica i suoi talenti, ma li traffica e fa fruttificare.
«Ciò che spesso ci fa problema nell’obbedienza non riguarda la convinzione che essa sia un valore e una necessità, ma riguarda la concreta accettazione di essa attraverso persone e situazioni che non ci sembrano convincenti, perché non entrano nello schema della nostra logica. In realtà non obbediscono soltanto i discepoli, ma anche i maestri; chi è a capo di una comunità si trova in un più stretto stato di obbedienza di coloro che gli sono affidati, con i quali e per i quali deve cercare di conoscere la volontà di Dio». Il Magistero conciliare e postconciliare, sottolineando l’ecclesiologia di comunione, ha presentato l’autorità fondandola sul servizio e sulla carità. Esercitare l’autorità in mezzo ai fratelli significa pertanto servirli sull’esempio di Gesù che “ha dato la sua vita in riscatto di molti” (ET 24). Il “potere ‘che serve’ diventa, nel senso etimologico della parola, autorità; auctoritas viene dal verbo augere che significa far maturare, far crescere. Cercare di sottomettersi a ogni vita per farla crescere in pienezza”.
Il rifiuto di dominare diventa un segno distintivo del servizio evangelico; è potere d’amore, paternità-maternità capace di orientare senza umiliare, con l’intento di far crescere, di far circolare la vita; volontà di proteggere chi è più debole in ogni senso; disponibilità ad accogliere la critica; libero dal proprio personaggio; capace di decidere, disposto a essere ora il maestro ora il discepolo, capace di segnare nuove vie di senso. Uomo o donna di Dio.
Concludo.
Noi consacrati, vivendo l’obbedienza richiamiamo tutti alla signoria dell’unico Dio e contro la tentazione del dominio indichiamo una scelta di fede che si contrappone a forme di individualismo e autosufficienza.
La risposta a Dio, che ci parla attraverso l’oggi della storia, ci porta a mettere in evidenza che non c’è obbedienza senza responsabilità (l’obbedienza non è ripetere supinamente, ma fare, creare responsabilmente); non c’è obbedienza senza un fattivo senso di appartenenza al proprio Istituto e quindi senza la disponibilità a svolgere la missione che questo è chiamato a compiere nella linea del carisma; non c’è obbedienza senza ecologia della mente, purificazione della nostra volontà e accettazione della volontà di Dio; non c’è obbedienza autentica se non si valorizza il discernimento continuo con la Parola e nella comunità in ordine alla missione (tutti hanno qualcosa da dire confrontandosi con il Vangelo; siamo dentro un grande progetto in cui ciascuno ha una parte). Tutti obbediamo e dobbiamo obbedire con gioia, accogliendo nella fede le annunciazioni del quotidiano e seguendo la “buona dieta dell’obbedienza, che ci conforma sempre più alla volontà del Padre.

Enrica ROSANNA fma

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