CATECHISMO DELLA CHIESA CATTOLICA

(L’indice si trova in fondo al libro)

PREFAZIONE

«Padre, [...] questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). «Dio, nostro Salva­tore… vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscen­za della verità» (1 Tm 2,3-4). «Non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo, nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,12) che il nome di Gesù.

I. La vita dell'uomo - conoscere e amare Dio.

1 - Dio, infinitamente perfetto e beato in se stesso, per un disegno di pura bontà, ha liberamente creato l'uomo per renderlo partecipe della sua vita beata. Per questo, in ogni tempo e in ogni luogo, egli è vicino all'uomo. Lo chiama e lo aiuta a cercarlo, a conoscerlo e ad amarlo con tutte le forze. Convoca tutti gli uomini, che il peccato ha disperso, nell'unità della sua famiglia, la Chiesa. Per fare ciò, nella pienezza dei tempi ha mandato il Figlio suo come Redentore e Salvatore. In lui e mediante lui, Dio chiama gli uomini a diventare, nello Spirito Santo, suoi figli adottivi e perciò eredi della sua vita beata.

2 - Affinché questo appello risuonasse per tutta la terra, Cristo ha in­viato gli Apostoli che aveva scelto, dando loro il mandato di annunzia­re il Vangelo: «Andate e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20). Forti di questa mis­sione, gli Apostoli «partirono e predicarono dappertutto, mentre il Si­gnore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l'accompagnavano» (Mc 16,20).

3 - Coloro che, con l'aiuto di Dio, hanno accolto l'invito di Cristo e vi hanno liberamente risposto, a loro volta sono stati spinti dall'amore di Cristo ad annunziare ovunque nel mondo la Buona Novella. Questo te­soro ricevuto dagli Apostoli è stato fedelmente custodito dai loro suc­cessori. Tutti i credenti in Cristo sono chiamati a trasmetterlo di gene­razione in generazione, annunziando la fede, vivendola nell'unione fra­terna e celebrandola nella liturgia e nella preghiera.

Il. Trasmettere la fede - la catechesi.

4 - Molto presto si diede il nome di catechesi all'insieme delle iniziative intraprese nella Chiesa per fare discepoli, per aiutare gli uomini a cre­dere che Gesù è il Figlio di Dio, affinché, mediante la fede, essi abbia­no la vita nel suo nome, per educarli ed istruirli in questa vita e così costruire il corpo di Cristo.

5 - «La catechesi è un’educazione della fede dei fanciulli, dei giovani e degli adulti, la quale comprende in special modo un insegnamento della dottrina cristiana, generalmente dato in modo organico e sistematico, al fine di iniziarli alla pienezza della vita cristiana ».

6 - Senza confondersi formalmente con essi, la catechesi si articola in un certo numero di elementi della missione pastorale della Chiesa, che hanno un aspetto catechistico, che preparano la catechesi o che ne deri­vano: primo annuncio del Vangelo, o predicazione missionaria allo sco­po di suscitare la fede; ricerca delle ragioni per credere; esperienza di vita cristiana; celebrazione dei sacramenti; integrazione nella comunità ecclesiale; testimonianza apostolica e missionaria.

7 - «La catechesi è intimamente legata a tutta la vita della Chiesa. Non soltanto l'estensione geografica e l'aumento numerico, ma anche, e più ancora, la crescita interiore della Chiesa, la sua corrispondenza al dise­gno divino, dipendono essenzialmente da essa ».

8 - I periodi di rinnovamento della Chiesa sono anche tempi forti della cateche­si. Infatti vediamo che nella grande epoca dei Padri della Chiesa santi Vescovi dedicano alla catechesi una parte importante del loro ministero. È l'epoca di san Cirillo di Gerusalemme e di san Giovanni Crisostomo, di sant'Ambrogio e di sant'Agostino, e di parecchi altri Padri, le cui opere catechistiche rimangono esemplari.

9 - Il ministero della catechesi attinge energie sempre nuove dai Concili. A tal riguardo, il Concilio di Trento rappresenta un esempio da sottolineare: nei suoi decreti ha dato priorità alla catechesi; è all'origine del Catechismo Romano, che porta anche il suo nome e che costituisce un'opera di prim'ordine come com­pendio della dottrina cristiana; ha suscitato nella Chiesa un'eccellente organiz­zazìone della catechesi; grazie a santi Vescovi e teologi, quali san Pietro Cani­sio, san Carlo Borromeo, san Turibio di Mogrovejo, san Roberto Bellarmino, ha portato alla pubblicazione di numerosi catechismi.

10 - Non c'è, quindi, da meravigliarsi del fatto che nel dinamismo generato dal Concilio Vaticano Il (che il Papa Paolo VI considerava come il grande catechi­smo dei tempi moderni), la catechesi della Chiesa abbia di nuovo attirato l'at­tenzione. Lo testimoniano il Direttorio catechistico generale del 1971, le sessioni del Sinodo dei Vescovi dedicate all'evangelizzazione (1974) e alla catechesi (1977), le corrispondenti esortazioni apostoliche, Evangelii nuntiandi (1975) e Ca­techesi tradendae (1979). L'Assemblea straordinaria del Sinodo dei Vescovi del 1985 chiese: « Moltissimi hanno espresso il desiderio che venga composto un Ca­techismo o compendio di tutta la dottrina cattolica per quanto riguarda sia la fede che la morale ». Il Santo Padre, Giovanni Paolo Il, ha fatto suo questo desiderio espresso dal Sinodo dei Vescovi, riconoscendo: «Il desiderio risponde appieno ad una vera esigenza della Chiesa universale e delle Chiese particola­ri», e si è alacremente adoperato perché il desiderio dei Padri del Sinodo si realizzasse. III. Lo scopo e i destinatari di questo Catechismo.

11 - Questo Catechismo ha lo scopo di presentare una esposizione orga­nica e sintetica dei contenuti essenziali e fondamentali della dottrina cattolica sia sulla fede che sulla morale, alla luce del Concilio Vaticano Il e dell'insieme della Tradizione della Chiesa. Le sue fonti principali sono la Sacra Scrittura, i santi Padri, la liturgia e il Magistero della Chiesa. Esso è destinato a servire come «un punto di riferimento per catechismi o compendi che vengono preparati nei diversi paesi ».

12 - Questo Catechismo è destinato principalmente ai responsabili della catechesi: in primo luogo ai Vescovi, quali maestri della fede e Pastori della Chiesa. Viene loro offerto come strumento nell'adempimento del loro compito di insegnare al popolo di Dio. Attraverso i Vescovi, si ri­volge ai redattori dei catechismi, ai presbiteri e ai catechisti. Sarà di utile lettura anche per tutti gli altri fedeli cristiani.

IV. La struttura di questo Catechismo.

13 - Il piano di questo Catechismo si ispira alla grande tradizione dei catechismi che articolano la catechesi attorno a quattro «pilastri»: la professione della fede battesimale (il Simbolo), i sacramenti della fede, la vita di fede (i Comandamenti), la preghiera del credente (il «Padre nostro »).

PARTE PRIMA: LA PROFESSIONE DELLA FEDE

14 - Coloro che per la fede e il Battesimo appartengono a Cristo devo­no confessare la loro fede battesimale davanti agli uomini. Perciò, il Catechismo espone anzitutto in che cosa consistano la Rivelazione, per mezzo della quale Dio si rivolge e si dona all'uomo, e la fede, per mez­zo della quale l'uomo risponde a Dio (sezione prima). Il Simbolo della fede riassume i doni che Dio fa all'uomo come Autore di ogni bene, come Redentore, come Santificatore, e li articola attorno ai «tre capitoli » del nostro Battesimo, e cioè la fede in un solo Dio: il Padre onnipotente, il Creatore; e Gesù Cristo, suo Figlio, nostro Signore e Salvatore; e lo Spirito Santo, nella santa Chiesa (sezione seconda).

PARTE SECONDA: I SACRAMENTI DELLA FEDE

15 - La parte seconda del Catechismo espone come la salvezza di Dio, realizzata una volta per tutte da Gesù Cristo e dallo Spirito Santo, è resa presente nelle azioni sacre della liturgia della Chiesa (sezione prima), particolarmente nei sette sacramenti (sezione seconda).

PARTE TERZA: LA VITA DELLA FEDE

16 - La parte terza del Catechismo presenta il fine ultimo dell'uomo, creato ad immagine di Dio: la beatitudine e le vie per giungervi: mediante un agire retto e libero, con l'aiuto della Legge e della grazia di Dio (sezione prima); un agire che realizza il duplice comandamento della carità, esplicitato nei dieci comandamenti di Dio (sezione seconda).

PARTE QUARTA: LA PREGHIERA NELLA VITA DELLA FEDE

17 - L'ultima parte del Catechismo tratta del senso e dell'importanza della preghiera nella vita dei credenti (sezione prima). Si conclude con un breve commento alle sette domande della Preghiera del Signore (sezione seconda). In esse troviamo infatti l'insieme dei beni che noi dobbiamo sperare e che il nostro Padre celeste ci vuole concedere.

V. Indicazioni pratiche per l'uso di questo Catechismo.

18 - Questo Catechismo è concepito come una esposizione organica di tutta la fede cattolica. É, dunque, necessario leggerlo in modo unitario. Numerosi rimandi all'interno del testo e l'indice analitico alla fine del volume consentono di vedere ogni tema nel suo legame con l'insieme della fede.

19 - Spesso, i testi della Sacra Scrittura non sono citati letteralmente: viene solo indicato il riferimento (con cf). Per una comprensione appro­fondita di tali passaggi si deve ricorrere ai testi stessi. Questi riferimenti biblici costituiscono uno strumento di lavoro per la catechesi.

20 - L'uso dei caratteri piccoli in certi passaggi sta ad indicare che si tratta di annotazioni di tipo storico, apologetico o di esposizioni dottri­nali complementari.

21 - Le citazioni di fonti patristiche, liturgiche, magisteriali o agiografi­che sono stampate in caratteri piccoli e rientranti. Esse sono destinate ad arricchire l'esposizione dottrinale. Spesso tali testi sono stati scelti in vista di un uso direttamente catechistico. Alla fine di ogni unità tematica, una serie di testi brevi riassu­mono in formule concise l'essenziale dell'insegnamento. Questi «in sintesi» hanno lo scopo di offrire suggerimenti alla catechesi locale per formule sintetiche e memorizzabili.

VI. Gli adattamenti necessari.

23 - L'accento di questo Catechismo è posto sull'esposizione dottrinale. Infatti, esso vuole aiutare ad approfondire la conoscenza della fede. Proprio per questo è orientato alla maturazione della fede, al suo radi­camento nella vita ed alla sua irradiazione attraverso la testimonianza.

24 - Per la sua intrinseca finalità, questo Catechismo non si propone di attuare gli adattamenti dell'esposizione e dei metodi catechistici che sono richiesti dalle differenze di cultura, di età, di vita spirituale e di situazioni sociali ed ecclesiali di coloro cui la catechesi è rivolta. Questi indispensabili adattamenti sono lasciati a catechismi appropriati e, ancor più, a coloro che istruiscono i fedeli: «Colui che insegna deve farsi tutto a tutti per guadagnare tutti a Gesù Cristo (…). In primo luogo non pensi che le anime a lui affidate abbia­no tutte lo stesso livello. Non si può perciò con un metodo unico ed invariabile istruire e formare i fedeli alla vera devozione. Poiché taluni sono come bambini appena nati, altri cominciano appena a crescere in Cristo, altri infine appaiono effettivamente già adulti, è necessario con­siderare con diligenza chi ha bisogno del latte e chi del cibo solido [...]. L'Apostolo indicò tale dovere [...], che cioè coloro che sono chiamati al ministero della predicazione devono, nel trasmettere l'insegnamento dei misteri della fede e delle norme dei costumi, adattare opportunamente la propria personale cultura all'intelligenza e alle facoltà degli ascol­tatori».

Al di sopra di tutto - la carità.

25 - Per concludere questa presentazione, è opportuno ricordare il seguente principio pastorale enunciato dal Catechismo Romano: «In realtà è questa la via più sublime che l'Apostolo additava, quando indirizzava tutta la sostanza della dottrina e dell'insegnamento alla cari­tà che non avrà mai fine. Infatti sia che si espongano le verità della fe­de o i motivi della speranza o i doveri dell'attività morale, sempre e in tutto va dato rilievo all'amore di nostro Signore, così da far compren­dere che ogni esercizio di perfetta virtù cristiana non può scaturire se non dall'amore, come nell'amore ha d'altronde il suo ultimo fine».

 

PARTE PRIMA

LA PROFESSIONE DELLA FEDE

 

SEZIONE PRIMA

«IO CREDO» - «NOI CREDIAMO»

 

CAPITOLO PRIMO

L'UOMO E’ «CAPACE» DI DIO.

I. Il desiderio di Dio.

27 - Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell'uomo, perché l'uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l'uomo e soltanto in Dio l'uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa: «La ragione più alta della dignità dell'uomo consiste nella sua vocazio­ne alla comunione con Dio. Fin dal suo nascere l'uomo è invitato al dialogo con Dio: non esiste, infatti, se non perché, creato per amore da Dio, da lui sempre per amore è conservato, né vive pienamente se­condo verità se non lo riconosce liberamente e non si affida al suo Creatore».

28 - Nel corso della loro storia, e fino ai giorni nostri, la ricerca di Dio da parte degli uomini si è espressa in molteplici modi, attraverso le loro credenze ed i loro comportamenti religiosi (preghiere, sacrifici, culti, meditazioni, ecc). Malgrado le ambiguità che possono presentare, tali forme d'espressione sono così universali che l'uomo può essere definito un essere religioso: Dio «creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l'ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovar­lo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,26-28).

29 - Ma questo «intimo e vitale legame con Dio» può essere dimenti­cato, misconosciuto e perfino esplicitamente rifiutato dall'uomo. Tali atteggiamenti possono avere origini assai diverse: la ribellione contro la presenza del male nel mondo, l'ignoranza o l'indifferenza religiosa, le preoccupazioni del mondo e delle ricchezze, il cattivo esempio dei cre­denti, le correnti di pensiero ostili alla religione, e infine la tendenza dell'uomo peccatore a nascondersi, per paura, davanti a Dio e a fug­gire davanti alla sua chiamata.

30 - «Gioisca il cuore di chi cerca il Signore» (Sal 105,3). Se l'uomo può dimenticare o rifiutare Dio, Dio però non si stanca di chiamare ogni uomo a cercarlo perché viva e trovi la felicità. Ma tale ricerca esi­ge dall'uomo tutto lo sforzo della sua intelligenza, la rettitudine della sua volontà, «un cuore retto» ed anche la testimonianza di altri che lo guidino nella ricerca di Dio. «Tu sei grande, Signore, e ben degno di lode; grande è la tua potenza e la tua sapienza incalcolabile. E l'uomo vuole lodarti, una particella del tuo creato che si porta attorno il suo destino mortale, che si porta attorno la prova del suo peccato e la prova che tu resisti ai superbi. Eppure l'uomo, una particella del tuo creato, vuole lodarti. Sei tu che lo stimoli a dilettarsi delle tue lodi, perché ci hai fatti per te e il nostro cuore non ha posa finché non riposa in te».

Il. Le vie che portano alla conoscenza di Dio.

31 - Creato a immagine di Dio, chiamato a conoscere e ad amare Dio, l'uomo che cerca Dio scopre alcune «vie» per arrivare alla conoscenza di Dio. Vengono anche chiamate «prove dell'esistenza di Dio», non nel senso delle prove ricercate nel campo delle scienze naturali, ma nel senso di «argomenti convergenti e convincenti» che permettono di rag­giungere vere certezze. Queste «vie» per avvicinarsi a Dio hanno come punto di partenza la creazione: il mondo materiale e la persona umana. 32 - Il mondo: partendo dal movimento e dal divenire, dalla contingen­za, dall'ordine e dalla bellezza del mondo si può giungere a conoscere Dio come origine e fine dell'universo. San Paolo riguardo ai pagani afferma: «Ciò che di Dio si può conosce­re è loro manifesto; Dio stesso lo ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l'intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità» (Rm l,19-20). E sant'Agostino dice: «Interroga la bellezza della terra, del mare, dell'aria rarefatta e dovunque espansa; interroga la bellezza del cielo, interroga tutte queste realtà. Tutte ti risponderanno: guardaci pure e osserva come siamo belle. La loro bellezza è come un loro inno di lo­de ["confessio"]. Ora, queste creature, così belle ma pur mutevoli, chi le ha fatte se non uno che è bello ["Pulcher"] in modo immutabile?».

33 - L'uomo: con la sua apertura alla verità e alla bellezza, con il suo senso del bene morale, con la sua libertà e la voce della coscienza, con la sua aspirazione all'infinito e alla felicità, l'uomo si interroga sull'esi­stenza di Dio. In queste aperture egli percepisce segni della propria ani­ma spirituale. «Germe dell'eternità che porta in sé, irriducibile alla sola materia », la sua anima non può avere la propria origine che in Dio solo.

34 - Il mondo e l'uomo attestano che essi non hanno in se stessi né il loro primo principio né il loro fine ultimo, ma che partecipano di quell'«Esse­re» che è in sé senza origine né fine. Così, attraverso queste diverse «vie», l'uomo può giungere alla conoscenza dell'esistenza di una realtà che è la causa prima e il fine ultimo di tutto e «che tutti chiamano Dio ».

35 - L'uomo ha facoltà che lo rendono capace di conoscere l'esistenza di un Dio personale. Ma perché l'uomo possa entrare nella sua intimi­tà, Dio ha voluto rivelarsi a lui e donargli la grazia di poter accogliere questa rivelazione nella fede. Tuttavia, le prove dell'esistenza di Dio possono disporre alla fede ed aiutare a constatare che questa non si oppone alla ragione umana.

III. La conoscenza di Dio secondo la Chiesa.

36 - «La santa Chiesa, nostra Madre, sostiene e insegna che Dio, prin­cipio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale della ragione umana partendo dalle cose create». Senza questa capacità, l'uomo non potrebbe accogliere la rivelazione di Dio. L'uomo ha questa capacità perché è creato «a immagine di Dio» (Gn 1,27).

37 - Tuttavia, nelle condizioni storiche in cui si trova, l'uomo incontra molte difficoltà per conoscere Dio con la sola luce della ragione. «Infatti, sebbene la ragione umana, per dirla semplicemente, con le sole sue forze e la sua luce naturale possa realmente pervenire ad una cono­scenza vera e certa di un Dio personale, il quale con la sua provvidenza si prende cura del mondo e lo governa, come pure di una legge natura­le inscritta dal Creatore nelle nostre anime, tuttavia la stessa ragione in­contra non poche difficoltà ad usare efficacemente e con frutto questa sua capacità naturale. Infatti le verità che concernono Dio e riguardano i rapporti che intercorrono tra gli uomini e Dio trascendono assoluta­mente l'ordine delle cose sensibili, e, quando devono tradursi in azioni e informare la vita, esigono devoto assenso e la rinuncia a se stessi. Lo spirito umano, infatti, nella ricerca intorno a tali verità, viene a trovarsi in difficoltà sotto l'influsso dei sensi e dell'immaginazione ed anche a causa delle tendenze malsane nate dal peccato originale. Da ciò conse­gue che gli uomini facilmente si persuadono, in tali argomenti, che è falso o quanto meno dubbio ciò che essi non vorrebbero che fosse vero».

38 - Per questo l'uomo ha bisogno di essere illuminato dalla rivelazione di Dio, non solamente su ciò che supera la sua comprensione, ma anche sulle «verità religiose e morali che, di per sé, non sono inaccessi­bili alla ragione, affinché ella presente condizione del genere umano possano essere conosciute da tutti senza difficoltà, con ferma certezza e senza mescolanza d'errore ».

IV. Come parlare di Dio?

39 - Nel sostenere la capacità che la ragione umana ha di conoscere Dio, la Chiesa esprime la sua fiducia nella possibilità di parlare di Dio a tutti gli uomini e con tutti gli uomini. Questa convinzione sta alla base del suo dialogo con le altre religioni, con la filosofia e le scienze, come pure con i non credenti e gli atei.

40 - Essendo la nostra conoscenza di Dio limitata, lo è anche il nostro linguaggio su Dio. Non possiamo parlare di Dio che a partire dalle creature e secondo il nostro modo umano, limitato, di conoscere e di pensare.

41 - Le creature hanno tutte una certa somiglianza con Dio, in modo particolarissimo l'uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Le molteplici perfezioni delle creature (la loro verità, bontà, bellezza) riflet­tono dunque la perfezione infinita di Dio. Di conseguenza, noi possia­mo parlare di Dio a partire dalle perfezioni delle sue creature, «difatti dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l'auto­re» (Sap 13,5).

42 - Dio trascende ogni creatura. Occorre dunque purificare continua­mente il nostro linguaggio da ciò che ha di limitato, di immaginoso, di imperfetto per non confondere il Dio «ineffabile, incomprensibile, invi­sibile, inafferrabile» con le nostre rappresentazioni umane. Le parole umane restano sempre al di qua del mistero di Dio.

43 - Parlando così di Dio, il nostro linguaggio certo si esprime alla ma­niera umana, ma raggiunge realmente Dio stesso, senza tuttavia poterlo esprimere nella sua infinita semplicità. Ci si deve infatti ricordare che «non si può rilevare una qualche somiglianza tra Creatore e creatura senza che si debba notare tra di loro una dissomiglianza ancora mag­giore » e che «noi non possiamo cogliere di Dio ciò che egli è, ma solamente ciò che egli non è, e come gli altri esseri si pongano in rap­porto a lui».

In sintesi

44 - L'uomo è per natura e per vocazione un essere religioso. Poiché viene da Dio e va a Dio, l'uomo non vive una vita pienamente umana, se non vive liberamente il suo rapporto con Dio.

45 - L'uomo è creato per vivere in comunione con Dio, nel quale trova la propria felicità: «Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà per me dolore e pena. Sarà vera vita la mia, tutta piena di te».

46 - Quando ascolta il messaggio delle creature e la voce della propria coscienza, l'uomo può raggiungere la certezza dell 'esistenza di Dio, causa e fine di tutto.

47 - La Chiesa insegna che il Dio unico e vero, nostro Creatore e Signore, può essere conosciuto con certezza attraverso le sue opere, grazie alla luce naturale della ragione umana.

48 - Partendo dalle molteplici perfezioni delle creature, similitudini del Dio infinitamente perfetto, possiamo realmente parlare di Dio, anche se il nostro linguaggio limitato non ne esaurisce il mistero.

49 - «La creatura senza il Creatore svanisce». Ecco perché i credenti sanno di essere spinti dall 'amore di Cristo a portare la luce del Dio vivente a coloro che lo ignorano o lo rifiutano.

CAPITOLO SECONDO

DIO VIENE INCONTRO ALL'UOMO

50 - Per mezzo della ragione naturale, l'uomo può conoscere Dio con certezza a partire dalle sue opere. Ma esiste un altro ordine di cono­scenza a cui l'uomo non può affatto arrivare con le sue proprie forze, quello della rivelazione divina. Per una decisione del tutto libera, Dio si rivela e si dona all'uomo svelando il suo mistero, il suo disegno di benevolenza prestabilito da tutta l'eternità in Cristo a favore di tutti gli uomini. Egli rivela pienamente il suo disegno inviando il suo Figlio pre­diletto, il Signore nostro Gesù Cristo, e lo Spirito Santo.

Articolo 1

LA RIVELAZIONE DI DIO

I. Dio rivela il suo «disegno di benevolenza».

51 - «Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono così resi partecipi della divina natura ».

52 - Dio che «abita una luce inaccessibile» (1 Tm 6,16) vuole comuni­care la propria vita divina agli uomini da lui liberamente creati, per farli figli adottivi nel suo unico Figlio. Rivelando se stesso, Dio vuole rendere gli uomini capaci di rispondergli, di conoscerlo e di amarlo ben più di quanto sarebbero capaci da se stessi.

53 - Il disegno divino della Rivelazione si realizza ad un tempo «con eventi e parole» che sono «intimamente connessi tra loro» e si chia­riscono a vicenda. Esso comporta una «pedagogia divina» particolare: Dio si comunica gradualmente all'uomo, lo prepara per tappe a ricevere la rivelazione soprannaturale che egli fa di se stesso e che culmina nella Persona e nella missione del Verbo incarnato, Gesù Cristo. Sant'Ireneo di Lione parla a più riprese di questa pedagogia divina sot­to l'immagine della reciproca familiarità tra Dio e l'uomo: «Il Verbo di Dio [...] pose la sua abitazione tra gli uomini e si è fatto Figlio del­l’uomo, per abituare l'uomo a comprendere Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora nell'uomo secondo la volontà del Padre».

II. Le tappe della Rivelazione.

FIN DAL PRINCIPIO, DIO SI FA CONOSCERE

54 - «Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo, offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé. Inoltre, volendo aprire la via della salvezza celeste, fin dal principio manifestò se stesso ai progenitori». Li ha invitati ad una intima comunione con sé, rivestendoli di uno splendore di grazia e di giustizia.

55 - Questa rivelazione non è stata interrotta dal peccato dei nostri pro­genitori. Dio, in realtà, «dopo la loro caduta, con la promessa della re­denzione, li risollevò nella speranza della salvezza ed ebbe costante cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro i quali cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene». «Quando, per la sua disobbedienza, l'uomo perse la tua amicizia, tu non l'hai abbandonato in potere della morte. [...] Molte volte hai offerto agli uomini la tua alleanza».

L'ALLEANZA CON NOE'

56 - Dopo che l'unità del genere umano è stata spezzata dal peccato, Dio cerca prima di tutto di salvare l'umanità intervenendo in cia­scuna delle sue parti. L'Alleanza con Noè dopo il diluvio esprime il principio dell'economia divina verso le «nazioni», ossia gli uomini riu­niti in gruppi, «ciascuno secondo la propria lingua e secondo le loro famiglie, nelle loro nazioni» (Gn l0,5).

57 - Quest'ordine, ad un tempo cosmico, sociale e religioso della plura­lità delle nazioni, ha lo scopo di limitare l'orgoglio di una umanità de­caduta, la quale, concorde nella malvagità, vorrebbe costruire da se stessa la propria unità alla maniera di Babele. Ma, a causa del pecca­to, sia il politeismo che l'idolatria della nazione e del suo capo costi­tuiscono una continua minaccia di perversione pagana per questa eco­nomia provvisoria.

58 - L'Alleanza con Noè resta in vigore per tutto il tempo delle nazioni, fino alla proclamazione universale del Vangelo. La Bibbia venera alcune grandi figure delle «nazioni», come «Abele il giusto», il re-sacerdote Melchisedek, figura di Cristo, i giusti «Noè, Daniele e Giobbe» (Ez 14,14). La Scrittura mostra così a quale altezza di santità possano giungere coloro che vivono secondo l'Alleanza di Noè nell'attesa che Cristo riunisca «insieme tutti i figli di Dio che erano dispersi» (Gv 11,52).

DIO ELEGGE ABRAMO

59 - Per riunire tutta l'umanità dispersa, Dio sceglie Abram chiamando­lo: «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre» (Gn 12,1), per fare di lui Abramo (Abraham), vale a dire «il padre di una moltitudine di popoli» (Gn 17,5): «In te saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gn l2,3).

60 - Il popolo discendente da Abramo sarà il depositano della Promes­sa fatta ai patriarchi, il popolo dell'elezione, chiamato a preparare la ricomposizione, un giorno, nell'unità della Chiesa, di tutti i figli di Dio; questo popolo sarà la radice su cui verranno innestati i pagani diventati credenti.

61 - I patriarchi e i profeti ed altre figure dell'Antico Testamento sono stati e saranno sempre venerati come santi in tutte le tradizioni liturgi­che della Chiesa.

DIO FORMA ISRAELE COME SUO POPOLO

62 - Dopo i patriarchi, Dio forma Israele quale suo popolo salvandolo dalla schiavitù dell'Egitto. Conclude con lui l'Alleanza del Sinai e gli dà, per mezzo di Mosè, la sua Legge, perché lo riconosca e lo serva co­me l'unico Dio vivo e vero, Padre provvido e giusto giudice, e stia in attesa del Salvatore promesso.

63 - Israele è il popolo sacerdotale di Dio, colui che «porta il nome del Signore» (Dt 28,10). È il popolo di coloro «a cui Dio ha parlato quale primogenito», il popolo dei «fratelli maggiori» nella fede di Abramo.

64 - Attraverso i profeti, Dio forma il suo popolo nella speranza della salvezza, nell'attesa di un'Alleanza nuova ed eterna destinata a tutti gli uomini e che sarà inscritta nei cuori. I profeti annunziano una ra­dicale redenzione del popolo di Dio, la purificazione da tutte le sue in­fedeltà, una salvezza che includerà tutte le nazioni. Saranno tutto i poveri e gli umili del Signore che porteranno questa speranza. Le donne sante come Sara, Rebecca, Rachele, Miryam, Debora, Anna, Giuditta ed Ester hanno conservato viva la speranza della salvezza d'Israele. Maria ne è l'immagine più luminosa.

III. Cristo Gesù «mediatore e pienezza di tutta la Rivelazione».

DIO HA DETTO TUTTO NEL SUO VERBO

65 - «Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in di­versi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1,1-2). Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, è la Parola unica, perfetta e definitiva del Padre, il quale in lui dice tutto, e non ci sarà altra parola che quella. San Gio­vanni della Croce, sulle orme di tanti altri, esprime ciò in maniera luminosa, commentando Eb l,1-2: «Dal momento in cui ci ha donato il Figlio suo, che è la sua unica e definitiva Parola, ci ha detto tutto in una sola volta in questa sola Pa­rola e non ha più nulla da dire. [...] Infatti quello che un giorno diceva parzialmente ai profeti, ce l'ha detto tutto nel suo Figlio, donandoci questo tutto che è il suo Figlio. Perciò chi volesse ancora interrogare il Signore e chiedergli visioni o rivelazioni, non solo commetterebbe una stoltezza, ma offenderebbe Dio, perché non fissa il suo sguardo unica­mente in Cristo e va cercando cose diverse o novità al di fuori di lui».

NON CI SARÀ ALTRA RIVELAZIONE

66 - «L'economia cristiana, in quanto è Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai e non c'è da aspettarsi alcuna nuova rivelazione pub­blica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cri­sto». Tuttavia, anche se la Rivelazione è compiuta, non è però com­pletamente esplicitata; toccherà alla fede cristiana coglierne gradualmen­te tutta la portata nel corso dei secoli.

67 - Lungo i secoli ci sono state delle rivelazioni chiamate «private», alcune delle quali sono state riconosciute dall'autorità della Chiesa. Esse non apparten­gono tuttavia al deposito della fede. Il loro ruolo non è quello di «migliorare» o di «completare» la Rivelazione definitiva di Cristo, ma di aiutare a viverla più pienamente in una determinata epoca storica. Guidato dal Magistero della Chiesa, il senso dei fedeli sa discernere e accogliere ciò che in queste rivelazioni costituisce un appello autentico di Cristo o dei suoi santi alla Chiesa. La fede cristiana non può accettare «rivelazioni» che pretendono di superare o correggere la Rivelazione di cui Cristo è il compimento. È il caso di alcune religioni non cristiane ed anche di alcune recenti sette che si fondano su tali «rivelazioni».

In sintesi

68 - Per amore, Dio si è rivelala e si è donato all 'uomo. Egli offre così una risposta definitiva e sovrabbondante agli interrogativi che l'uomo si pone sul senso e sul fine della propria vita.

69 - Dio si è rivelato all'uomo comunicandogli gradualmente il suo mistero attraverso gesti e parole.

70 - Al di là della testimonianza che dà di se stesso nelle cose create, Dio si è manifestato ai nostri progenitori. Ha loro parlato e, dopo la caduta, ha loro promesso la salvezza ed offerto la sua Alleanza.

71 - Dio ha concluso con Noè un 'Alleanza eterna tra lui e tutti gli esseri viventi. Essa durerà tanto quanto durerà il mondo.

72 - Dio ha eletto Abramo ed ha concluso un’Alleanza con lui e la sua discendenza. Ne ha fatto il suo papalo al quale ha rivelala la sua Legge per mezzo di Mosè. Lo ha preparato, per mezzo dei profeti, ad accogliere la salvezza destinata a tutta l'umanità.

73 - Dio si è rivelato pienamente mandando il suo proprio Figlio, nel quale ha stabilito la sua Alleanza per sempre. Egli è la Parala definitiva del Padre, così che, dopo di lui, non vi sarà più un’altra rivelazione.

Articolo 2

LA TRASMISSIONE DELLA RIVELAZIONE DIVINA

74 - Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati ed arrivino alla cono­scenza della verità» (1 Tm 2,4), cioè di Gesù Cristo. È necessario per­ciò che il Cristo sia annunciato a tutti i popoli e a tutti gli uomini e che in tal modo la Rivelazione arrivi fino ai confini del mondo: «Dio, con la stessa somma benignità, dispose che quanto egli aveva ri­velato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse sempre integro e venis­se trasmesso a tutte le generazioni».

I. La Tradizione apostolica.

75 - «Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta la rivelazione del sommo Dio, ordinò agli Apostoli, comunicando loro i doni divini, di predicare a tutti il Vangelo che, promesso prima per mezzo dei pro­feti, egli aveva adempiuto e promulgato con la sua parola, come fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale

LA PREDICAZIONE APOSTOLICA

76 - La trasmissione del Vangelo, secondo il comando del Signore, è stata fatta in due modi: Oralmente, «dagli Apostoli, i quali nella predicazione orale, ne­gli esempi e nelle istituzioni trasmisero ciò che o avevano rice­vuto dalla bocca, dalla vita in comune e dalle opere di Cristo, o avevano imparato per suggerimento dello Spirito Santo»; Per iscritta, «da quegli Apostoli e uomini della loro cerchia, i quali, sotto l'ispirazione dello Spirito Santo, misero in iscritto l'annunzio della salvezza». ...CONTINUATA ATTRAVERSO LA SUCCESSIONE APOSTOLICA

77 - «Affinchè il Vangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, gli Apostoli lasciarono come successori i Vescovi, ad essi affi­dando il loro proprio compito di magistero». Infatti, «la predicazio­ne apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva essere conservata con successione continua fino alla fine dei tempi ».

78 - Questa trasmissione viva, compiuta nello Spirito Santo, è chiamata Tradizione, in quanto è distinta dalla Sacra Scrittura, sebbene sia ad es­sa strettamente legata. Per suo tramite «la Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazio­ni, tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede». « Le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega ».

79 - In tal modo la comunicazione, che il Padre ha fatto di sé mediante il suo Verbo nello Spirito Santo, rimane presente e operante nella Chie­sa: «Dio, il quale ha parlato in passato, non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce del Vangelo risuona nella Chiesa, e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti a tutta intera la verità e fa risiedere in essi abbondantemente la parola di Cristo.

lI. Il rapporto tra la Tradizione e la Sacra Scrittura

UNA SORGENTE COMUNE...

80 - «La sacra Tradizione e la Sacra Scrittura sono tra loro strettamen­te congiunte e comunicanti. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo una cosa sola e ten­dono allo stesso fine ». L'una e l'altra rendono presente e fecondo nel­la Chiesa il mistero dì Cristo, il quale ha promesso di rimanere con i suoi «tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

DUE MODI DIFFERENTI DI TRASMISSIONE

81 - «La Sacra Scrittura è la parola di Dio in quanto è messa per iscritto sotto l'ispirazione dello Spirito divino».

«La sacra Tradizione poi trasmette integralmente la parola di Dio, affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli Apostoli, ai loro successori, affinché questi, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano.

82 - Accade così che la Chiesa, alla quale è affidata la trasmissione e l'interpretazione della Rivelazione, «attinga la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Sacra Scrittura. Perciò l'una e l'altra devo­no essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e di rispetto».

TRADIZIONE APOSTOLICA E TRADIZIONI ECCLESIALI

83 - La Tradizione di cui qui parliamo è quella che proviene dagli Apostoli e trasmette ciò che costoro hanno ricevuto dall'insegnamento e dall'esempio di Gesù e ciò che hanno appreso dallo Spirito Santo. In realtà, la prima genera­zione di cristiani non aveva ancora un Nuovo Testamento scritto e lo stesso Nuovo Testamento attesta il processo della Tradizione vivente. Vanno distinte da questa le «tradizioni» teologiche, disciplinari, liturgiche o devozionali nate nel corso del tempo nelle Chiese locali. Esse costituiscono forme particolari attraverso le quali la grande Tradizione si esprime in forme adatte ai diversi luoghi e alle diverse epoche. Alla luce della Tradizione aposto­lica queste «tradizioni» possono essere conservate, modificate oppure anche abbandonate sotto la guida del Magistero della Chiesa.

III. L'interpretazione del deposito della fede.

IL DEPOSITO DELLA FEDE AFFIDATO ALLA TOTALITÀ DELLA CHIESA 84 - Il deposito della fede («depositum fidei»), contenuto nella sacra Tradizione e nella Sacra Scrittura, è stato affidato dagli Apostoli alla totalità della Chiesa. «Aderendo ad esso tutto il popolo santo, unito ai suoi Pastori, persevera costantemente nell'insegnamento degli Apostoli e nella comunione, nella frazione del pane e nelle orazioni, in modo che, nel ritenere, praticare e professare la fede trasmessa, si crei una singola­re unità di spirito tra Vescovi e fedeli».

IL MAGISTERO DELLA CHIESA

85 - «L'ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo», e cioè ai Vescovi in comunione con il Successore di Pietro, il Vescovo di Roma.

86 - Questo «Magistero però non è al di sopra della Parola di Dio, ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente la ascolta, santamente la custodisce e fedelmente la espone, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone da credere come rivelato da Dio ».

87 - I fedeli, memori della parola di Cristo ai suoi Apostoli: «Chi ascolta voi, ascolta me» (Lc l0,l6), accolgono con docilità gli insegnamenti e le direttive che vengono loro dati, sotto varie forme, dai Pastori.

I DOGMI DELLA FEDE

88 - Il Magistero della Chiesa si avvale in pienezza dell'autorità che gli viene da Cristo quando definisce qualche dogma, cioè quando, in una forma che obbliga il popolo cristiano ad un'irrevocabile adesione di fe­de, propone verità contenute nella rivelazione divina, o anche quando propone in modo definitivo verità che hanno con quelle una necessaria connessione.

89 - Tra i dogmi e la nostra vita spirituale c'è un legame organico. I dogmi sono luci sul cammino della nostra fede, lo rischiarano e lo ren­dono sicuro. Inversamente, se la nostra vita è retta, la nostra intelligen­za e il nostro cuore saranno aperti ad accogliere la luce dei dogmi della fede.

90 - I mutui legami e la coerenza dei dogmi si possono trovare nel complesso della rivelazione del mistero di Cristo. «Esiste un ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana».

IL SENSO SOPRANNATURALE DELLA FEDE

91 - tutti i fedeli partecipano della comprensione e della trasmissione della verità rivelata. Hanno ricevuto l’unzione dello Spirito Santo che insegna loro ogni cosa e li guida «alla verità tutta intera».

92 - «La totalità dei fedeli (…) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo quando “dai Vescovi fino agli ultimi fedeli laici” esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi».

93 - «Infatti, per quel senso della fede, che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità, il popolo di Dio, sotto la guida del sacro Magistero, (…) aderisce indefettibilmente alla fede una volta per tutte trasmessa ai santi, con retto giudizio penetra in essa più a fondo e più pienamente l’applica nella vita».

LA CRESCITA NELL’INTELLIGENZA DELLA FEDE

94 - Grazie all’assistenza dello Spirito Santo, l’intelligenza tanto delle realtà quanto delle parole del deposito della fede può progredire nella vita della Chiesa: - «con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro»; in particolare «la ricerca teologica (…) prosegue nella conoscenza profonda della verità rivelata». «con la profonda intelligenza che (i credenti) provano delle co­se spirituali»; «divina eloquia cum legente crescunt - le paro­le divine crescono insieme con chi le legge»; «con la predicazione di coloro i quali, con la successione epi­scopale, hanno ricevuto un carisma certo di verità».

95 - «E’ chiaro dunque che la sacra Tradizione, la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che non possono indipendentemente sussistere e che tutti insieme, ciascuno secondo il proprio modo, sotto l'azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla sal­vezza delle anime».

In sintesi

96 - Ciò che Cristo ha affidato agli Apostoli, costoro l’hanno trasmesso con la predicazione o per iscritto, sotto l'ispirazione dello Spirito San­to, a tutte le generazioni, fino al ritorno glorioso di Cristo.

97 - «La sacra Tradizione e la Sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della Parola di Dio», nel quale, come in uno specchio, la Chiesa pellegrina contempla Dio, fonte di tutte le sue ricchezze.

98 - «La Chiesa, nella sua dottrina, nella sua vita, nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa stessa é, tutto ciò che essa crede». 99 - Tutto il popolo di Dio, in virtù del suo senso soprannaturale della fe­de, non cessa di accogliere il dono della rivelazione divina, di penetrarlo sempre più profondamente e di viverlo più pienamente.

100 - L'ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio é stato affi­dato al solo Magistero della Chiesa, al Romano Pontefice e ai Vescovi in comunione con lui.

Articolo 3

LA SACRA SCRITTURA

I. Il Cristo - Parola unica della Sacra Scrittura.

101 - Nella condiscendenza della sua bontà, Dio, per rivelarsi agli uo­mini, parla loro in parole umane. «Le parole di Dio, infatti, espresse con lingue umane, si sono fatte simili al linguaggio degli uomini, come già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell'umana natura, si fece simile agli uomini».

102 - Dio, attraverso tutte le parole della Sacra Scrittura, non dice che una sola Parola, il suo unico Verbo, nel quale esprime se stesso intera­mente. «Ricordatevi che uno solo è il discorso di Dio che si sviluppa in tutta la Sacra Scrittura ed uno solo é il Verbo che risuona sulla bocca di tut­ti gli scrittori santi, il quale essendo in principio Dio presso Dio, non conosce sillabazione perché è fuori del tempo».

103 - Per questo motivo, la Chiesa ha sempre venerato le divine Scrittu­re, come venera il Corpo stesso del Signore. Essa non cessa di porgere ai fedeli il Pane di vita preso dalla mensa della Parola di Dio e del Corpo di Cristo.

104 - Nella Sacra Scrittura, la Chiesa trova incessantemente il suo nutri­mento e il suo vigore; infatti attraverso la divina Scrittura essa non acco­glie soltanto una parola umana, ma quello che è realmente: Parola di Dio. «Nei Libri Sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con loro».

II. Ispirazione e verità della Sacra Scrittura.

105 - Dio è l'autore della Sacra Scrittura. «Le cose divinamente rivelate, che nei libri della Sacra Scrittura sono contenute e presentate, furono consegnate sotto l'ispirazione dello Spirito Santo. «La santa Madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e cano­nici tutti interi i libri sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché, scritti sotto ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa».

106 - Dio ha ispirato gli autori umani dei Libri Sacri. «Per la composi­zione dei Libri Sacri, Dio scelse degli uomini, di cui si servì nel posses­so delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli stesso in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose che egli voleva».

107 - I libri ispirati insegnano la verità. «Poiché dunque tutto ciò che gli autori ispirati o agiografi asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, si deve dichiarare, per conseguenza, che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio per la nostra salvezza volle fosse consegnata nelle Sacre Lettere.

108 - La fede cristiana tuttavia non è una «religione del Libro». Il cri­stianesimo è la religione della «Parola» di Dio: di una Parola cioè che non è «una parola scritta e muta, ma il Verbo incarnato e vivente». Perché le parole dei Libri Sacri non restino lettera morta, è necessario che Cristo, Parola eterna del Dio vivente, per mezzo dello Spirito Santo ce ne sveli il significato affinché comprendiamo le Scritture.

III. Lo Spirito Santo, interprete della Scrittura.

109 - Nella Sacra Scrittura, Dio parla all'uomo alla maniera umana. Per una retta interpretazione della Scrittura, bisogna dunque ricercare con attenzione che cosa gli agiografi hanno veramente voluto affermare e che cosa è piaciuto a Dio manifestare con le loro parole.

110 - Per comprendere l'intenzione degli autori sacri, si deve tener conto delle condizioni del loro tempo e della loro cultura, dei «generi lettera­ri» allora in uso, dei modi di intendere, di esprimersi, di raccontare, consueti nella loro epoca. «La verità infatti viene diversamente proposta ed espressa nei testi secondo se sono storici o profetici, o poetici, o altri generi di espressione».

111 - Però, essendo la Sacra Scrittura ispirata, c'è un altro principio di retta interpretazione, non meno importante del precedente, senza il qua­le la Scrittura resterebbe «lettera morta»: «La Sacra Scrittura [deve] essere letta e interpretata con l'aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta». Il Concilio Vaticano Il indica tre criteri per una interpretazione della Scrittura conforme allo Spirito che l'ha ispirata.

112 - 1. Prestare grande attenzione «al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura». Infatti, per quanto siano differenti i libri che la compongo­no, la Scrittura è una in forza dell'unità del disegno di Dio, del quale Cristo Gesù è il centro e il cuore aperto dopo la sua pasqua. «Il cuore di Cristo designa la Sacra Scrittura, che appunto rivela il cuore di Cristo. Questo cuore era chiuso prima della passione, perché la Scrittura era oscura. Ma la Scrittura è stata aperta dopo la passione, affinché coloro che ormai ne hanno l'intelligenza considerino e com­prendano come le profezie debbano essere interpretate».

113 - 2. Leggere la Scrittura nella «Tradizione vivente di tutta la Chie­sa». Secondo un detto dei Padri, «Sacra Scriptura principalius est in corde Ecclesiae quam in materialibus instrumentis scripta - la Sacra Scrittura è scritta nel cuore della Chiesa prima che su strumenti mate­riali». Infatti, la Chiesa porta nella sua Tradizione la memoria viva della Parola di Dio ed è lo Spirito Santo che le dona l'interpretazione di essa secondo il senso spirituale (« .. .secundum spiritalem sensum, quem Spiritus donat Ecclesiae - …secondo il senso spirituale che lo Spi­rito dona alla Chiesa »).

114 - 3. Essere attenti all'analogia della fede. Per «analogia della fede» intendiamo la coesione delle verità della fede tra loro e nella totalità del progetto della Rivelazione.

I SENSI DELLA SCRITTURA

115 - Secondo un'antica tradizione, si possono distinguere due sensi della Scrit­tura: il senso letterale e quello spirituale, suddiviso quest'ultimo in senso allego­rico, morale e anagogico. La piena concordanza dei quattro sensi assicura alla lettura viva della Scrittura nella Chiesa tutta la sua ricchezza.

116 - Il senso letterale. È quello significato dalle parole della Scrittura e trovato attraverso l'esegesi che segue le regole della retta interpretazione. «Omnes (Sacrae Sripturae) sensus fundentur super unum, scilicet litteralem. Tutti i sen­si della Sacra Scrittura si basano su quello letterale».

117 - Il senso spirituale. Data l'unità del disegno di Dio, non soltanto il testo della Scrittura, ma anche le realtà e gli avvenimenti di cui parla possono essere dei segni.

1. Il senso allegorico. Possiamo giungere ad una comprensione più profon­da degli avvenimenti se riconosciamo il loro significato in Cristo; così, la tra­versata del Mar Rosso è un segno della vittoria di Cristo, e quindi del Battesimo.

2. Il senso morale. Gli avvenimenti narrati nella Scrittura possono condurci ad agire rettamente. Sono stati scritti «per ammonimento nostro» (I Cor 10,1 1).

3. Il senso anagogico. Possiamo vedere certe realtà e certi avvenimenti nel loro significato eterno, che ci conduce verso la nostra Patria. Così la Chiesa sulla terra è segno della Gerusalemme celeste.

118 - Un distico medievale riassume bene il significato dei quattro sensì: «Littera gesta docet, quid credas allegoria, moralis quid agas, quo tendas anagogia». « La lettera insegna i fatti, l'allegoria che cosa credere, il senso morale che cosa fare, e l'anagogia dove tendere».

119 - «È compito degli esegeti contribuire, secondo queste regole, alla più profonda intelligenza ed esposizione del senso della Sacra Scrittura, affinché, con studi in qualche modo preparatori, maturi il giudizio della Chiesa. Tutto questo, infatti, che concerne il modo di interpretare la Scrittura, è sottoposto in ultima istanza al giudizio della Chiesa, la qua­le adempie il divino mandato e ministero di conservare ed interpretare la Parola di Dio». «Ego vero Evangelio non crederem, nisi me catholicae Ecclesiae com­moveret auctoritas - Non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l'autorità della Chiesa cattolica».

IV. Il canone delle Scritture.

120 - È stata la Tradizione apostolica a far discernere alla Chiesa quali scritti dovessero essere compresi nell'elenco dei Libri Sacri. Questo elenco completo è chiamato «canone» delle Scritture. Comprende per l'Antico Testamento 46 libri (45 se si considerano Geremia e le Lamen­tazioni come un unico testo) e 27 per il Nuovo Testamento. Essi sono: Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio, Giosué, Giudici, Rut, i due libri di Samuele, i due libri dei Re, i due libri delle Cronache (o Paralipo­meni), Esdra e Neemia, Tobia, Giuditta, Ester, i due libri dei Maccabei, Giob­be, i Salmi, i Proverbi, il Qoèlet (Ecclesiaste), il Cantico dei Cantici, la Sapien­za, il Siracide (Ecclesiastico), Isaia, Geremia, le Lamentazioni, Baruc, Ezechiele, Daniele, Osea, Gioèle, Amos, Abdia, Giona, Michea, Naum, Abacuc, Sofonia, Aggèo, Zaccaria, Malachia per l'Antico Testamento. I Vangeli di Matteo, di Marco, di Luca e di Giovanni, gli Atti degli Apo­stoli, le Lettere di san Paolo ai Romani, la prima e la seconda ai Corinzi, ai Gàlati, agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi, la prima e la seconda ai Tessalo­nicesi, la prima e la seconda a Timoteo, a Tito, a Filemone, la Lettera agli Ebrei, la Lettera di Giacomo, la prima e la seconda Lettera di Pietro, le tre Lettere di Giovanni, la Lettera di Giuda e l'Apocalisse per il Nuovo Testa­mento.

L'ANTICO TESTAMENTO

121 - L'Antico Testamento è una parte ineliminabile della Sacra Scrittu­ra. I suoi libri sono divinamente ispirati e conservano un valore peren­ne, poiché l'Antica Alleanza non è mai stata revocata.

122 - Infatti, «l'economia dell'Antico Testamento era soprattutto ordi­nata a preparare (...) l'avvento di Cristo Salvatore dell'universo». I libri dell'Antico Testamento, «sebbene contengano anche cose imperfette e temporanee», rendono testimonianza di tutta la divina pedagogia del­l’amore salvifico di Dio. Essi «esprimono un vivo senso di Dio, una sapienza salutare per la vita dell'uomo e mirabili tesori di preghiere»; in essi infine «è nascosto il mistero della nostra salvezza»,

123 - I cristiani venerano l'Antico Testamento come vera Parola di Dio. a Chiesa ha sempre energicamente respinto l'idea di rifiutare l'Antico Testamento con il pretesto che il Nuovo l'avrebbe reso sorpassato (Marcionismo).

IL NUOVLO TESTAMENTO

124 - «La Parola di Dio, che è potenza divina per la salvezza di chiun­que crede, si presenta e manifesta la sua forza in modo eminente negli scritti del Nuovo Testamento». Questi scritti ci consegnano la verità definitiva della rivelazione divina. Il loro oggetto centrale è Gesù Cri­sto, il Figlio di Dio incarnato, le sue opere, i suoi insegnamenti, la sua passione e la sua glorificazione, come pure gli inizi della sua Chiesa sotto l'azione dello Spirito Santo.

125 - I Vangeli sono il cuore di tutte le Scritture «in quanto sono la principale testimonianza relativa alla vita e alla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore».

126 - Nella formazione dei Vangeli si possono distinguere tre tappe: 1. La vita e l'insegnamento di Gesù. La Chiesa ritiene con fermezza che i quattro Vangeli, «di cui afferma senza esitazione la storicità, trasmettono fedel­mente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettiva mente operò e insegnò per la loro salvezza eterna, fino al giorno in cui ascese al cielo». 2. La tradizione orale. «Gli Apostoli poi, dopo l'ascensione del Signore, trasmisero ai loro ascoltatori ciò che egli aveva detto e fatto, con quella più completa intelligenza di cui essi, ammaestrati dagli eventi gloriosi di Cristo e illuminati dalla luce dello Spirito di verità, godevano». 3. I Vangeli scritti. Gli autori sacri scrissero i quattro Vangeli, scegliendo alcune cose tra le molte tramandate a voce o già per iscritto, redigendo una sintesi delle altre o spiegandole con riguardo alla situazione delle Chiese, con­servando infine il carattere di predicazione, sempre però in modo tale da riferi­re su Gesù cose vere e sincere».

127 - Il Vangelo quadriforme occupa nella Chiesa un posto unico; lo te­stimonia la venerazione di cui lo circonda la liturgia e la singolarissima attrattiva che in ogni tempo ha esercitato sui santi. «Non c'è dottrina che sia migliore, più preziosa e più splendida del testo del Vangelo. Considerate e custodite nel cuore quanto Cristo, no­stro Signore e Maestro, ha insegnato con le sue parole e realizzato con le sue azioni». «Ma è soprattutto il Vangelo che mi intrattiene durante le orazio­ni, in esso trovo tutto ciò che è necessario alla mia povera anima. Vi scopro sempre nuove luci, significati nascosti e misteriosi».

L'UNITÀ DELL'ANTICO E DEL NUOVO TESTAMENTO

128 - La Chiesa, fin dai tempi apostolici, e poi costantemente nella sua Tradizione, ha messo in luce l'unità del piano divino nei due Testamen­ti grazie alla tipologia. Questa nelle opere di Dio dell'Antico Testamen­to ravvisa prefigurazioni di ciò che Dio, nella pienezza dei tempi, ha compiuto nella Persona del suo Figlio incarnato. 129 - I cristiani, quindi, leggono l'Antico Testamento alla luce di Cristo morto e risorto. La lettura tipologica rivela l'inesauribile contenuto del­l'Antico Testamento. Questa non deve indurre però a dimenticare che esso conserva il valore suo proprio di rivelazione che lo stesso nostro Signore ha riaffermato. Pertanto, anche il Nuovo Testamento esige d'essere letto alla luce dell'Antico. La primitiva catechesi cristiana vi fa­rà costantemente ricorso. Secondo un antico detto, il Nuovo Testa­mento è nascosto nell'Antico, mentre l'Antico è svelato nel Nuovo: «Novum in Vetere latet et in Novo Vetus patet».

130 - La tipologia esprime il dinamismo verso il compimento del piano divino, quando «Dio sarà tutto in tutti» (1 Cor 15,28). Anche la voca­zione dei patriarchi e l'Esodo dall'Egitto, per esempio, non perdono il valore che è loro proprio nel piano divino, per il fatto di esserne, al tempo stesso, tappe intermedie.

V. La Sacra Scrittura nella vita della Chiesa.

131 - «Nella Parola di Dio è insita tanta efficacia e potenza da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa saldezza della fede, cibo dell'anima, sorgente pura e perenne della vita spirituale». «E’ necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura».

132 - «Lo studio della Sacra Scrittura sia dunque come l'anima della sacra teologia. Anche il ministero della parola, cioè la predicazione pastorale, la catechesi e tutta l'istruzione cristiana, nella quale l'omelia liturgica deve avere un posto privilegiato, si nutre con profitto e santa­mente vigoreggia con la parola della Scrittura». 133 - La Chiesa «esorta con forza e insistenza tutti i fedeli (...) ad ap­prendere "la sublime scienza di Gesù Cristo" (FiI 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. "L'ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo"».

In sintesi

134 - Omnis Scriptura divina unus liber est, et hic unus liber est Christus, «quia omnis Scriptura divina de Christo loquitur, et omnis Scriptura divina in Chrìsto impletur». Tutta la divina Scrittura è un libro solo e quest'unico libro è Cristo; «infatti tutta la divina Scrittura parla di Cristo e in lui trova compimento ».

135 - «Le Sacre Scritture con tengono la Parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente Parola di Dio ».

136 - Dio è l'autore della Sacra Scrittura nel senso che ispira i suoi autori umani; egli agisce in loro e mediante loro. Cosi ci dà la certezza che i loro scritti insegnano senza errore la verità salvifica.

137 - L'interpretazione delle Scritture ispirate dev'essere innanzi tutto at­tenta a ciò che Dio, attraverso gli autori sacri, vuole rivelare per la nostra salvezza. Ciò che è opera dello Spirito, non viene pienamente compreso se non sotto l'azione dello Spirito.

138 - La Chiesa riceve e venera come ispirati i 46 libri dell 'Antico Testa­mento e i 27 libri del Nuovo Testamento.

139 - I quattro Vangeli occupano un posto centrale, per la centralità che Cristo ha in essi.

140 - Dall'unità del progetto di Dio e della sua rivelazione deriva l'unità dei due Testamenti: l'Antico Testamento prepara il Nuovo, mentre il Nuovo compie l'Antico; i due si illuminano a vicenda; entrambi sono vera Parola di Dio.

141 - «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso del Signore»; in ambedue le realtà tutta la vita cri­stiana trova il proprio nutrimento e la propria regola. «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 1 19,105).

CAPITOLO TERZO

LA RISPOSTA DELL'UOMO A DIO

142 - Con la sua rivelazione, «Dio invisibile nel suo immenso amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi per invitarli ed ammetterli alla comunione con sé». La risposta adeguata a questo invito è la fede.

143 - Con la fede l'uomo sottomette pienamente a Dio la propria intelli­genza e la propria volontà. Con tutto il suo essere l'uomo dà il proprio assenso a Dio rivelatore. La Sacra Scrittura chiama «obbedienza della fede» questa risposta dell'uomo a Dio che rivela.

Articolo 1

IO CREDO

I. L'obbedienza della fede.

144 - Obbedire («ob-audire») nella fede è sottomettersi liberamente alla parola ascoltata, perché la sua verità è garantita da Dio, il quale è la verità stessa. Il modello di questa obbedienza propostoci dalla Sacra Scrittura è Abramo. La Vergine Maria ne è la realizzazione più perfetta.

ABRAMO - «PADRE DI TUTTI I CREDENTI»

145 - La lettera agli Ebrei, nel solenne elogio della fede degli antenati, insiste particolarmente sulla fede di Abramo: «Per fede Abramo, chia­mato da Dio, obbedì partendo per un luogo che doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8). Per fede soggiornò come straniero e pellegrino nella Terra promessa. Per fede Sara rice­vette la possibilità di concepire il figlio della Promessa. Per fede, infine, Abramo offrì in sacrificio il suo unico figlio.

146 - Abramo realizza così la definizione della fede data dalla lettera agli Ebrei: «La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono» (Eb 11,1). «Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia» (Rm 4,3). «Forte in [questa] fede» (Rm 4,20), Abramo è diventato «padre di tutti quelli che credono» (Rm 4,ll.l8).

147 - Di questa fede, l'Antico Testamento è ricco di testimonianze. La lettera agli Ebrei fa l'elogio della fede esemplare degli antichi che «rice­vettero» per essa «una buona testimonianza» (Eb 11,2.39). Tuttavia «Dio aveva in vista qualcosa di meglio per noi»: la grazia di credere nel suo Figlio Gesù, «autore e pefezionatore della fede» (Eb 11,40; 12,2).

MARIA - «BEATA COLEI CHE HA CREDUTO»

148 - La Vergine Maria realizza nel modo più perfetto l'obbedienza del­la fede. Nella fede, Maria accolse l'annunzio e la promessa a lei portati dall'angelo Gabriele, credendo che «nulla è impossibile a Dio» (Lc l,37), e dando il proprio consenso: «Sono la serva del Signore, avven­ga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Elisabetta la salutò così: Beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signo­re» (Lc 1,45). Per questa fede tutte le generazioni la chiameranno beata.

149 - Durante tutta la sua vita, e fino all'ultima prova, quando Gesù, suo Figlio, morì sulla croce, la sua fede non ha mai vacillato. Maria non ha cessato di credere «nell'adempimento» della parola di Dio. Ecco perché la Chiesa venera in Maria la più pura realizzazione della fede.

lI. «So a chi ho creduto» (2 Tm 1,12)

CREDERE IN UN SOLO DIO

150 - La fede è innanzi tutto una adesione personale dell'uomo a Dio; al tempo stesso ed inseparabilmente, è l'assenso libero a tutta la verità che Dio ha rivelato. In quanto adesione personale a Dio e assenso alla veri­tà da lui rivelata, la fede cristiana differisce dalla fede in una persona umana. È bene e giusto affidarsi completamente a Dio e credere assolu­tamente a ciò che egli dice. Sarebbe vano e fallace riporre una simile fede in una creatura.

CREDERE IN GESU’ CRISTO FIGLIO DI DIO

151 - Per il cristiano, credere in Dio è inseparabilmente credere in colui che egli ha mandato, il suo Figlio prediletto nel quale si è compiaciu­to; "Dio ci ha detto di ascoltarlo. Il Signore stesso dice ai suoi disce­poli: «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1). Pos­siamo credere in Gesù Cristo perché egli stesso è Dio, il Verbo fatto carne: «Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Poiché egli «ha visto il Padre» (Gv 6,46), è il solo a conoscerlo e a poterlo rivelare.

CREDERE NELLO SPIRITO SANTO

152 - Non si può credere in Gesù Cristo se non si ha parte al suo Spi­rito. È lo Spirito Santo che rivela agli uomini chi è Gesù. Infatti «nes­suno può dire: “Gesù è Signore” se non sotto l'azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12,3). «Lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. (...) Nessuno ha mai potuto conoscere i segreti di Dio se non lo Spirito di Dio» (1 Cor 2,10-11). Dio solo conosce pienamente Dio. Noi crediamo nello Spirito Santo perché è Dio. La Chiesa non cessa di confessare la sua fede in un solo Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo.

III. Le caratteristiche della fede.

LA FEDE E’ UNA GRAZIA

153 - Quando san Pietro confessa che Gesù è il Cristo, il Figlio del Dio vivente, Gesù gli dice: «Nè la carne nè il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt l6,l7). La fede è un dono di Dio, una virtù soprannaturale da lui infusa. «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità».

LA FEDE E UN ATTO UMANO

154 - É impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spi­rito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario nè alla libertà nè all'intelligenza dell'uomo far credito a Dio e aderire alle verità da lui rivelate. Anche nelle relazioni umane non è contrario alla nostra dignità credere a ciò che altre persone ci dicono di sé e delle loro intenzioni, e far credito alle loro promesse ­(come, per esempio, quando un uomo e una donna si sposano), per entrare così in reciproca comunione. Conseguentemente, ancor meno e contraria alla nostra dignità «prestare, con la fede, la piena sottomis­sione della nostra intelligenza e della nostra volontà a Dio quando si rivela» ed entrare in tal modo in intima comunione con lui.

155 - Nella fede, l'intelligenza e la volontà umane cooperano con la divina: «Credere est actus intellectus assentientis veritati divinae imperio voluntatis a Deo motae per gratiam Credere è un atto del­l’intelletto che, sotto la spinta della volontà mossa da Dio per mezzo grazia, dà il proprio consenso alla verità divina ».

FEDE E L'INTELLIGENZA

156 - Il motivo di credere non consiste nel fatto che le verità rivelate sono come vere e intelligibili alla luce della nostra ragione naturale. Noi crediamo «per l'autorità di Dio stesso che le rivela, il quale non può né ingannarsi né ingannare. «Nondimeno, perché l'ossequio del­la nostra fede fosse ”conforme alla ragione", Dio ha voluto che agli in­teriori aiuti dello Spirito Santo si accompagnassero anche prove esterio­ri della sua rivelazione». Così i miracoli di Cristo e dei santi, le pro­fezie, la diffusione e la santità della Chiesa, la sua fecondità e la sua stabilità «sono segni certissimi della divina rivelazione, adatti ad ogni intelligenza», sono motivi di credibilità i quali mostrano che l'assenso della fede non è «affatto un cieco moto dello spirito».

157 - La fede è certa, più certa di ogni conoscenza umana, perché si fonda sulla Parola stessa di Dio, il quale non può mentire. Indubbia­mente, le verità rivelate possono sembrare oscure alla ragione e all'espe­rienza umana, ma «la certezza data dalla luce divina è più grande di quella offerta dalla luce della ragione naturale. «Diecimila difficoltà non fanno un solo dubbio».

158 - «La fede cerca di comprendere»: è caratteristico della fede che il credente desideri conoscere meglio colui nel quale ha posto la sua fede, e comprendere meglio ciò che egli ha rivelato; una conoscenza più pe­netrante richiederà a sua volta una fede più grande, sempre più ardente d'amore. La grazia della fede apre «gli occhi della mente» (Ef 1,18) per una intelligenza viva dei contenuti della Rivelazione, cioè dell'insie­me del disegno di Dio e dei misteri della fede, dell'intima connessione che li lega tra loro e con Cristo, centro del mistero rivelato. Ora, «af­finché l'intelligenza della Rivelazione diventi sempre più profonda, lo (...) Spirito Santo perfeziona continuamente la fede per mezzo dei suoi doni. Così, secondo il detto di sant'Agostino: «Credi per compren­dere: comprendi per credere».

159 - Fede e scienza. «Anche se la fede è sopra la ragione, non vi potrà mai essere vera divergenza tra fede e ragione: poiché lo stesso Dio che rivela i misteri e comunica la fede, ha anche deposto nello spirito uma­no il lume della ragione, questo Dio non potrebbe negare se stesso, né il vero contraddire il vero. «Perciò la ricerca metodica di ogni disci­plina, se procede in maniera veramente scientifica e secondo le norme morali, non sarà mai in reale contrasto con la fede, perché le realtà profane e le realtà della fede hanno origine dal medesimo Dio. Anzi, chi si sforza con umiltà e perseveranza di scandagliare i segreti della realtà, anche senza che egli se ne avveda, viene come condotto dalla mano di Dio, il quale, mantenendo in esistenza tutte le cose, fa che siano quello che sono».

LA LIBERTÀ DELLA FEDE

160 Perché la risposta di fede sia umana, «è elemento fondamentale [...] che gli uomini devono volontariamente rispondere a Dio credendo; che perciò nessuno può essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà. Infatti l'atto di fede è volontario per sua stessa natura. «Dio chiama certo gli uomini a servirlo in spirito e verità, per cui essi sono vincolati in coscienza, ma non coartati. (...) Ciò è apparso in som­mo grado in Cristo Gesù. Infatti, Cristo ha invitato alla fede e alla conversione, ma a ciò non ha affatto costretto. «Ha reso testimonianza alla verità, ma non ha voluto imporla con la forza a coloro che la respingevano. Il suo regno (...) cresce in virtù dell'amore, con il quale Cristo, esaltato in croce, trae a sé gli uomini ».

LA NECESSITÀ DELLA FEDE

161 - Credere in Gesù Cristo e in colui che l'ha mandato per la nostra salvezza, è necessario per essere salvati. «Poiché senza la fede è im­possibile essere graditi a Dio" (Eb 11,6) e condividere la condizione di suoi figli, nessuno può essere mai giustificato senza di essa e nessuno conseguirà la vita eterna se non persevererà in essa sino alla fine" (Mt 10,22; 24,13) ».

LA PERSEVERANZA NELLA FEDE

162 - La fede è un dono che Dio fa all'uomo gratuitamente. Noi possiamo perdere questo dono inestimabile. San Paolo, a questo proposito, mette in guardia Timoteo: Combatti «la buona battaglia con fede e buona coscienza, poiché alcuni che l'hanno ripudiata hanno fatto nau­fragio nella fede» (1 Tm 1,18-19). Per vivere, crescere e perseverare nel­la fede sino alla fine, dobbiamo nutrirla con la Parola di Dio; dobbiamo chiedere al Signore di accrescerla; essa deve operare «per mezzo della carità» (Gal 5,6), essere sostenuta dalla speranza ed essere radi­cata nella fede della Chiesa.

LA FEDE - INIZIO DELI.A VITA ETERNA

163 - La fede ci fa gustare come in anticipo la gioia e la luce della vi­sione beatifica, fine del nostro pellegrinare quaggiù. Allora vedremo Dio «a faccia a faccia » (1 Cor 13,12), «così come egli è» (1Gv 3,2). La fede, quindi, è già l'inizio della vita eterna: «Fin d'ora contempliamo come in uno specchio, quasi fossero già pre­senti, le realtà meravigliose che le promesse ci riservano e che, per la fede, attendiamo di godere».

164 - Ora, però, «camminiamo nella fede e non ancora in visione» (2 Cor 5,7), e conosciamo Dio «come in uno specchio, in maniera con­fusa..., in modo imperfetto» (I Cor 13,12). La fede, luminosa a motivo di colui nel quale crede, sovente è vissuta nell'oscurità. La fede può essere messa alla prova. Il mondo nel quale viviamo pare spesso molto lontano da ciò di cui la fede ci dà la certezza; le esperienze del male e della sofferenza, delle ingiustizie e della morte sembrano contraddire la Buona Novella, possono far vacillare la fede e diventare per essa una tentazione.

165 - Allora dobbiamo volgerci verso i testimoni della fede: Abramo, che credette, «sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18); la Vergine Maria che, nel «cammino della fede», è giunta fino alla «notte della fede» partecipando alla sofferenza del suo Figlio e alla notte della sua tomba; e molti altri testimoni della fede: «Circondati da un così gran numero di te­stimoni, deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corria­mo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguar­do su Gesù, autore perfezionatore della fede» (Eb 12, 1-2).

Articolo 2

NOI CREDIAMO

166 - La fede è un atto personale: è la libera risposta dell'uomo all'ini­ziativa di Dio che si rivela. La fede però non è un atto isolato. Nessu­no può credere da solo, così come nessuno può vivere da solo. Nessuno si è dato la fede da se stesso, così come nessuno da se stesso si è dato l'esistenza. Il credente ha ricevuto la fede da altri e ad altri la deve tra­smettere. Il nostro amore per Gesù e per gli uomini ci spinge a parlare ad altri della nostra fede. In tal modo ogni credente è come un anello nella grande catena dei credenti. Io non posso credere senza essere sor­retto dalla fede degli altri, e, con la mia fede, contribuisco a sostenere la fede degli altri.

167 - «Io credo»: è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto al momento del Battesimo. «Noi credia­mo»: è la fede della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o, più generalmente, dall'assemblea liturgica dei credenti. «Io credo»: e anche la Chiesa, nostra Madre, che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire: «Io credo», «Noi crediamo».

I. Guarda, Signore, alla fede della tua Chiesa.

168 - È innanzi tutto la Chiesa che crede, e che così regge, nutre e so­stiene la mia fede. È innanzi tutto la Chiesa che, ovunque, confessa il Signore, («Te per orbem terrarum sancta confitetur Ecclesia - La santa Chiesa proclama la tua gloria su tutta la terra», cantiamo nel «Te Deum») e con essa e in essa anche noi siamo trascinati e condotti a confessare: «Io credo», «Noi crediamo». Dalla Chiesa riceviamo la fede e la vita nuova in Cristo mediante il Battesimo. Nel «Rituale Ro­mano» il ministro del Battesimo domanda al catecumeno: «Che cosa chiedi alla Chiesa di Dio?». E la risposta è: «La fede». «Che cosa ti dona la fede?». «La vita eterna».

169 - La salvezza viene solo da Dio; ma, poiché riceviamo la vita della fede attraverso la Chiesa, questa è nostra Madre: «Noi crediamo la Chiesa come Madre della nostra nuova nascita, e non nella Chiesa come se essa fosse l'autrice della nostra salvezza. Essendo nostra Madre, la Chiesa è anche l'educatrice della nostra fede.

II. Il linguaggio della fede.

170 - Noi non crediamo in alcune formule, ma nelle realtà che esse esprimono e che la fede ci permette di «toccare». «L'atto [di fede] del credente non si ferma all'enunciato, ma raggiunge la realtà (enunciata]». Tuttavia, noi accostiamo queste realtà con l'aiuto delle formula­zioni della fede. Esse ci permettono di esprimere e di trasmettere la fede, di celebrarla in comunità, di assimilarla e di viverla sempre più intensamente.

171 - La Chiesa, che è «colonna e sostegno della verità» (1 Tm 3,15), conserva fedelmente la fede, che fu trasmessa ai credenti una volta per tutte. È la Chiesa che custodisce la memoria delle parole di Cristo e trasmette di generazione in generazione la confessione di fede degli Apostoli. Come una madre che insegna ai suoi figli a parlare, e quindi a comprendere e a comunicare, la Chiesa nostra Madre ci insegna il linguaggio della fede per introdurci nell'intelligenza della fede e nella vita.

III. Una sola fede.

172 - Da secoli, attraverso molte lingue, culture, popoli e nazioni, la Chiesa non cessa di confessare la sua unica fede, ricevuta da un solo Signore, trasmessa mediante un solo Battesimo, radicata nella convin­zione che tutti gli uomini non hanno che un solo Dio e Padre. San­t'Ireneo di Lione, testimone di questa fede, dichiara:

173 - «In realtà, la Chiesa, sebbene diffusa in tutto il mondo fino alle estremità della terra, avendo ricevuto dagli Apostoli e dai loro discepoli la fede (...) conserva questa predicazione e questa fede con cura e, come se abitasse un'unica casa, vi crede in uno stesso identico modo, come se avesse una sola anima ed un cuore solo, e predica le verità della fede, le insegna e le trasmette con voce unanime, come se avesse una sola bocca».

174 - «Infatti, se le lingue nel mondo sono varie, il contenuto della Tradizione è però unico e identico. E non hanno altra fede o altra Tra­dizione né le Chiese che sono in Germania, né quelle che sono in Spa­gna, né quelle che sono presso i Celti (in Gallia), né quelle dell'Oriente, dell'Egitto, della Libia, né quelle che sono al centro del mondo». «Il messaggio della Chiesa è dunque veridico e solido, poiché essa addita a tutto il mondo una sola via di salvezza».

175 - «Conserviamo con cura questa fede che abbiamo ricevuto dalla Chiesa, perché, sotto l'azione dello Spirito di Dio, essa, come un deposito di grande valore, chiuso in un vaso prezioso, continuamente ringiovanisce e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene».

In sintesi.

176 - La fede é un'adesione personale di tutto l'uomo a Dio che si rivela. Comporta un'adesione dell'intelligenza e della volontà alla Rivelazio­ne che Dio ha fatto di sé attraverso le sue opere e le sue parole.

177 - «Credere» ha perciò un duplice riferimento: alla persona e alla veri­tà; alla verità per la fiducia che si accorda alla persona che l'afferma.

178 - Non dobbiamo credere in nessun altro se non in Dio, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.

179 - La fede è un dono soprannaturale di Dio. Per credere, l'uomo ha bisogno degli aiuti interiori dello Spirito Santo.

180 - «Credere» è un atto umano, cosciente e libero, che ben s'accorda con la dignità della persona umana.

181 - «Credere» è un atto ecclesiale. La fede della Chiesa precede, gene­ra, sostiene e nutre la nostra fede. La Chiesa è la Madre di tutti i credenti. «Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre».

182 - «Noi crediamo tutto ciò che è contenuto nella Parola di Dio, scritta o tramandata, e che è proposto dalla Chiesa come divinamente rive­lato.

183 - La fede è necessaria alla salvezza. Il Signore stesso lo afferma: «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,16).

184 - «La fede [...] è una pregustazione della conoscenza che ci renderà beati nella vita futura.

Il CREDO

SIMBOLO DEGLI APOSTOLI

Io credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra. E in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; discese agli inferi; il terzo giorno risuscitò da morte; salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente: di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la resurrezione della carne, la vita eterna. Amen

CREDO NICENA-COSTANTINOPOLITANO

Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili. Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli: Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato, della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo, e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno è risuscitato, secondo le Scritture, è salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. Credo nello Spirito Santo che é Signore e dà la vita, e procede dal Padre e dal Figlio. Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato, e ha parlato per mezzo dei profeti. Credo la Chiesa, una santa cattolica e apostolica. Professo un solo Battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà

Amen.

SEZIONE SECONDA

LA PROFESSIONE DELLA FEDE CRISTIANA

I SIMBOLI DELLA FEDE

185 - Chi dice: «lo credo», dice: «lo aderisco a ciò che noi credia­mo». La comunione nella fede richiede un linguaggio comune della fe­de, normativo per tutti e che unisca nella medesima confessione di fede.

186 - Fin dalle origini, la Chiesa apostolica ha espresso e trasmesso la propria fede in formule brevi e normative per tutti. Ma molto presto la Chiesa ha anche voluto riunire l'essenziale della sua fede in compen­di organici e articolati, destinati in particolare ai candidati al Battesimo. «Il simbolo della fede non fu composto secondo opinioni umane, ma consiste nella raccolta dei punti salienti, scelti da tutta la Scrittura, così da dare una dottrina completa della fede. E come il seme della senape racchiude in un granellino molti rami, così questo compendio della fede racchiude tutta la conoscenza della vera pietà contenuta nell'Antico e nel Nuovo Testamento».

187 - Tali sintesi della fede vengono chiamate «professioni di fede», perché riassumono la fede professata dai cristiani. Vengono chiamate «Credo» a motivo di quella che normalmente ne è la prima parola: «Io credo». Sono anche dette «Simboli della fede».

188 - La parola greca indicava la metà di un oggetto spezzato (per esempio un sigillo) che veniva presentato come un segno di riconoscimento. Le parti rotte venivano ricomposte per verificare l'identità di chi le portava. Il «Simbolo della fede» è quindi un segno di riconoscimento e di comunione tra i credenti. Passò poi a significare raccolta, collezione o sommario. Il «Simbolo della fede» è la raccolta delle principali verità della fede. Da qui de­riva il fatto che esso costituisce il primo e fondamentale punto di riferimento della catechesi.

189 - La prima «professione di fede» si fa al momento del Battesimo. Il «Simbolo della fede» è innanzi tutto il Simbolo battesimale. Poiché il Battesimo viene dato «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19), le verità di fede professate al momento del Battesi­mo sono articolate in base al loro riferimento alle tre Persone della Santa Trinità.

190 - Il Simbolo è quindi diviso in tre parti: «La prima è consacrata allo studio di Dio Padre e dell'opera mirabile della creazione; la secon­da allo studio di Gesù Cristo e del mistero della redenzione; la terza al­lo studio dello Spirito Santo, principio e sorgente della nostra santifica­zione». Sono questi «i tre capitoli del nostro sigillo [battesimale]».

191 - «Queste tre parti sono distinte, sebbene legate tra loro. In base a un paragone spesso usato dai Padri, noi li chiamiamo articoli. Infatti, come nelle nostre membra ci sono certe articolazioni che le distinguono e le separano, così, in questa professione di fede, giustamente e a buon diritto si è data la denominazione di articoli alle verità che dobbiamo credere in particolare e in maniera distinta». Secondo un'antica tradi­zione, attestata già da sant'Ambrogio, si è anche soliti contare dodici articoli del Credo, simboleggiando con il numero degli Apostoli l'insie­me della fede apostolica.

192 - Nel corso dei secoli si sono avute numerose professioni o simboli della fede, in risposta ai bisogni delle diverse epoche: i Simboli delle va­rie Chiese apostoliche e antiche, il Simbolo «Quicumque», detto di sant'Atanasio, le professioni di fede di certi Concili (di Toledo; Late­ranense; di Lione; di Trento), o di alcuni Sommi Pontefici, come: la «fides Damasi» o «Il Credo del popolo di Dio» di Paolo VI (1968).

193 - Nessuno dei Simboli delle diverse tappe della vita della Chiesa può essere considerato sorpassato ed inutile. Essi ci aiutano a vivere e Simboli della fede ad approfondire oggi la fede di sempre attraverso i vari compendi che ne sono stati fatti. Fra tutti i Simboli della fede, due occupano un posto specialissimo nella vita della Chiesa:

194 - Il Simbolo degli Apostoli, cosi chiamato perché a buon diritto è ri­tenuto il riassunto fedele della fede degli Apostoli. È l'antico Simbolo battesimale della Chiesa di Roma. La sua grande autorità gli deriva da questo fatto: «È il Simbolo accolto dalla Chiesa di Roma, dove ebbe la sua sede Pietro, il primo tra gli Apostoli, e dove egli portò l'espressione della fede comune».

195 - Il Simbolo detto niceno-costantinopolitano, il quale trae la sua gran­de autorità dal fatto di essere frutto dei primi due Concili Ecumenici (325 e 381). È tuttora comune a tutte le grandi Chiese dell'Oriente e dell'Occidente.

196 - La nostra esposizione della fede seguirà il Simbolo degli Apostoli, che rappresenta, per così dire, «il più antico catechismo romano». L'esposizione però sarà completata con costanti riferimenti al Simbolo niceno-costantinopolitano, in molti punti più esplicito e più dettagliato.

197 - Come al giorno del nostro Battesimo, quando tutta la nostra vita è stata affidata «a quella forma di insegnamento» (Rm 6,17), accoglia­mo il Simbolo della nostra fede, la quale dà la vita. Recitare con fede il Credo significa entrare in comunione con Dio, il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ed anche con tutta la Chiesa che ci trasmette la fede e nel seno della quale noi crediamo: «Questo Simbolo è un sigillo spirituale, è la meditazione del nostro cuore e ne è come una difesa sempre presente: senza dubbio è il tesoro che custodiamo nel nostro animo».

 

CAPITOLO PRIMO

IO CREDO IN DIO PADRE

198 - La nostra professione di fede incomincia con Dio, perché Dio è «il primo e l'ultimo» (1s 44,6), il principio e la fine di tutto. Il Credo incomincia con Dio Padre, perché il Padre è la prima Persona divina della Santissima Trinità. Il nostro Simbolo incomincia con la creazione del cielo e della terra, perché la creazione è l'inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio.

Articolo 1

«IO CREDO IN DIO, PADRE ONNIPOTENTE, CREATORE DEL CIELO E DELLA TERRA»

Paragrafo 1

IO CREDO IN DIO

199 - «Io credo in Dio»: questa prima affermazione della professione di fede è anche la più importante, quella fondamentale. Tutto il Simbo­lo parla di Dio, e, se parla anche dell'uomo e del mondo, lo fa in rap­porto a Dio. Gli articoli del Credo dipendono tutti dal primo, così come i comandamenti sono l'esplicitazione del primo. Gli altri articoli ci fanno meglio conoscere Dio, quale si è rivelato progressivamente agli uomini. «Giustamente quindi i cristiani affermano per prima cosa di credere in Dio »

I. «Credo in un solo Dio».

200 - Con queste parole incomincia il Simbolo niceno-costantinopolita­no. La confessione dell'unicità di Dio, che ha la sua radice nella rivelazione divina dell'Antica Alleanza, è inseparabile da quella dell'esisten­za di Dio ed è altrettanto fondamentale. Dio è uno: non c'è che un solo Dio: «La fede cristiana crede e professa un solo Dio, uno per natura, per sostanza e per essenza ».

201 - A Israele, suo eletto, Dio si è rivelato come l'Unico: « Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le forze» (Dt 6,4-5). Per mezzo dei profeti, Dio invita Israele e tutte le nazioni a volgersi a lui, l'Unico: «Volgetevi a me e sarete salvi, paesi tutti della terra, perché io sono Dio; non ce n'è altri... davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua. Si dirà: «Solo nel Signore si trovano vittoria e potenza» (Is 45,22-24).

202 - Gesù stesso conferma che Dio è «l'unico Signore» e che lo si de­ve amare con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente, con tutte le forze. Nello stesso tempo lascia capire che egli pure è «il Signore». Confessare che «Gesù è Signore» è lo specifico della fede cristiana. Ciò non contrasta con la fede nel Dio Uno. Credere nello Spirito Santo «che è Signore e dà la vita» non introduce alcuna divisione nel Dio Uno: «Crediamo fermamente e confessiamo apertamente che uno solo è il vero Dio, eterno e immenso, onnipotente, immutabile, incomprensibile e ineffabile, Padre, Figlio e Spirito Santo: tre Persone, ma una sola essen­za, sostanza, cioè natura assolutamente semplice».

II. Dio rivela il suo nome

203 - Dio si è rivelato a Israele, suo popolo, facendogli conoscere il suo nome. Il nome esprime l'essenza, l'identità della persona e il senso della sua vita. Dio ha un nome. Non è una forza anonima. Svelare il proprio nome è farsi conoscere agli altri; in qualche modo è consegnare se stes­so rendendosi accessibile, capace d'essere conosciuto più intimamente e di essere chiamato personalmente.

204 - Dio si è rivelato al suo popolo progressivamente e sotto diversi nomi; ma la rivelazione del nome divino fatta a Mosè nella teofania del roveto ardente, alle soglie dell'Esodo e dell'Alleanza del Sinai, si è mo­strata come la rivelazione fondamentale per l'Antica e la Nuova Alleanza.

IL DIO VIVENTE

205 - Dio chiama Mosè dal mezzo di un roveto che brucia senza consu­marsi, e gli dice: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6). Dio è il Dio dei padri, co­lui che aveva chiamato e guidato i patriarchi nelle loro peregrinazioni. È il Dio fedele e compassionevole che si ricorda di loro e delle sue pro­messe; egli viene per liberare i loro discendenti dalla schiavitù. Egli è il Dio che, al di là dello spazio e del tempo, può questo e lo vuole e che, per questo disegno, metterà in atto la sua onnipotenza.

«IO SONO COLUI CHE SONO»

Mosè disse a Dio: « Ecco, io arrivo dagli Israeliti e dico loro: “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Ma mi diranno: “Come si chia­ma?”. E io che cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Io sono colui che sono!». Poi disse: «Dirai agli Israeliti: “Io-Sono” mi ha man­dato a voi. [...] Questo è il mio nome per sempre: questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» (Es 3,13-15).

206 - Rivelando il suo nome misterioso di YHWH, «Io sono colui che è» oppure «Io sono colui che sono» o anche «Io sono chi Io sono», Dio dice chi egli è e con quale nome lo si deve chiamare. Questo nome divino è misterioso come Dio è mistero. E’ ad un tempo un nome rivelato e quasi il rifiuto di un nome; proprio per questo esprime, come meglio non si potrebbe, la realtà di Dio, infinitamente al di sopra di tutto ciò che possiamo comprendere o dire: egli è il «Dio nascosto» (Is 45,15), il suo nome è ineffabile, ed è il Dio che si fa vicino agli uomini.

207 - Rivelando il suo nome, Dio rivela al tempo stesso la sua fedeltà che è da sempre e per sempre, valida per il passato («Io sono il Dio dei tuoi padri», Es 3,6), come per l'avvenire («Io sarò con te», Es 3,12). Dio che rivela il suo nome come «Io Sono» si rivela come il Dio che è sempre là, presente accanto al suo popolo per salvarlo.

208 - Di fronte alla presenza affascinante e misteriosa di Dio, l'uomo scopre la propria piccolezza. Davanti al roveto ardente, Mosè si toglie i sandali e si vela il viso al cospetto della santità divina. Davanti alla gloria del Dio tre volte santo, Isaia esclama: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono» (Is 6,5). Davanti ai segni divini che Gesù compie, Pietro esclama: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore» (Lc 5,8). Ma poiché Dio è santo, può perdona­re all'uomo che davanti a lui si riconosce peccatore: «Non darò sfogo all'ardore della mia ira, [...] perché sono Dio e non uomo, sono il San­to in mezzo a te» (Os 11,9). Anche l'apostolo Giovanni dirà: «Davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3,19-20).

209 - Il popolo d'Israele non pronuncia il nome di Dio, per rispetto alla sua santità. Nella lettura della Sacra Scrittura il nome rivelato è sostituito con il titolo divino «Signore» (Adonai). Con questo titolo si procla­merà la divinità di Gesù: o Gesù è il Signore».

«DIO DI MISERICORDIA E DI PIETÀ»

210 - Dopo il peccato di Israele, che si è allontanato da Dio per adorare il vitello d'oro, Dio ascolta l'intercessione di Mosè ed acconsente a camminare in mezzo ad un popolo infedele, manifestando in tal modo il suo amore. A Mosè che chiede di vedere la sua gloria, Dio rispon­de: «Farò passare davanti a te tutto il mio splendore e proclamerò il mio nome: Signore (YHWH), davanti a te» (Es 33,18-19). E il Signore passa davanti a Mosé e proclama: «Il Signore, il Signore [YHWH, YHWH], Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà » (Es 34,6). Mosè allora confessa che il Signore è un Dio che perdona.

211 - Il nome divino «Io Sono» o «Egli È» esprime la fedeltà di Dio il quale, malgrado l'infedeltà degli uomini e il castigo che il loro pecca­to merita, «conserva il suo favore per mille generazioni » (Es 34,7). Dio rivela di essere o ricco di misericordia» (Ef 2,4) arrivando a dare il suo Figlio. Gesù, donando la vita per liberarci dal peccato, rivelerà che anch'egli porta il nome divino: «Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, allora saprete che Io Sono» (Gv 8,28).

DIO SOLO È

212 - Lungo i secoli, la fede d'Israele ha potuto sviluppare ed appro­fondire le ricchezze contenute nella rivelazione del nome divino. Dio è unico, fuori di lui non ci sono dei. Egli trascende il mondo e la storia. È lui che ha fatto il cielo e la terra: «Essi periranno, ma tu rimani, tut­ti si logorano come veste [...] ma tu resti lo stesso e i tuoi anni non hanno fine» (Sal 102,27-28). In lui «non c'è variazione né ombra di cambiamento» (Gc 1,17). Egli è «colui che è» da sempre e per sempre, e perciò resta sempre fedele a se stesso ed alle sue promesse.

213 - La rivelazione del nome ineffabile: «Io sono colui che sono» con­tiene dunque la verità che Dio solo È. In questo senso già la traduzio­ne dei Settanta e, sulla sua scia, la Tradizione della Chiesa hanno inte­so il nome divino: Dio è la pienezza dell'Essere e di ogni perfezione, senza origine e senza fine. Mentre tutte le creature hanno ricevuto da lui tutto ciò che sono e che hanno, egli solo è il suo stesso essere ed è da se stesso tutto ciò che è.

III. Dio, «colui che è», è verità e amore.

214 - Dio, «colui che è», si è rivelato a Israele come colui che è «ricco di grazia e di fedeltà» (Es 34,6). Questi due termini esprimono in modo sintetico le ricchezze del nome divino. In tutte le sue opere Dio mostra la sua benevolenza, la sua bontà, la sua grazia, il suo amore; ma anche la sua affidabilità, la sua costanza, la sua fedeltà, la sua verità. «Rendo grazie al tuo nome per la tua fedeltà e la tua misericordia» (SaI 138,2). Egli è la verità, perché «Dio è luce e in lui non ci sono tene­bre» (1Gv 1,5); egli è «amore», come insegna l'apostolo Giovanni (1 Gv 4,8).

DIO È VERITÀ

215 - «La verità è principio della tua parola, resta per sempre ogni sen­tenza della tua giustizia » (SaI 119,160). «Ora, Signore, tu sei Dio, e le tue parole sono verità » (2 Sam 7,28); per questo le promesse di Dio si realizzano sempre. Dio è la stessa verità, le sue parole non possono ingannare. Proprio per questo ci si può affidare con piena fiducia alla verità e alla fedeltà della sua parola in ogni cosa. L'origine del peccato e della caduta dell'uomo fu una menzogna del tentatore, che indusse a dubitare della parola di Dio, della sua bontà e della sua fedeltà.

216 - La verità di Dio è la sua sapienza che regge tutto l'ordine della creazione e del governo del mondo. Dio che, da solo, ha creato il cie­lo e la terra, può donare, egli solo, la vera conoscenza di ogni cosa creata nella sua relazione con lui.

217 - Dio è veritiero anche quando rivela se stesso: «un insegnamento fedele» è «sulla sua bocca» (Ml 2,6). Quando manderà il suo Figlio «nel mondo», sarà «per rendere testimonianza alla verità» (Gv 18,37): «Sappiamo che il Figlio di Dio è venuto e ci ha dato l'intelligenza per conoscere il vero Dio» (I Gv 5,20).

DIO E’ AMORE

218 - Israele, nel corso della sua storia, ha potuto scoprire che uno solo era il motivo per cui Dio gli si era rivelato e lo aveva scelto fra tutti i popoli perché gli appartenesse: il suo amore gratuito. Ed Israele, per mezzo dei profeti, ha compreso che, ancora per amore, Dio non ha mai cessato di salvarlo e di perdonargli la sua infedeltà e i suoi peccati.

219 - L'amore di Dio per Israele è paragonato all'amore di un padre per il proprio figlio. È un amore più forte dell'amore di una madre per i suoi bambini. Dio ama il suo popolo più di quanto uno sposo ami la propria sposa; questo amore vincerà anche le più gravi infedel­tà; arriverà fino al dono più prezioso: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16).

220 - L'amore di Dio è «eterno» (Is 54,8): «Anche se i monti si spostassero e i colli vacillassero, non si allontanerebbe da te il mio affetto» (Is 54,10). «Ti ho amato di un amore eterno, per questo ti conservo ancora pietà» (Ger 31,3).

221 - Ma san Giovanni si spingerà oltre affermando: «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16): l'Essere stesso di Dio è amore. Mandando, nella pienezza dei tempi, il suo Figlio unigenito e lo Spirito d'amore, Dio rivela il suo segreto più intimo: è lui stesso eterno scambio d'amore: Padre, Figlio e Spirito Santo, e ci ha destinati ad esserne partecipi.

IV. Conseguenze della fede in un solo Dio.

222 - Credere in Dio, l'Unico, ed amarlo con tutto il proprio essere comporta per tutta la nostra vita enormi conseguenze:

223 - Conoscere la grandezza e la maestà di Dio: «Ecco, Dio è così grande, che non lo comprendiamo» (Gb 36,26). Proprio per questo Dio deve essere «servito per primo »

224 - Vivere in rendimento di grazie: se Dio è l'Unico, tutto ciò che sia­mo e tutto ciò che abbiamo viene da lui: «Che cosa mai possiedi che tu non abbia ricevuto?» (1 Cor 4,7). «Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato?» (Sal 116,12).

225 - Conoscere l'unità e la vera dignità di tutti gli uomini: tutti sono fatti «a immagine e somiglianza di Dio» (Gn 1,26)

226 - Usare rettamente le cose create: la fede nell'unico Dio ci conduce ad usare tutto ciò che non è lui nella misura in cui ci avvicina a lui, e a staccarcene nella misura in cui da lui ci allontana. «Mio Signore e mio Dio, togli da me quanto mi allontana da te. Mio Signore e mio Dio, dammi tutto ciò che mi conduce a te. Mio Signore e mio Dio, toglimi a me e dammi tutto a te.

227 - Fidarsi di Dio in ogni circostanza, anche nelle avversità. Una preghiera di santa Teresa di Gesù esprime ciò mirabilmente:.«Niente ti turbi / niente ti spaventi. Tutto passa / Dio non cambia. La pazienza ottiene tutto. Chi ha Dio / non manca di nulla. Dio solo basta».

In sintesi

228 «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno so­lo...» (Dt 6,4; Mc 12,29). «L'Essere supremo deve necessariamente essere unico, cioè senza eguali. [...] Se Dio non è unico, non è Dio».

229 - La fede in Dio ci conduce a volgerci a lui solo come alla nostra prima origine e al nostro ultimo fine, e a non anteporre o sostituire nulla a lui.

230 - Dio, mentre si rivela, rimane un mistero ineffabile: «Se lo comprendessi, non sarebbe Dio ».

231 - Il Dio della nostra fede si è rivelato come colui che è; si e fatto conoscere come «ricco di grazia e di misericordia» (Es 34,6). Il suo Essere stesso è verità e amore.

Paragrafo 2

IL PADRE

I. «Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» .

232 - I cristiani vengono battezzati «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19). Prima rispondono: «Credo» alla triplice domanda con cui ad essi si chiede di confessare la loro fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito: «Fides omnium christianorum in Trinitate consistit - La fede di tutti i cristiani si fonda sulla Trinità ».

233 - I cristiani sono battezzati «nel nome» e non «nei nomi» del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; infatti non vi è che un solo Dio, il Padre onnipotente e il Figlio suo unigenito e lo Spirito Santo: la Santissima Trinità.

234 - Il mistero della Santissima Trinità è il mistero centrale della fede e della vita cristiana. E’ il mistero di Dio in se stesso. È quindi la sorgente di tutti gli altri misteri della fede; è la luce che li illumina. E’ l'insegnamento fondamentale ed essenziale nella «gerarchia delle verità» di fede. «Tutta la storia della salvezza è la storia del rivelarsi del Dio vero e unico: Padre, Figlio e Spirito Santo, il quale riconcilia e unisce a sé coloro che sono separati dal peccato».

235 - In questo paragrafo, si esporrà in breve in qual modo è stato ri­velato il mistero della Beata Trinità (I), come la Chiesa ha formulato la dottrina della fede in questo mistero (11), e infine, come, attraverso le missioni divine del Figlio e dello Spirito Santo, Dio Padre realizza il suo «benevolo disegno» di creazione, redenzione e santificazione (III).

236 - I Padri della Chiesa fanno una distinzione con il primo termine il mistero della vita intima del Dio-Trinità, e con il secondo tutte le opere di Dio, con le quali egli si rivela e comunica la sua vita. Attraverso l'Economia ci è rivelata la Teologia; ma, inversamente, è la Teologia che illumina tutta l'Economia. Le opere di Dio rivelano chi egli è in se stesso; e, inversamente, il mistero del suo Essere intimo illumina l'intelligenza di tutte le sue opere. Avviene così, analogicamente, tra le persone umane. La persona si mostra attraverso le sue azioni, e, quanto più conosciamo una persona, tanto più comprendiamo le sue azioni.

237 - La Trinità è un mistero della fede in senso stretto, uno dei «misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono divinamente rivelati». Indubbiamente Dio ha lasciato tracce del suo essere trinitario nell'opera della creazione e nella sua rivelazione lungo il corso dell'Antico Testamento. Ma l'intimità del suo Essere come Trinità Santa costituisce un mistero inaccessibile alla sola ragione, come pure alla fede d'Israele, prima dell'incarnazione del Figlio di Dio e dell'invio dello Spirito Santo.

Il. La rivelazione di Dio come Trinità.

IL PADRE RIVELATO DAL FIGLIO

238 - In molte religioni Dio viene invocato come «Padre». Spesso la divinità è considerata come «padre degli dèi e degli uomini». Presso Israele, Dio è chiamato Padre in quanto Creatore del mondo. Ancor più Dio è Padre in forza dell'Alleanza e del dono della Legge fatto a Israele, suo «figlio primogenito» (Es 4,22). E anche chiamato Padre del re d'Israele. In modo particolarissimo egli è «il Padre dei poveri», dell'orfano, della vedova, che sono sotto la sua protezione amorosa.

239 - Chiamando Dio con il nome di «Padre», il linguaggio della fede mette in luce soprattutto due aspetti: che Dio è origine primaria di tutto e autorità tra­scendente, e che, al tempo stesso, è bontà e sollecitudine d'amore per tutti i suoi figli. Questa tenerezza paterna di Dio può anche essere espressa con l'im­magine della maternità,

che indica ancor meglio l'immanenza di Dio, l'intimità tra Dio e la sua creatura. Il linguaggio della fede si rifà così all'esperienza uma­na dei genitori che, in certo qual modo, sono per l'uomo i primi rappresentanti di Dio. Tale esperienza, però, mostra anche che i genitori umani possono sba­gliare e sfigurare il volto della paternità e della maternità. Conviene perciò ri­cordare che Dio trascende la distinzione umana dei sessi. Egli non è né uomo né donna, egli è Dio. Trascende pertanto la paternità e la maternità umane, pur essendone l'origine e il modello: nessuno è padre quanto Dio.

240 - Gesù ha rivelato che Dio è «Padre» in un senso inaudito: non lo è soltanto in quanto Creatore; egli è eternamente Padre in relazione al Figlio suo unigenito, il quale non è eternamente Figlio se non in rela­zione al Padre suo: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nes­suno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27).

241 - Per questo gli Apostoli confessano Gesù come «il Verbo» che «in principio (...) era presso Dio e il Verbo era Dio» (Gv 1,1), come colui che «è immagine del Dio invisibile» (Col 1,15) e «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (Eb 1,3).

242 - Sulla loro scia, seguendo la Tradizione apostolica, la Chiesa nel 325, nel primo Concilio Ecumenico di Nicea, ha confessato che il Figlio è «consostanziale al Padre», cioè un SOLO Dio con lui. Il secondo Concilio Ecumenico, riunito a Costantinopoli nel 381, ha conservato tale espressione nella sua formulazione del Credo di Nicea ed ha confessato «il Figlio unigenito di Dio, generato dal Padre prima di tutti i secoli, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre.

IL PADRE E IL FIGLIO RIVELATI DALLO SPIRITO

243 - Prima della sua pasqua, Gesù annunzia l'invio di un «altro Para­clito» (Difensore), lo Spirito Santo. Lo Spirito che opera fin dalla crea­zione, che già aveva «parlato per mezzo dei profeti» dimorerà pres­so i discepoli e sarà in loro, per insegnare loro ogni cosa e guidarli «alla verità tutta intera » (Gv 16,13). Lo Spirito Santo è in tal modo rivelato come un'altra Persona divina in rapporto a Gesù e al Padre.

244 - L'origine eterna dello Spirito si rivela nella sua missione nel tem­po. Lo Spirito Santo è inviato agli Apostoli e alla Chiesa sia dal Padre nel nome del Figlio, sia dal Figlio in persona, dopo il suo ritorno al Padre. L'invio della Persona dello Spirito dopo la glorificazione di Gesù rivela in pienezza il mistero della Santissima Trinità.

245 - La fede apostolica riguardante lo Spirito è stata confessata dal se­condo Concilio Ecumenico nel 381 a Costantinopoli: crediamo «nello Spirito Santo, che è Signore e dà la vita, e procede dal Padre ». Così la Chiesa riconosce il Padre come «la fonte e l'origine di tutta la divi­nità». L'origine eterna dello Spirito Santo non è tuttavia senza legame con quella del Figlio: «Lo Spirito Santo, che è la terza Persona della Trinità, è Dio, uno e uguale al Padre e al Figlio, della stessa sostanza e anche della stessa natura. [...] Tuttavia, non si dice che egli è soltanto lo Spirito del Padre, ma che è, ad un tempo, lo Spirito del Padre e del Figlio». Il Credo del Concilio di Costantinopoli della Chiesa confessa: «Con il Padre e il Figlio è adorato e glorificato».

246 - La tradizione latina del Credo confessa che lo Spirito «procede dal Padre e dal Figlio (Filioque)». Il Concilio di Firenze, nel 1439, espli­cita: «Lo Spirito Santo ha la sua essenza e il suo essere sussistente ad un tempo dal Padre e dal Figlio e [...] procede eternamente dall'uno e dall'altro come da un solo principio e per una sola ispirazione [...]. E poiché tutto quello che è del Padre, lo stesso Padre lo ha donato al suo unico Figlio generandolo, ad eccezione del suo essere Padre, anche que­sto procedere dello Spirito Santo a partire dal Figlio, lo riceve dall'eter­nità dal suo Padre che ha generato il Figlio stesso.

247 - L'affermazione del Filioque mancava nel Simbolo confessato a Costantino­poli nel 381. Ma, sulla base di un'antica tradizione latina e alessandrina, il Papa san Leone l'aveva già dogmaticamente confessata nel 447, prima che Ro­ma conoscesse e ricevesse, nel 451, durante il Concilio di Calcedonia, il Simbo­lo del 381. L'uso di questa formula nel Credo è entrato a poco a poco nella li­turgia latina (tra i secoli VIII e XI). L'introduzione della parola Filioque nel Simbolo niceno-costantinopolitano da parte della liturgia latina costituisce tut­tavia, ancora oggi, un punto di divergenza con le Chiese ortodosse.

248 - La tradizione orientale mette innanzi tutto in rilievo che il Padre, in rapporto allo Spirito, è l'origine prima. Confessando che lo Spirito «procede dal Padre» (Gv 15,26), afferma che lo Spirito procede dal Padre attraverso il Figlio. La tradizione occidentale dà maggior risalto alla comunione consostanziale tra il Padre e il Figlio affermando che lo Spirito procede dal Padre e dal Figlio (Filioque). Lo dice «lecitamente e ragionevolmente»; infatti l'ordine eterno delle Persone divine nella loro comunione consostanziale implica che il Padre sia l'origine prima dello Spirito in quanto «principio senza principio», ma pure che, in quanto Padre del Figlio unigenito, egli con lui sia «l'unico principio dal quale procede lo Spirito Santo». Questa legittima complementarità, se non viene inasprita, non scalfisce l'identità della fede nella realtà del medesimo mistero confessato.

III. La Santissima Trinità nella dottrina della fede.

LA FORMAZIONE DEL DOGMA TRINITARIO

249 - La verità rivelata della Santissima Trinità è stata, fin dalle origini, alla radice della fede vivente della Chiesa, principalmente per mezzo del Battesimo. Trova la sua espressione nella regola della fede battesimale, formulata nella predicazione, nella catechesi e nella preghiera della Chiesa. Simili formulazioni compaiono già negli scritti apostolici, come ad esempio questo saluto, ripreso nella liturgia eucaristica: «La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi» (2 Cor 13,13),

250 - Nel corso dei primi secoli, la Chiesa ha cercato di formulare in maniera più esplicita la sua fede trinitaria, sia per approfondire la propria intelligenza della fede, sia per difenderla contro errori che la alteravano. Fu questa l'opera degli antichi Concili, aiutati dalla ricerca teologica dei Padri della Chiesa e sostenuti dal senso della fede del popolo cristiano.

251 - Per la formulazione del dogma della Trinità, la Chiesa ha dovuto svilup­pare una terminologia propria ricorrendo a nozioni di origine filosofica: «so­stanza», «persona» o «ipostasi o, «relazione», ecc. Così facendo, non ha sot­toposto la Fede ad una sapienza umana, ma ha dato un significato nuovo, inso­lito a questi termini assunti ora a significare anche un mistero inesprimibile, «infinitamente al di là di tutto ciò che possiamo concepire a misura d'uomo ».

252 - La Chiesa adopera il termine «sostanza» (reso talvolta anche con «essenza» o «natura») per designare l'Essere divino nella sua unità, il termine «persona o « ipostasi per designare il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo nella loro reale distinzione reciproca, il termine «relazio­ne» per designare il fatto che la distinzione tra le Persone divine sta nel riferimento delle une alle altre.

IL DOGMA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ

253 - La Trinità è Una. Noi non confessiamo tre dèi, ma un Dio solo in tre Persone: «la Trinità consostanziale».« Le Persone divine non si dividono l'unica divinità, ma ciascuna di esse è Dio tutto intero: «Il Padre è tutto ciò che è il Figlio, il Figlio tutto ciò che è il Padre, lo Spirito Santo tutto ciò che è il Padre e il Figlio, cioè un unico Dio quanto alla natura». «Ognuna delle tre Persone è quella realtà, cioè la sostanza, l'essenza o la natura divina.

254 - Le Persone divine sono realmente distinte tra loro. «Dio è unico ma non solitario. «Padre», «Figlio» e «Spirito Santo» non sono semplicemente nomi che indicano modalità dell'Essere divino; essi infat­ti sono realmente distinti tra loro: «Il Figlio non è il Padre, il Padre non è il Figlio, e lo Spirito Santo non è il Padre o il Figlio». Sono distinti tra loro per le loro relazioni di origine: «È il Padre che genera, il Figlio che è generato, lo Spirito Santo che procede». L'Unità divina é Trina.

255 - Le Persone divine sono relative le une alle altre. La distinzione reale delle Persone divine tra loro, poiché non divide l'unità divina, risiede esclusivamente nelle relazioni che le mettono in riferimento le une alle altre: «Nei nomi relativi delle Persone, il Padre è riferito al Figlio, il Figlio al Padre, lo Spirito Santo all'uno e all'altro; quando si parla di queste tre Persone considerandone le relazioni, si crede tuttavia in una sola natura o sostanza». Infatti «tutto è una cosa sola in loro, dove non si opponga la relazione». «Per questa unità il Padre è tutto nel Figlio, tutto nello Spirito Santo; il Figlio tutto nel Padre, tutto nello Spirito Santo; lo Spirito Santo è tutto nel Padre, tutto nel Figlio».

256 - Ai catecumeni di Costantinopoli san Gregorio Nazianzeno, detto anche «il Teologo», consegna questa sintesi della fede trinitaria: «Innanzi tutto, conservatemi questo prezioso deposito, per il quale io vìvo e combatto, con il quale voglio morire, che mi rende capace di sopportare ogni male e di disprezzare tutti i piaceri: intendo dire la professione di fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo. Io oggi ve la affido. Con essa fra poco vi immergerò nell'acqua e da essa vi trarrò. Ve la dono, questa professione, come compagna e patrona di tutta la vostra vita. Vi do una sola divinità e potenza, che è Uno in Tre, e contiene i Tre in modo distinto. Divinità senza differenza di so­stanza o di natura, senza grado superiore che eleva, o inferiore che ab­bassa [...]. Di tre infiniti è l'infinita connaturalità. Ciascuno considerato in sé e Dio tutto intiero [...]. Dio le tre Persone considerate insieme [...]. Ho appena incominciato a pensare all'Unità ed eccomi immerso nello splendore della Trinità. Ho appena incominciato a pensare alla Trinità ed ecco che l'Unità mi sazia…

IV. Le operazioni divine e le missioni trinitarie.

257 - «O lux, beata Trinitas et principalis Unitas - O luce, Trinità bea­ta e originaria Unità!». Dio è eterna beatitudine, vita immortale, luce senza tramonto. Dio è amore: Padre, Figlio e Spirito Santo. Dio libera­mente vuole comunicare la gloria della sua vita beata. Tale è il disegno della «sua benevolenza» (Ef 1,9), disegno che ha concepito prima della creazione del mondo nel suo Figlio diletto, «predestinandoci ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef 1,5), cioè «ad essere conformi all'immagine del Figlio suo» (Rm 8,29), in forza dello «Spirito da figli adottivi» (Rm 8,15). Questo progetto è una «grazia che ci è stata data... fin dall'eternità» (2 Tm 1,9) e che ha come sorgente l'amore trinitario. Si dispiega nell'opera della creazione, in tutta la storia della salvezza dopo la caduta, nella missione del Figlio e in quella dello Spirito, che si prolunga nella missione della Chiesa.

258 - Tutta l'Economia divina è l'opera comune delle tre Persone divi­ne. Infatti, la Trinità, come ha una sola e medesima natura, così ha una sola e medesima operazione. «Il Padre, il Figlio e lo Spirito San­to non sono tre principi della creazione, ma un solo principio». Tutta­via, ogni Persona divina compie l'operazione comune secondo la sua personale proprietà. Così la Chiesa rifacendosi al Nuovo Testamento professa: «Uno infatti è Dio Padre, dal quale sono tutte le cose; uno il Signore Gesù Cristo, mediante il quale sono tutte le cose; uno è lo Spi­rito Santo, nel quale sono tutte le cose. Le missioni divine dell'incar­nazione del Figlio e del dono dello Spirito Santo sono quelle che parti­colarmente manifestano le proprietà delle Persone divine.

259 - Tutta l'economia divina, opera comune e insieme personale, fa co­noscere tanto la proprietà delle Persone divine, quanto la loro unica natura. Parimenti, tutta la vita cristiana è comunione con ognuna delle Persone divine, senza in alcun modo separarle. Chi rende gloria al Pa­dre lo fa per il Figlio nello Spirito Santo; chi segue Cristo, lo fa perché il Padre lo attira e perché lo Spirito lo guida.

260 - Il fine ultimo dell'intera economia divina è che tutte le creature entrino nell'unità perfetta della Beatissima Trinità. Ma fin d'ora siamo chiamati ad essere abitati dalla Santissima Trinità. Dice infatti il Signo­re: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23): «O mio Dio, Trinità che adoro, aiutami a dimenticarmi completamente, per stabilirmi in te, immobile e serena come se la mia anima fosse già nell'eternità; nulla possa turbare la mia pace né farmi uscire da te, o mio Immutabile, ma che ogni minuto mi porti più addentro nella pro­fondità del tuo mistero! Pacifica la mia anima; fanne il tuo cielo, la tua dimora amata e il luogo del tuo riposo. Che io non ti lasci mai sola, ma che sia lì, con tutta me stessa, tutta vigile nella mia fede, tutta adorante, tutta offerta alla tua azione creatrice».

In sintesi

261 - Il mistero della Santissima Trinità è il mistero centrale della fede e della vita cristiana. Soltanto Dio può darcene la conoscenza rivelan­dosi come Padre, Figlio e Spirito Santo.

262 - L'incarnazione del Figlio di Dio rivela che Dio è il Padre eterno e che il Figlio è consostanziale al Padre, cioè che in lui e con lui è lo stesso unico Dio.

263 - La missione dello Spirito Santo, che il Padre manda nel nome del Figlio e che il Figlio manda «dal Padre» (Gv 15,26), rivela che egli e con loro lo stesso unico Dio. «Con il Padre e il Figlio e ado­rato e glorificato».

264 - «Lo Spirito Santo procede, primariamente, dal Padre e, per il dono eterno che il Padre ne fa al Figlio, procede dal Padre e dal Figlio in comunione».

265 - Attraverso la grazia del Battesimo «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19), siamo chiamati ad aver parte alla vita della Beata Trinità, quaggiù nell'oscurità della fede, e, oltre la morte, nella luce eterna.

266 - «Fides autem catholica haec est, ut unum Deuni in Trinitate, et Tn­nitatem in unitate veneremur, ne que confundentes Personas, ne que substantiam separantes: alia enim est Persona Patris, alia Filii, alia Spiritus Sancti; sed Patris et Filii et Spiritus Sancti est una divini­tas, aequalis gloria, coaeterna maiestas - La fede cattolica consiste nel venerare un Dio solo nella Trinità, e la Trinità nell'Unità, senza confusione di Persone né separazione della sostanza: altra infatti e la Persona del Padre, altra quella del Figlio, altra quella dello Spirito Santo; ma unica è la divinità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, uguale la gloria, coeterna la maestà ».

267 - Inseparabili nella loro sostanza, le Persone divine sono inseparabili an­che nelle loro operazioni. Ma nell'unica operazione divina ogni Persona manifesta ciò che le è proprio nella Trinità, soprattutto nelle missioni divine dell'incarnazione del Figlio e del dono dello Spirito Santo.

Paragrafo 3

ONNIPOTENTE

268 - Di tutti gli attributi divini, nel Simbolo si nomina soltanto l'onni­potenza di Dio: confessarla è di grande importanza per la nostra vita. Noi crediamo che tale onnipotenza è universale, perché Dio, che tutto ha creato, tutto governa e tutto può; amante, perché Dio è nostro Pa­dre; misteriosa, perché soltanto la fede può riconoscere allorché «si manifesta nella debolezza» (2 Cor l2,9).

«EGLI OPERA TUTTO CIO’ CHE VUOLE»

269 - Le Sacre Scritture affermano a più riprese la potenza universale di Dio. Egli è detto «il Potente di Giacobbe» (Gn 49,24; Is 1,24 e altro­ve), «il Signore degli eserciti», «il Forte, il Potente» (SaI 24,8-10). Se Dio è onnipotente «in cielo e sulla terra» (SaI 135,6), è perché lui stesso li ha fatti. Nulla quindi gli è impossibile e dispone della sua opera come gli piace; egli è il Signore dell'universo, di cui ha fissato l'ordine che rimane a lui interamente sottoposto e disponibile; egli è il Padrone della storia: muove i cuori e guida gli avvenimenti secondo il suo beneplacito. «Prevalere con la forza ti è sempre possibile; chi potrà opporsi al potere del tuo braccio?» (Sap 11,21).

«HAI COMPASSIONE DI TUTTI, PERCHE' TUTTO TU PUOI» (Sap 11,23)

270 - Dio è Padre onnipotente. La sua paternità e la sua potenza si illuminano a vicenda. Infatti, egli mostra la sua onnipotenza paterna at­traverso il modo con cui si prende cura dei nostri bisogni; attraverso l'adozione filiale che ci dona («Sarò per voi come un padre, e voi mi sarete come figli e figlie, dice il Signore onnipotente»: (2 Cor 6,18); infi­ne attraverso la sua infinita misericordia, dal momento che egli manife­sta al massimo grado la sua potenza perdonando liberamente i peccati.

271 - L'onnipotenza divina non è affatto arbitraria: «In Dio la potenza e l'essenza, la volontà e l'intelligenza, la sapienza e la giustizia sono una sola ed identica cosa, di modo che nulla può esserci nella potenza divina che non possa essere nella giusta volontà di Dio o nella sua sapiente intelligenza».

IL MISTERO DELL'APPARENTE IMPOTENZA DI DIO

272 - La fede in Dio Padre onnipotente può essere messa alla prova dall'esperienza del male e della sofferenza. Talvolta Dio può sembrare assente ed incapace di impedire il male. Ora, Dio Padre ha rivelato nel modo più misterioso la sua onnipotenza nel volontario abbassamento e nella risurrezione del Figlio suo, per mezzo dei quali ha vinto il male. Cristo crocifisso è quindi «potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debo­lezza di Dio è più forte degli uomini» (I Cor 1,25). Nella risurrezione e nella esaltazione di Cristo il Padre ha dispiegato «l'efficacia della sua forza» e ha manifestato «la straordinaria grandezza della sua potenza verso di noi credenti » (Ef 1,19-22).

273 - Soltanto la fede può aderire alle vie misteriose dell'onnipotenza di Dio. Per questa fede, ci si gloria delle proprie debolezze per attirare su di sé la potenza di Cristo. Di questa fede il supremo modello è la Ver­gine Maria: ella ha creduto che «nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37) e ha potuto magnificare il Signore: «Grandi cose ha fatto in me l'Onni­potente e santo è il suo nome» (Lc 1,49).

274 - «La ferma persuasione dell'onnipotenza divina vale più di ogni altra cosa a corroborare in noi il doveroso sentimento della fede e della speranza. La nostra ragione, conquistata dall'idea della divina onnipo­tenza, assentirà, senza più dubitare, a qualunque cosa sia necessario credere, per quanto possa essere grande e meravigliosa o superiore alle leggi e all'ordine della natura. Anzi, quanto più sublimi saranno le veri­tà da Dio rivelate, tanto più agevolmente riterrà di dovervi assentire». In sintesi

275 - Con Giobbe il giusto, noi confessiamo: «Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa é impossibile per te» (Gb 42,2).

276 - Fedele alla testimonianza della Scrittura, la Chiesa rivolge spesso la sua preghiera al «Dio onnipotente ed eterno» («Omnipotens sempi­terne Deus... »), credendo fermamente che « nulla è impossibile a Dio» (Lc l,37).

277 - Dio manifesta la sua onnipotenza convertendoci dai nostri peccati e ristabilendoci nella sua amicizia con la grazia («Deus, qui omnipo­tentiam tuam parcendo maxime et miserando manifestas... - O Dio, che riveli la tua onnipotenza soprattutto con la misericordia e il perdono... »).

278 - Senza credere che l'amore di Dio è onnipotente, come credere che il Padre abbia potuto crearci, il Figlio riscattarci, lo Spirito Santo santificarci?

Paragrafo 4

CREATORE

279 - «In principio Dio creò il cielo e la terra» (Gn 1,1). Con queste solenni parole incomincia la Sacra Scrittura. Il Simbolo della fede le ri­prende confessando Dio Padre onnipotente come «Creatore del cielo e della terra », « di tutte le cose visibili e invisibili». Parleremo perciò innanzi tutto del Creatore, poi della sua creazione, infine della caduta a causa del peccato, da cui Gesù Cristo, il Figlio di Dio, è venuto a risollevarci.

280 - La creazione è il fondamento di «tutti i progetti salvifici di Dio», «l'inizio della storia della salvezza» che culmina in Cristo. Inversa­mente, il mistero di Cristo è la luce decisiva sul mistero della creazione: rivela il fine in vista del quale, «in principio, Dio creò il cielo e la terra» (Gn 1.1): dalle origini, Dio pensava alla gloria della nuova creazione in Cristo.

281 - Per questo le letture della Veglia pasquale, celebrazione della nuova creazione in Cristo, iniziano con il racconto della creazione; parimenti, nella liturgia bizantina, il racconto della creazione é sempre la prima lettura delle vigilie delle grandi feste del Signore. Secondo la testimonianza degli antichi, l'istruzione dei catecumeni per il Battesimo segue lo stesso itinerario

I. La catechesi sulla creazione.

282 - La catechesi sulla creazione è di capitale importanza. Concerne i fondamenti stessi della vita umana e cristiana: infatti esplicita la rispo­sta della fede cristiana agli interrogativi fondamentali che gli uomini di ogni tempo si sono posti: «Da dove veniamo?», «Dove andiamo?», «Qual è la nostra origine?», « Quale il nostro fine?», «Da dove viene e dove va tutto ciò che esiste?». Le due questioni, quella dell'origine e quella del fine, sono inseparabili. Sono decisive per il senso e l'orienta­mento della nostra vita e del nostro agire.

283 - La questione delle origini del mondo e dell'uomo è oggetto di numerose ricerche scientifiche, che hanno straordinariamente arricchito le nostre cono­scenze sull'età e le dimensioni del cosmo, sul divenire delle forme viventi, sull'apparizione dell'uomo. Tali scoperte ci invitano ad una sempre maggiore ammirazione per la grandezza del Creatore, e a ringraziarlo per tutte le sue opere e per l'intelligenza e la sapienza di cui fa dono agli studiosi e ai ricercatori. Con Salomone costoro possono dire: «Egli mi ha concesso la conoscenza infallibile delle cose, per comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi [...]; perché mi ha istruito la Sapienza, artefice di tutte le cose» (Sap 7,17-21).

284 - Il grande interesse di cui sono oggetto queste ricerche è fortemente stimo­lato da una questione di altro ordine, che oltrepassa il campo proprio delle scienze naturali. Non si tratta soltanto di sapere quando e come sia sorto mate­rialmente il cosmo, né quando sia apparso l'uomo, quanto piuttosto di scoprire quale sia il senso di tale origine: se cioè sia governata dal caso, da un destino cieco, da una necessità anonima, oppure da un Essere trascendente, intelligente e buono, chiamato Dio. E se il mondo proviene dalla sapienza e dalla bontà di Dio, perché il male? Da dove viene? Chi ne è responsabile? C'è una liberazione da esso?

285 - Fin dagli inizi, la fede cristiana è stata messa a confronto con risposte di­verse dalla sua circa la questione delle origini. Infatti, nelle religioni e nelle cul­ture antiche si trovano numerosi miti riguardanti le origini. Certi filosofi hanno affermato che tutto è Dio, che il mondo è Dio, o che il divenire del mondo è il divenire di Dio (panteismo); altri hanno detto che il mondo è una emanazione necessaria di Dio, scaturisce da questa sorgente e ad essa ritorna; altri an­cora hanno sostenuto l'esistenza di due principi eterni, il Bene e il Male, la Luce e le Tenebre, in continuo conflitto (dualismo, manicheismo); secondo alcune di queste concezioni, il mondo (almeno il mondo materiale) sarebbe cattivo, prodotto di un decadimento, e quindi da respingere o oltrepassare (gnosi); altri ammettono che il mondo sia stato fatto da Dio, ma alla maniera di un orolo­giaio che, una volta fatto, l'avrebbe abbandonato a se stesso (deismo); altri infi­ne non ammettono alcuna origine trascendente del mondo, ma vedono in esso il puro gioco di una materia che sarebbe sempre esistita (materialismo). Tutti questi tentativi di spiegazione stanno a testimoniare la persistenza e l'universalità del problema delle origini. Questa ricerca è propria dell'uomo.

286 - Indubbiamente, l'intelligenza umana può già trovare una risposta al problema delle origini. Infatti, è possibile conoscere con certezza l'esistenza di Dio Creatore attraverso le sue opere, grazie alla luce della ragione umana, anche se questa conoscenza spesso è offuscata e sfigurata dall'errore. Per questo la fede viene a confermare e a far luce alla ragione nella retta intelligenza di queste verità: «Per fede sappiamo che i mondi furono formati dalla Parola di Dio, sì che da cose non visibili ha preso origine ciò che si vede» (Eb 11,3).

287 - La verità della creazione è tanto importante per l'intera vita umana che Dio, nella sua tenerezza, ha voluto rivelare al suo popolo tutto ciò che è necessario conoscere al riguardo. Al di là della conoscenza naturale che ogni uomo può avere del Creatore, Dio ha progressiva­mente rivelato a Israele il mistero della creazione. Egli, che ha scelto i patriarchi, che ha fatto uscire Israele dall'Egitto, e che, eleggendo Israe­le, l'ha creato e formato, si rivela come colui al quale appartengono tutti i popoli della terra e l'intera terra, come colui che, solo, «ha fatto cielo e terra» (Sal 115,15; 124,8; 134,3).

288 - La rivelazione della creazione è, cosi, inseparabile dalla rivelazio­ne e dalla realizzazione dell'Alleanza dell'unico Dio con il suo popolo. La creazione è rivelata come il primo passo verso tale Alleanza, come la prima e universale testimonianza dell'amore onnipotente di Dio. E poi la verità della creazione si esprime con una forza crescente nel messaggio dei profeti, nella preghiera dei Salmi e della liturgia, nella riflessione della sapienza del popolo eletto.

289 - Tra tutte le parole della Sacra Scrittura sulla creazione, occupano un posto singolarissimo i primi tre capitoli della Genesi. Dal punto di vista letterario questi testi possono avere fonti diverse. Gli autori ispirati li hanno collocati all'inizio della Scrittura in modo che esprimano, con il loro linguaggio solenne, le verità della creazione, della sua origi­ne e del suo fine in Dio, del suo ordine e della sua bontà, della voca­zione dell'uomo, infine del dramma del peccato e della speranza della salvezza. Lette alla luce di Cristo, nell'unità della Sacra Scrittura e della Tradizione vivente della Chiesa, queste parole restano la fonte principa­le per la catechesi dei misteri delle «origini»: creazione, caduta, pro­messa della salvezza.

Il. La creazione - opera della Santissima Trinità.

290 - «In principio, Dio creò il cielo e la terra» (Gn 1,1). Queste prime parole della Scrittura contengono tre affermazioni: il Dio eterno ha da­to un inizio a tutto ciò che esiste fuori di lui. Egli solo è Creatore (il verbo «creare» - in ebraico bara - ha sempre come soggetto Dio). La totalità di ciò che esiste (espressa nella formula «il cielo e la terra») dipende da colui che le dà l'essere.

291 - «In principio era il Verbo [...] e il Verbo era Dio. [...] Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto» (Gv 1,1-3). Il Nuovo Testamento rivela che Dio ha creato tutto per mezzo del Verbo eterno, il Figlio suo diletto. «Per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra [...]. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono » (Col 1,16-17). La fede della Chiesa affer­ma pure l'azione creatrice dello Spirito Santo: egli è colui che «dà la vita», lo «Spirito Creatore» («Veni, Creator Spiritus»), la «sorgente di ogni bene».

292 - Lasciata intravvedere nell'Antico Testamento, rivelata nella Nuo­va Alleanza, l'azione creatrice del Figlio e dello Spirito, inseparabilmen­te una con quella del Padre, è chiaramente affermata dalla regola di fe­de della Chiesa: «Non esiste che un solo Dio (...): egli è il Padre, è Dio, il Creatore, l'Autore, l'Ordinatore. Egli ha fatto ogni cosa da se stesso, cioè con il suo Verbo e la sua Sapienza»; «il Figlio e lo Spirto» sono come «le sue mani». La creazione è opera comune della Santissima Trinità

III. «Il mondo è stato creato per la gloria di Dio».

293 - È una verità fondamentale che la Scrittura e la Tradizione costantemente insegnano e celebrano: «Il mondo è stato creato per la gloria di Dio». Dio ha creato tutte le cose, spiega san Bonaventura, «non (...) propter gloriam augendam, sed propter gloriam manifestandam et propter gloriam suam communicandam - non per accrescere la propria gloria, ma per manifestarla e per comunicarla». Infatti Dio non ha altro motivo per creare se non il suo amore e la sua bontà: «Aperta enim manu clave amoris, creatur prodierunt - Aperta la mano dalla chiave dell'amore, le creature vennero alla luce». E il Concilio Vatica­no I spiega: «Nella sua bontà e con la sua onnipotente virtù, non per aumentare la sua beatitudine, né per acquistare perfezione, ma per manifestarla attra­verso i beni che concede alle sue creature, questo solo vero Dio ha, con la più libera delle decisioni, dall'inizio dei tempi, creato insieme dal nulla l'una e l'altra creatura, la spirituale e la corporale».

294 - La gloria di Dio è che si realizzi la manifestazione e la comunica­zione della sua bontà, in vista delle quali il mondo è stato creato. Ci ha predestinati «a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia» (E], 1,5-6). «Infatti la gloria di Dio è l'uomo vivente e la vita dell'uomo è la visione di Dio: se già la rivelazione di Dio attraver­so la creazione procurò la vita a tutti gli esseri che vivono sulla terra, quanto più la manifestazione del Padre per mezzo del Verbo dà la vita a coloro che vedono Dio». Il fine ultimo della creazione è che Dio, «che di tutti è il Creatore, possa anche essere “tutto in tutti” (I Cor 15,28), procurando ad un tempo la sua gloria e la nostra felicità».

IV. Il mistero della creazione.

DIO CREA CON SAPIENZA E AMORE

295 - Noi crediamo che il mondo è stato creato da Dio secondo la sua sapienza. Non è il prodotto di una qualsivoglia necessità, di un desti­no cieco o del caso. Noi crediamo che il mondo trae origine dalla libe­ra volontà di Dio, il quale ha voluto far partecipare le creature al suo essere, alla sua saggezza e alla sua bontà: «Tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create e sussistono» (Ap 4,11). «Quanto sono grandi, Signore, le tue opere! Tutto hai fatto con saggezza» (SaI 104,24). «Buono è il Signore verso tutti, la sua tenerezza si espande su tutte le creature » (SaI 145,9).

DIO CREA «DAL NULLA»

296 - Noi crediamo che Dio, per creare, non ha bisogno di nulla di preesistente né di alcun aiuto. La creazione non è neppure una emana­zione necessaria della sostanza divina. Dio crea liberamente «dal nulla»: «Che vi sarebbe di straordinario se Dio avesse tratto il mondo da una materia preesistente? Un artigiano umano, quando gli si dà un materia­le, ne fa tutto ciò che vuole. Invece la potenza di Dio si manifesta precisamente in questo, che egli parte dal nulla per fare tutto ciò che vuole.

297 - La fede nella creazione «dal nulla» è attestata nella Scrittura co­me una verità piena di promessa e di speranza. Così la madre dei sette figli li incoraggia al martirio: «Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho dato lo spirito e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore del mondo, che ha plasmato all'origine l'uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo lo spirito e la vita, come voi ora per le sue leggi non vi cura­te di voi stessi. [...] Ti scongiuro, figlio, contempla il cielo e la terra, os­serva quanto vi è in essi e sappi che Dio li ha fatti non da cose preesi­stenti; tale è anche l'origine del genere umano» (2 Moc 7,22-23.28).

298 - Dio, poiché può creare dal nulla, può anche per opera dello Spi­rito Santo, donare ai peccatori la vita dell'anima, creando in essi un cuore puro, e ai defunti, con la risurrezione, la vita del corpo, egli «che dà vita ai morti e chiama all'esistenza le cose che ancora non esi­stono» (Rm 4,17). E, dal momento che, con la sua Parola, ha potuto far risplendere la luce dalle tenebre, può anche donare la luce della fede a coloro che non lo conoscono.

DIO CREA UN MONDO ORDINATO E BUONO

299 - Per il fatto che Dio crea con sapienza, la creazione ha un ordine: «Tu hai disposto tutto con misura, calcolo e peso» (Sap 11,20). Creata nel Verbo eterno e per mezzo del Verbo eterno, «immagine del Dio in­visibile» (Col 1,15), la creazione è destinata, indirizzata all'uomo, im­magine di Dio, chiamato a una relazione personale con Dio. La nostra intelligenza, poiché partecipa alla luce dell'Intelletto divino, può com­prendere ciò che Dio ci dice attraverso la creazione, certo non senza grande sforzo e in spirito di umiltà e di rispetto davanti al Creatore e alla sua opera. Scaturita dalla bontà divina, la creazione partecipa di questa bontà («E Dio vide che era cosa buona [...] cosa molto buona»: Gn l,4.10.12.18.21.31). La creazione, infatti, è voluta da Dio come un dono fatto all'uomo, come un'eredità a lui destinata e affidata. La Chiesa, a più riprese, ha dovuto difendere la bontà della creazione, compresa quella del mondo materiale.

DIO TRASCENDE LA CREAZIONE ED E’ AD ESSA PRESENTE

300 - Dio è infinitamente più grande di tutte le sue opere: «Sopra i cieli si innalza» la sua «magnificenza» (SaI 8,2), «la sua grandezza non si può misurare» (SaI 145,3). Ma poiché egli è il Creatore sovrano e libero, causa prima di tutto ciò che esiste, egli è presente nell'intimo più profondo delle sue creature: «In lui viviamo, ci muoviamo ed esi­stiamo» (At 17,28). Secondo le parole di sant'Agostino, egli è «interior intimo meo et superior summo meo - più intimo della mia parte più in­tima, più alto della mia parte più alta.

DIO CONSERVA E REGGE LA CREAZIONE

301 - Dopo averla creata, Dio non abbandona a se stessa la sua creatu­ra. Non le dona soltanto di essere e di esistere: la conserva in ogni istante nell'«essere», le dà la facoltà di agire e la conduce al suo termi­ne. Riconoscere questa completa dipendenza in rapporto al Creatore è fonte di sapienza e di libertà, di gioia, di fiducia: «Tu ami tutte le cose esistenti, e nulla disprezzi di quanto hai creato; se tu avessi odiato qualcosa, non l'avresti neppure creata. Come potreb­be sussistere una cosa se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l'avessi chiamata all'esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché tutte sono tue, Signore, amante della vita» (Sop 11,24-26)

V. Dio realizza il suo disegno: la provvidenza divina.

302 - La creazione ha la sua propria bontà e perfezione, ma non è usci­ta dalle mani del Creatore interamente compiuta. E’ creata «in stato di via» («in statu viae») verso una perfezione ultima alla quale Dio l'ha destinata, ma che ancora deve essere raggiunta. Chiamiamo divina provvidenza le disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce la crea­zione verso questa perfezione. «Dio conserva e governa con la sua provvidenza tutto ciò che ha crea­to, “essa si estende da un confine all'altro con forza, governa con bon­tà eccellente ogni cosa” (Sap 8,1). Infatti “tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi” (Eb 4,13), anche quello che sarà fatto dalla libera azione delle creature».

303 - La testimonianza della Scrittura è unanime: la sollecitudine della di­vina Provvidenza è concreta e immediata; essa si prende cura di tutto, dalle più piccole cose fino ai grandi eventi del mondo e della storia. Con forza, i Libri Sacri affermano la sovranità assoluta di Dio sul corso degli avveni­menti: «Il nostro Dio è nei cieli, egli opera tutto ciò che vuole» (Sal 115,3); e di Cristo si dice: «Quando egli apre, nessuno chiude, e quando chiude, nessuno apre» (Ap 3,7); «Molte sono le idee nella mente dell'uo­mo, ma solo il disegno del Signore resta saldo» (Prv 19,21). 304 - Spesso si nota che lo Spirito Santo, autore principale della Sacra Scrittura, attribuisce alcune azioni a Dio, senza far cenno a cause se­conde. Non si tratta di «un modo di parlare» primitivo, ma di una maniera profonda di richiamare il primato di Dio e la sua signoria assoluta sulla storia e sul mondo educando così alla fiducia in lui. La preghiera dei salmi è la grande scuola di questa fiducia.

305 - Gesù chiede un abbandono filiale alla provvidenza del Padre cele­ste, il quale si prende cura dei più elementari bisogni dei suoi figli: «Non affannatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo?” (...). Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,31-33).

LA PROVVIDENZA E LE CAUSE SECONDE

306 - Dio è il Padrone sovrano del suo disegno. Però, per realizzarlo, si serve anche della cooperazione delle creature. Questo non è un segno di debolezza, bensì della grandezza e della bontà di Dio onnipotente. Infatti Dio alle sue creature non dona soltanto l'esistenza, ma anche la dignità di agire esse stesse, di essere causa e principio le une delle altre, e di collaborare in tal modo al compimento del suo disegno.

307 - Dio dà agli uomini anche il potere di partecipare liberamente alla sua provvidenza, affidando loro la responsabilità di «soggiogare» la terra e di dominarla. In tal modo Dio fa dono agli uomini di essere cause intelligenti e libere per completare l'opera della creazione, perfezionandone l'armonia, per il loro bene e per il bene del loro prossimo. Cooperatori spesso inconsapevoli della volontà divina, gli uomini possono entrare deliberatamente nel piano divino con le loro azioni, le loro preghiere, ma anche con le loro sofferenze. Allora diventano in pienezza «collaboratori di Dio» (1 Cor 3,9) e del suo Regno.

308 - Dio agisce in tutto l'agire delle sue creature: è una verità insepa­rabile dalla fede in Dio Creatore. Egli è la causa prima che opera nelle cause seconde e per mezzo di esse: «È Dio infatti che suscita» in noi «il volere e l'operare secondo i suoi benevoli disegni» (FiI 2,13). Lun­gi dallo sminuire la dignità della creatura, questa verità la accresce. In­fatti la creatura, tratta dal nulla dalla potenza, dalla sapienza e dalla bontà di Dio, niente può se è separata dalla propria origine, perché «la creatura senza il Creatore svanisce»; ancor meno può raggiungere il suo fine ultimo senza l'aiuto della grazia.

LA PROVVIDENZA E LO SCANDALO DEL MALE

309 - Se Dio Padre onnipotente, Creatore del mondo ordinato e buono, si prende cura di tutte le sue creature, perché esiste il male? A questo interrogativo tanto pressante quanto inevitabile, tanto doloroso quanto misterioso, nessuna risposta immediata potrà bastare. È l'insieme della fede cristiana che costituisce la risposta a tale questione: la bontà della creazione, il dramma del peccato, l'amore paziente di Dio che viene in­contro all'uomo con le sue alleanze, con l'incarnazione redentrice del suo Figlio, con il dono dello Spirito, con la convocazione della Chiesa, con la forza dei sacramenti, con la vocazione ad una vita felice, alla quale le creature libere sono invitate a dare il loro consenso, ma alla quale, per un mistero terribile, possono anche sottrarsi. Non c'è un punto del messaggio cristiano che non sia, per un certo aspetto, una risposta al problema del male.

310 - Ma perché Dio non ha creato un mondo a tal punto perfetto da non potervi essere alcun male? Nella sua infinita potenza, Dio potrebbe sempre creare qualcosa di migliore. Tuttavia, nella sua sapienza e nella sua bontà infinite, Dio ha liberamente voluto creare un mondo «in stato di via» verso la sua perfezione ultima. Questo divenire, nel disegno di Dio, comporta, con la comparsa di certi esseri, la scomparsa di altri, con il più perfetto anche il meno perfetto, con le costruzioni della natura anche le distruzioni. Quindi, insieme con il bene fisico esiste anche il male fisico, finché la creazione non avrà raggiunto la sua perfezione.

311 - Gli angeli e gli uomini, creature intelligenti e libere, devono cam­minare verso il loro destino ultimo per una libera scelta e un amore di preferenza. Essi possono, quindi, deviare. In realtà, hanno peccato. E così che nel mondo è entrato il male morale, incommensurabilmente più grave del male fisico. Dio non è in alcun modo, né direttamente né in­direttamente, la causa del male morale. Però, rispettando la libertà della sua creatura, lo permette e, misteriosamente, sa trarne il bene: «Infatti Dio onnipotente [...], essendo supremamente buono, non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse sufficientemente potente e buono da trarre dal male stesso il bene».

312 - Così, col tempo, si può scoprire che Dio, nella sua provvidenza onnipotente, può trarre un bene dalle conseguenze di un male, anche morale, causato dalle sue creature: «Non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio. [...] Se voi avete pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene (...) per far vivere un popolo numero­so» (Gn 45,8; 50,20). Dal più grande male morale che mai sia stato commesso, il rifiuto e l'uccisione del Figlio di Dio, causata dal peccato di tutti gli uomini, Dio, con la sovrabbondanza della sua grazia, ha tratto i più grandi beni: la glorificazione di Cristo e la nostra redenzio­ne. Con ciò, però, il male non diventa un bene.

313 - «Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8.28). La testimonianza dei santi non cessa di confermare questa verità: Così santa Caterina da Siena dice a «coloro che si scandalizzano» e si ribellano davanti a ciò che loro capita: «Tutto viene dall'amore, tutto è ordinato alla salvezza dell'uomo, Dio non fa niente se non a questo fine». E san Tommaso Moro, poco prima del martirio, consola la figlia: «Non accade nulla che Dio non voglia, e io sono sicuro che qualunque cosa av­venga, per quanto cattiva appaia, sarà in realtà sempre per il meglio. E Giuliana di Norwich: «Imparai dalla grazia di Dio che dovevo rima­nere fermamente nella fede, e quindi dovevo saldamente e perfettamente credere che tutto sarebbe finito in bene (...). Tu stessa vedrai che ogni specie di cosa sarà per il bene.

314 - Noi crediamo fermamente che Dio è Signore del mondo e della storia. Ma le vie della sua provvidenza spesso ci rimangono sconosciu­te. Solo alla fine, quando avrà termine la nostra conoscenza imperfetta e vedremo Dio «a faccia a faccia» (1 Cor 13,12), conosceremo piena­mente le vie lungo le quali, anche attraverso i drammi del male e del peccato, Dio avrà condotto la sua creazione fino al riposo di quel Sabato definitivo, in vista del quale ha creato il cielo e la terra.

In sintesi

315 - Nella creazione del mondo e dell'uomo, Dio ha posto la prima e uni­versale testimonianza del suo amore onnipotente e della sua sapienza, il primo annunzio del suo «disegno di benevolenza», che ha il suo fine nella nuova creazione in Cristo. 316 - Sebbene l'opera della creazione sia particolarmente attribuita al Pa­dre, è ugualmente verità di fede che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono il principio unico e indivisibile della creazione.

317 - Dio solo ha creato l'universo liberamente, direttamente, senza alcun aiuto.

318 - Nessuna creatura ha il potere infinito necessario per «creare» nel senso proprio del termine, cioè produrre e dare l'essere a ciò che non l'aveva affatto (chiamare all'esistenza «ex nihilo» - dal nulla).

319 - Dio ha creato il mondo per manifestare e per comunicare la sua glo­ria. Che le sue creature abbiano parte alla sua verità, alla sua bontà, alla sua bellezza: ecco la gloria per la quale Dio le ha create.

320 - Dio, che ha creato l'universo, lo conserva nell'esistenza per mezzo del Verbo, suo Figlio che «sostiene tutto con la potenza della sua paro­la» (Eb 1,3), e per mezzo dello Spirito Creatore che dà vita.

321 - La divina Provvidenza consiste nelle disposizioni con le quali Dio, con sapienza e amore, conduce tutte le creature al loro fine ultimo.

322 - Cristo ci esorta all'abbandono filiale alla provvidenza del nostro Pa­dre celeste e l'apostolo san Pietro gli fa eco: gettate «in lui ogni vostra preoccupazione, perché egli ha cura di voi» (1 Pt 5,7).

323 - La provvidenza divina agisce anche attraverso l'azione delle creature. Agli esseri umani Dio dona di cooperare liberamente ai suoi disegni.

324 - Che Dio permetta il male fisico e morale è un mistero che egli illu­mina nel suo Figlio, Gesù Cristo, morto e risorto per vincere il male. La fede ci dà la certezza che Dio non permetterebbe il male, se dallo stesso male non traesse il bene, per vie che conosceremo pienamente soltanto nella vita eterna.

Paragrafo 5

IL CIELO E LA TERRA

325 - Il Simbolo degli Apostoli professa che Dio è «il Creatore del cie­lo e della terra», e il Simbolo niceno-costantinopolitano esplicita: «...di tutte le cose visibili e invisibili».

326 - Nella Sacra Scrittura, l'espressione «cielo e terra» significa: tutto ciò che esiste, l'intera creazione. Indica pure, all'interno della creazione, il legame che ad un tempo unisce e distingue cielo e terra: «La terra» è il mondo degli uomini. «Il cielo», o «i cieli», può indicare il firma­mento, ma anche il «luogo» proprio di Dio: il nostro «Padre che è nei cieli» (Mt 5,16) e, di conseguenza, anche il «cielo» che è la glo­ria escatologica. Infine, la parola «cielo» indica il «luogo» delle crea­ture spirituali - gli angeli - che circondano Dio.

327 - La professione di fede del Concilio Lateranense IV afferma: Dio, «fin dal principio del tempo, creò dal nulla l'uno e l'altro ordine di creature, quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il mondo terrestre; e poi l'uomo, quasi partecipe dell'uno e dell'altro, composto di anima e di corpo».

I. Gli angeli.

L'ESISTENZA DEGLI ANGELI - UNA VERITÀ DI FEDE

328 - L'esistenza degli esseri spirituali, incorporei, che la Sacra Scrittura chiama abitualmente angeli, è una verità di fede. La testimonianza della Scrittura è tanto chiara quanto l'unanimità della Tradizione.

CHI SONO?

329 - Sant'Agostino dice a loro riguardo: «”Angelus” officii nomen est, non naturae. Quaeris nomen huius naturae, spiritus est; quaeris of­ficium, angelus est: ex eo quod est, spiritus est, ex eo quod agit, ange­lus - La parola ‘angelo’ designa l'ufficio, non la natura. Se si chiede il nome di questa natura, si risponde che è spirito; se si chiede l'ufficio, si risponde che è angelo: è spirito per quello che è, mentre per quello che compie è angelo». In tutto il loro essere, gli angeli sono servitori e messaggeri di Dio. Per il fatto che «vedono sempre la faccia del Padre mio che è nei cieli» (Mt 18,10), essi sono «potenti esecutori dei suoi comandi, pronti alla voce della sua parola» (Sal 103,20).

330 - In quanto creature puramente spirituali, essi hanno intelligenza e volontà: sono creature personali e immortali. Superano in perfezione tutte le creature visibili. Lo testimonia il fulgore della loro gloria.

CRISTO «CON TUTTI I SUOI ANGELI»

331 - Cristo è il centro del mondo angelico. Essi sono i suoi angeli: «Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi an­geli [...] » (Mt 25,31). Sono suoi perché creati per mezzo di lui e in vista di lui: «Poiché per mezzo di lui sono state create tutte le cose, quelle nei cieli e quelle sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: troni, do­minazioni, principati e potestà. Tutte le cose sono state create per mez­zo di lui e in vista di lui» (Col 1,16). Sono suoi ancor più perché li ha fatti messaggeri del suo disegno di salvezza: «Non sono essi tutti spiriti incaricati di un ministero, inviati per servire coloro che devono eredita­re la salvezza?» (Eb 1,14).

332 - Essi, fin dalla creazione e lungo tutta la storia della salvezza, annunciano da lontano o da vicino questa salvezza e servono la realiz­zazione del disegno salvifico di Dio: chiudono il paradiso terrestre, proteggono Lot, salvano Agar e il suo bambino, trattengono la mano di Abramo; la Legge viene comunicata mediante il ministero degli an­geli, essi guidano il popolo di Dio, annunziano nascite e vocazioni, assistono i profeti, per citare soltanto alcuni esempi. Infine, è l’angelo Gabriele che annunzia la nascita del Precursore e quella dello stesso Gesù.

333 - Dall'incarnazione all'ascensione, la vita del Verbo incarnato è cir­condata dall'adorazione e dal servizio degli angeli. Quando Dio «intro­duce il Primogenito nel mondo, dice: lo adorino tutti gli angeli di Dio» (Eb 1,6). Il loro canto di lode alla nascita di Cristo non ha cessa­to di risuonare nella lode della Chiesa: «Gloria a Dio...» (Lc 2,14). Es­si proteggono l'infanzia di Gesù, servono Gesù nel deserto, lo confor­tano durante l'agonia, quando egli avrebbe potuto da loro essere sal­vato dalla mano dei nemici come un tempo Israele. Sono ancora gli angeli che evangelizzano la Buona Novella dell'incarnazione e della risurrezione di Cristo. Al ritorno di Cristo, che essi annunziano, saranno là, al servizio del suo giudizio.

GLI ANGELI NELLA VITA DELLA CHIESA

334 - Allo stesso modo tutta la vita della Chiesa beneficia dell'aiuto misterioso e potente degli angeli.

335 - Nella liturgia, la Chiesa si unisce agli angeli per adorare il Dio tre volte santo; invoca la loro assistenza (così nell’In paradisum deducant le angeli... In paradiso ti accompagnino gli angeli - nella liturgia dei defunti, o ancora nell'«Inno dei cherubini» della liturgia bizantina), e celebra la memoria di alcuni angeli in particolare (san Michele, san Gabriele, san Raffaele, gli angeli custodi).

336 - Dal suo inizio fino all'ora della morte la vita umana è circon­data dalla loro protezione e dalla loro intercessione. « Ogni fedele ha al proprio fianco un angelo come protettore e pastore, per condurlo al­la vita». Fin da quaggiù, la vita cristiana partecipa, nella fede, alla beata comunità degli angeli e degli uomini, uniti in Dio.

II. Il mondo visibile.

337 - E’ Dio che ha creato il mondo visibile in tutta la sua ricchezza, la sua varietà e il suo ordine. La Scrittura presenta simbolicamente l'opera del Creatore come un susseguirsi di sei giorni di «lavoro» divino, che terminano nel «riposo» del settimo giorno. Il testo sacro, riguardo al­la creazione, insegna verità rivelate da Dio per la nostra salvezza, che consentono di «riconoscere la natura intima di tutta la creazione, il suo valore e la sua ordinazione alla lode di Dio».

338 - Non esiste nulla che non debba la propria esistenza a Dio Creatore. Il mondo ha avuto inizio quando è stato tratto dal nulla dalla Parola di Dio; tutti gli esseri esistenti, tutta la natura, tutta la storia umana si radicano in questo evento primordiale: è la genesi della formazione del mondo e dell'inizio del tempo.

339 - Ogni creatura ha la sua propria bontà e la sua propria perfèzione. Per ognuna delle opere dei «sei giorni» è detto: «E Dio vide che ciò era buo­no». «E dalla loro stessa condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro or­dine». ( Le varie creature, volute nel loro proprio essere, riflettono, ognu­na a suo modo, un raggio dell'infinita sapienza e bontà di Dio. Per questo l'uomo deve rispettare la bontà propria di ogni creatura, per evitare un uso disordinato delle cose, che disprezza il Creatore e comporta conse­guenze nefaste per gli uomini e per il loro ambiente.

340 - L'interdipendenza delle creature è voluta da Dio. Il sole e la luna, il cedro e il piccolo fiore, l'aquila e il passero: le innumerevoli diversità e disuguaglianze stanno a significare che nessuna creatura basta a se stessa, che esse esistono solo in dipendenza le une dalle altre, per com­pletarsi vicendevolmente, al servizio le une delle altre.

341 - La bellezza dell'universo. L'ordine e l'armonia del mondo creato ri­sultano dalla diversità degli esseri e dalle relazioni esistenti tra loro. L'uomo le scopre progressivamente come leggi della natura. Esse sono oggetto dell'ammirazione degli scienziati. La bellezza della creazione riflette la bellezza infinita del Creatore. Deve ispirare il rispetto e la sottomissione dell'intelligenza e della volontà dell'uomo.

342 - La gerarchia delle creature è espressa dall'ordine dei « sei giorni», che va dal meno perfetto al più perfetto. Dio ama tutte le sue creatu­re, si prende cura di ognuna, perfino dei passeri. Tuttavia, Gesù dice: «Voi valete più di molti passeri» (Lc 12,7), o ancora: «Quanto è più prezioso un uomo di una pecora!» (Mt 12,12).

343 - L'uomo è il vertice dell'opera della creazione. Il racconto ispirato lo esprime distinguendo nettamente la creazione dell'uomo da quella delle altre creature.

344 - Esiste una solidarietà fra tutte le creature per il fatto che tutte hanno il medesimo Creatore e tutte sono ordinate alla sua gloria: «Laudato si', mi' Signore, cum tucte le tue creature, spetialmente messer lo frate sole, lo qual è iorno; et allumini noi per lui. Et ellu è bellu e radiante cum grande splendore: de te, Altissimo, porta significatione... Laudato si' mi' Signore, per sora acqua, la quale è molto utile et humile et pretiosa et casta... Laudato si', mi' Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fiori et herba... Laudate e benedicete mi' Signore et rengratiate et servitelo cum grande bumilitate.

345 - Il Sabato - fine dell'opera dei «sei giorni». Il testo sacro dice che «Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto» e così «furono portati a compimento il cielo e la terra»; Dio «cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro», «benedisse il settimo giorno e lo consacrò» (Gn 2,1-3). Queste parole ispirate sono ricche di insegnamenti salutari.

346 - Nella creazione Dio ha posto un fondamento e leggi che restano stabili, sulle quali il credente potrà appoggiarsi con fiducia, e che saranno per lui il se­gno e il pegno della incrollabile fedeltà dell'alleanza di Dio. Da parte sua, l'uomo dovrà rimanere fedele a questo fondamento e rispettare le leggi che il Creatore vi ha inscritte.

347 - La creazione è fatta in vista del sabato e quindi del culto e dell'adorazio­ne di Dio. Il culto è inscritto nell'ordine della creazione. «Operi Dei nihil praeponatur» - «Nulla si anteponga all'opera di Dio», dice la Regola di san Benedetto, indicando in tal modo il giusto ordine delle preoccupazioni umane.

348 - Il sabato è nel cuore della Legge di Israele. Osservare i comandamenti equivale a corrispondere alla sapienza e alla volontà di Dio espresse nell'opera della creazione.

349 - L'ottavo giorno. Per noi, però, è sorto un giorno nuovo: quello della risurrezione di Cristo. Il settimo giorno porta a termine la prima creazione. L'ottavo giorno dà inizio alla nuova creazione. Così, l'opera della creazione culmina nell'opera più grande della redenzione. La pri­ma creazione trova il suo senso e il suo vertice nella nuova creazione in Cristo, il cui splendore supera quello della prima.

In sintesi

350 - Gli angeli sono creature spirituali che incessantemente glorificano Dio e servono i suoi disegni salvifici nei confronti delle altre creatu­re: «A ci omnia bona nostra cooperantur angeli - Gli angeli coopera­no ad ogni nostro bene».

351 - Gli angeli circondano Cristo, loro Signore. Lo servono soprattutto nel compimento della sua missione di salvezza per tutti gli uomini.

352 - La Chiesa venera gli angeli che l'aiutano nel suo pellegrinaggio terre­no e che proteggono ogni essere umano.

353 - Dio ha voluto la diversità delle sue creature e la loro bontà propria, la loro interdipendenza, il loro ordine. Ha destinato tutte le creature materiali al bene del genere umano. L'uomo, e attraverso lui l'intera creazione, sono destinati alla gloria di Dio.

354 - Rispettare le leggi inscritte nella creazione e i rapporti derivanti dalla natura delle cose, è un principio di saggezza e un fondamento della morale.

Paragrafo 6

L'UOMO

355 - «Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò» (Gn 1,,27). L'uomo, nella creazione, occupa un posto unico: egli è «a immagine di Dio» (I); nella sua natura uni­sce il mondo spirituale e il mondo materiale (Il); è creato «maschio e femmina» (III); Dio l'ha stabilito nella sua amicizia (IV).

I. «A immagine di Dio».

356 - Di tutte le creature visibili, soltanto l'uomo è «capace di conosce­re e di amare il proprio Creatore»; «è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa»; soltanto l'uomo è chiamato a condividere, nella conoscenza e nell'amore, la vita di Dio. A questo fine è stato creato ed è questa la ragione fondamentale della sua dignità. «Quale fu la ragione che tu ponessi l'uomo in tanta dignità? Certo l'a­more inestimabile con il quale hai guardato in te medesimo la tua crea­tura e ti sei innamorato di lei; per amore infatti tu l'hai creata, per amore tu le hai dato un essere capace di gustare il tuo Bene eterno».

357 - Essendo ad immagine di Dio, l'individuo umano ha la dignità di persona; non è soltanto qualche cosa, ma qualcuno. E’ capace di cono­scersi, di possedersi, di liberamente donarsi e di entrare in comunione con altre persone; è chiamato, per grazia, ad un'alleanza con il suo Creatore, a dargli una risposta di fede e di amore che nessun altro può dare in sua sostituzione.

358 - Dio ha creato tutto per l'uomo, ma l'uomo è stato creato per servire e amare Dio e per offrirgli tutta la creazione: «Qual è dunque l'essere che deve venire all'esistenza circondato di una tale considerazione? È l'uomo, grande e meravigliosa figura vivente, più prezioso agli occhi di Dio dell'intera creazione: è l'uomo, è per lui che esistono il cielo e la terra e il mare e la totalità della creazione, ed è al­la sua salvezza che Dio ha dato tanta importanza da non risparmiare, per lui, neppure il suo Figlio unigenito. Dio infatti non ha mai cessato di tutto mettere in atto per far salire l'uomo fino a sé e farlo sedere alla sua destra ».

359 - «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo»: «Il beato Apostolo ci ha fatto sapere che due uomini hanno dato princi­pio al genere umano: Adamo e Cristo. [...] Il primo uomo, Adamo, dice divenne un essere vivente, ma l'ultimo Adamo divenne spirito da­tore di vita. Quel primo fu creato da quest'ultimo, dal quale ricevette l'ani­ma per vivere. [...] Il secondo Adamo plasmò il primo e gli impresse la propria immagine. E così avvenne poi che egli ne prese la natura e il no­me, per non dover perdere ciò che egli aveva fatto a sua immagine. C'è un primo Adamo e c'è un ultimo Adamo. Il primo ha un inizio, l'ultimo non ha fine. Proprio quest'ultimo infatti è veramente il primo, dal momento che dice: «Sono io, io solo, il primo e anche l'ultimo».

360 - A motivo della comune origine il genere umano forma una unità. Dio infatti «creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini» (Al 17,26): Meravigliosa, visione che ci fa contemplare il genere umano nell'unità della sua origine in Dio [...]; nell'unità della sua natura, composta ugualmente presso tutti di un corpo materiale e di un'anima spirituale; nell'unità del suo fine immediato e della sua missione nel mondo; nell'unità del suo “habitat”: la terra, dei cui beni tutti gli uomini, per diritto naturale, possono usare per sostentare e sviluppare la vita; nell'unità del suo fine soprannaturale: Dio stesso, al quale tutti devono tendere; nell'unità dei mezzi per raggiungere tale fine; [...] nell'unità del suo riscatto operato per tutti da Cristo».

361 - Questa legge di solidarietà umana e di carità», senza escludere la ricca varietà delle persone, delle culture e dei popoli, ci assicura che tutti gli uomini sono veramente fratelli.

II. «Corpore et anima unus» - Unità di anima e di corpo.

362 - La persona umana, creata a immagine di Dio, è un essere insieme corporeo e spirituale. Il racconto biblico esprime questa realtà con un linguaggio simbolico, quando dice: «Dio plasmò l'uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita, e l'uomo divenne un essere vivente» (Gn 2,7). L'uomo tutto intero è quindi voluto da Dio.

363 - Spesso, nella Sacra Scrittura, il termine anima indica la vita umana, oppure tutta la persona umana. Ma designa anche tutto ciò che nell'uomo vi è di più intimo e di maggior valore, ciò per cui più particolarmente egli è immagine di Dio: «anima» significa il principio spirituale nell'uomo.

364 - Il corpo dell'uomo partecipa alla dignità di «immagine di Dio»: è corpo umano proprio perché è animato dall'anima spirituale, ed è la persona umana tutta intera ad essere destinata a diventare, nel corpo di Cristo, il tempio dello Spirito. «Unità di anima e di corpo, l'uomo sintetizza in sé, per la sua stessa condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi, attraverso di lui, toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore. Allora, non è lecito all'uomo disprezzare la vita cor­porale; egli anzi è tenuto a considerare buono e degno di onore il pro­prio corpo, appunto perché creato da Dio e destinato alla risurrezione nell'ultimo giorno».

365 - L'unità dell'anima e del corpo è cosi profonda che si deve consi­derare l'anima come la «forma» del corpo; significa che grazie all'anima spirituale il corpo, composto di materia, è un corpo umano e vivente; lo spirito e la materia, nell'uomo, non sono due nature congiunte, ma la loro unione forma un'unica natura.

366 - La Chiesa insegna che ogni anima spirituale è creata direttamente da Dio - non è «prodotta» dai genitori ed è immortale: essa non perisce al momento della sua separazione dal corpo nella morte, e di nuovo si unirà al corpo al momento della risurrezione finale.

367 - Talvolta si dà il caso che l'anima sia distinta dallo spirito. Così san Paolo prega perché il nostro essere tutto intero, «spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore» (1 Ts 5,23). La Chiesa insegna che tale distinzione non introduce una dualità nell'anima. «Spirito» significa che sin dalla sua creazione l'uomo è ordina­to al suo fine soprannaturale, e che la sua anima è capace di essere gratuitamente elevata alla comunione con Dio.

368 - La tradizione spirituale della Chiesa insiste anche sul cuore, nel senso biblico di «profondità dell'essere» («in visceribus »: Ger 31,33), dove la persona si decide o non si decide per Dio.

III. «Maschio e femmina li creò».

UGUAGLIANZA E DIVERSITÀ VOLUTE DA Dio

369 - L'uomo e la donna sono creati, cioè sono voluti da Dio: in una perfetta uguaglianza, per un verso, in quanto persone umane, e, per l'altro verso, nel loro rispettivo essere di maschio e di femmina. «Esse­re uomo», «essere donna» è una realtà buona e voluta da Dio: l'uomo e la donna hanno una insopprimibile dignità, che viene loro direttamen­te da Dio, loro Creatore. L'uomo e la donna sono, con una identica dignità, «a immagine di Dio». Nel loro «essere-uomo» ed «essere-donna», riflettono la sapienza e la bontà del Creatore.

370 - Dio non è a immagine dell'uomo. Egli non è né uomo né donna. Dio è puro spirito, e in lui, perciò, non c'è spazio per le differenze di sesso. Ma le «perfezioni» dell'uomo e della donna riflettono qualche cosa dell'infinita perfe­zione di Dio: quelle di una madre e quelle di un padre e di uno sposo.

«L'UNO PER L'ALTRO» «UNA UNITÀ A DUE»

371 - Creati insieme, l'uomo e la donna sono voluti da Dio l'uno per l'altro. La Parola di Dio ce lo lascia capire attraverso diversi passi del testo sacro. «Non è bene che l'uomo sia solo: gli voglio fare un aiuto che gli sia simile» (Gn 2,18). Nessuno degli animali può essere questo «pari» dell'uomo. La donna che Dio «plasma» con la costola tolta all'uomo e che conduce all'uomo, strappa all'uomo un grido d'ammira­zione, un'esclamazione d'amore e di comunione: «Questa volta essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (Gn 2,23). L'uomo scopre la donna come un altro «io» della stessa umanità.

372 - L'uomo e la donna sono fatti «l'uno per l'altro»: non già che Dio li abbia creati «a metà» ed «incompleti»; li ha creati per una co­munione di persone, nella quale ognuno può essere «aiuto» per l'altro, perché sono ad un tempo uguali in quanto persone («osso dalle mie ossa...») e complementari in quanto maschio e femmina. Nel matrimo­nio, Dio li unisce in modo che, formando «una sola carne» (Gn 2,24), possano trasmettere la vita umana: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra» (Gn 1,28). Trasmettendo ai loro figli la vita umana, l'uomo e la donna, come sposi e genitori, cooperano in un modo unico all'opera del Creatore.

373 - Nel disegno di Dio, l'uomo e la donna sono chiamati a dominare la terra come «amministratori» di Dio. Questa sovranità non deve essere un dominio arbitrario e distruttivo. A immagine del Creatore, «che ama tutte le cose esistenti» (Sap 11,24), l'uomo e la donna sono chiamati a partecipare alla Provvidenza divina verso le altre creature. Da qui la loro responsabilità nei confronti del mondo che Dio ha loro affidato.

IV. L'uomo nel paradiso.

374 - Il primo uomo non solo è stato creato buono, ma è stato anche costituito in una tale amicizia con il suo Creatore e in una tale armonia con se stesso e con la creazione, che saranno superate soltanto dalla gloria della nuova creazione in Cristo.

375 - La Chiesa, interpretando autenticamente il simbolismo del lin­guaggio biblico alla luce del Nuovo Testamento e della Tradizione, insegna che i nostri progenitori Adamo ed Eva sono stati costituiti in uno stato di santità e di giustizia originali. La grazia della santità ori­ginale era una partecipazione alla vita divina.

376 - Tutte le dimensioni della vita dell'uomo erano potenziate dall'irradiamento di questa grazia. Finché fosse rimasto nell'intimità divina, l'uomo non avrebbe dovuto né morire, né soffrire. L'armonia interio­re della persona umana, l'armonia tra l'uomo e la donna, infine l'ar­monia tra la prima coppia e tutta la creazione costituiva la condizione detta «giustizia originale».

377 - Il «dominio» del mondo che Dio, fin dagli inizi aveva concesso all'uomo, si realizzava innanzi tutto nell'uomo stesso come padronanza di sé. L'uomo era integro e ordinato in tutto il suo essere, perché libero dalla triplice concupiscenza che lo rende schiavo dei piaceri dei sensi, della cupidigia dei beni terreni e dell'affermazione di sé contro gli impe­rativi della ragione.

378 - Il segno della familiarità dell'uomo con Dio è il fatto che Dio lo colloca nel giardino, dove egli vive «per coltivarlo e custodirlo» (Gn 2,15): il lavoro non è una fatica penosa, ma la collaborazione dell'uo­mo e della donna con Dio nel portare a perfezione la creazione visibile.

379 - Per il peccato dei nostri progenitori andrà perduta tutta l'armonia della giustizia originale che Dio, nel suo disegno, aveva previsto per l'uomo.

In sintesi

380 - «Padre santo,... a tua immagine hai formato l'uomo, alle sue mani operose hai affidato l'universo, perché, nell’obbedienza a te, suo Creatore, esercitasse il dominio su tutto il creato».

381 - L'uomo è predestinato a riprodurre l'immagine del Figlio di Dio fatto uomo «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15) - affinché Cristo sia il primogenito di una moltitudine di fratelli e sorelle.

382 - L'uomo è «unità di anima e di corpo». La dottrina della fede af­ferma che l'anima spirituale e immortale è creata direttamente da Dio.

383 - «Dio non creò l'uomo lasciandolo solo: fin da principio "maschio e femmina li creò" (Gn 1,27), e la loro unione costituisce la prima forma di comunione di persone».

384 - La Rivelazione ci fa conoscere lo stato di santità e di giustizia origi­nali dell'uomo e della donna prima del peccato: dalla loro amicizia con Dio derivava la fedeltà della loro esistenza nel paradiso.

Paragrafo 7

LA CADUTA

385 - Dio è infinitamente buono e tutte le sue opere sono buone. Tutta­via nessuno sfugge all'esperienza della sofferenza, dei mali presenti nella natura - che appaiono legati ai limiti propri delle creature - e soprat­tutto al problema del male morale. Da dove viene il male? «Quacre­bam unde malum et non erat exitus - Mi chiedevo donde il male, e non sapevo darmi risposta», dice sant’Agostino, se la sua sofferta ri­cerca non troverà sbocco che nella conversione al Dio vivente. Infatti «il mistero dell'iniquità» (2 Ts 2,7) si illumina soltanto alla luce del mistero della pietà. La rivelazione dell'amore divino in Cristo ha manifestato ad un tempo l'estensione del male e la sovrabbondanza del­la grazia. Dobbiamo, dunque, affrontare la questione dell'origine del male, tenendo fisso lo sguardo della nostra fede su colui che, solo, ne è il vincitore.

I. Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia.

LA REALTÀ DEL PECCATO

386 - Nella storia dell'uomo è presente il peccato: sarebbe vano cercare di ignorarlo o di dare altri nomi a questa oscura realtà. Per tentare di comprendere che cosa sia il peccato, si deve innanzi tutto riconoscere il profondo legame dell'uomo con Dio, perché, al di fuori di questo rappor­to, il male del peccato non può venire smascherato nella sua vera iden­tità di rifiuto e di opposizione a Dio, mentre continua a gravare sulla vita dell'uomo e sulla storia.

387 - La realtà del peccato, e più particolarmente del peccato delle origini, si chiarisce soltanto alla luce della rivelazione divina. Senza la conoscenza di Dio che essa ci dà, non si può riconoscere chiaramente il peccato, e si è tentati di spiegarlo semplicemente come un difetto di crescita, come una debolezza psicologica, un errore, come l'inevitabile conseguenza di una struttura sociale inadeguata, ecc. Soltanto conoscendo il disegno di Dio sull'uomo, si capisce che il peccato è un abuso di quella libertà che Dio dona alle persone create perché possano amare lui e amarsi reciprocamente.

IL PECCATO ORIGINALE - UNA VERITÀ ESSENZIALE DELLA FEDE

388 - Col progresso della Rivelazione viene chiarita anche la realtà del peccato. Sebbene il popolo di Dio dell'Antico Testamento abbia in qualche modo conosciuto la condizione umana alla luce della storia della caduta narrata dalla Genesi, non era però in grado di comprende­re il significato ultimo di tale storia, che si manifesta appieno soltanto alla luce della morte e della risurrezione di Gesù Cristo. Bisogna co­noscere Cristo come sorgente della grazia per conoscere Adamo come sorgente del peccato. È lo Spirito Paraclito, mandato da Cristo risorto, che è venuto a convincere «il mondo quanto al peccato» (Gv 16,8), rivelando colui che del peccato è il Redentore.

389 - La dottrina del peccato originale è, per così dire, «il rovescio» della Buona Novella che Gesù è il Salvatore di tutti gli uomini, che tut­ti hanno bisogno della salvezza e che la salvezza è offerta a tutti grazie a Cristo. La Chiesa, che ha il senso di Cristo, ben sa che non si può intaccare la rivelazione del peccato originale senza attentare al mistero di Cristo.

PER LEGGERE IL RACCONTO DELLA CADUTA

390 - Il racconto della caduta (Gn 3) utilizza un linguaggio di immagini, ma espone un avvenimento primordiale, un fatto che è accaduto all'ini­zio della storia dell'uomo. La Rivelazione ci dà la certezza di fede che tutta la storia umana è segnata dalla colpa originale liberamente com­messa dai nostri progenitori.

Il. La caduta degli angeli.

391 - Dietro la scelta disobbediente dei nostri progenitori c'è una voce seduttrice, che si oppone a Dio, la quale, per invidia, li fa cadere nella morte. La Scrittura e la Tradizione della Chiesa vedono in questo es­sere un angelo caduto, chiamato Satana o diavolo. La Chiesa insegna che all'inizio era un angelo buono, creato da Dio. «Diabolus enim et alii daemones a Deo quidem natura creati sunt boni, sed ipsi per se fac­ti sunt mali - Il diavolo infatti e gli altri demoni sono stati creati da Dio naturalmente buoni, ma da se stessi si sono trasformati in malvagi».

392 - La Scrittura parla di un peccato di questi angeli. Tale «caduta» consiste nell'avere, questi spiriti creati, con libera scelta, radicalmente ed irrevocabilmente rifiutato Dio e il suo Regno. Troviamo un riflesso di questa ribellione nelle parole rivolte dal tentatore ai nostri progenito­ri: «Diventerete come Dio» (Gn 3,5). «Il diavolo è peccatore fin dal principio» (1 Gv 3,8), «padre della menzogna» (Gv 8,44).

393 - A far si che il peccato degli angeli non possa essere perdonato è il carattere irrevocabile della loro scelta, e non un difetto dell'infinita misericordia divina. «Non c'è possibilità di pentimento per loro dopo la caduta, come non c'è possibilità di pentimento per gli uomini dopo la morte».

394 - La Scrittura attesta la nefasta influenza di colui che Gesù chiama omicida fin dal principio» (Gv 8,44), e che ha perfino tentato di di­stogliere Gesù dalla missione affidatagli dal Padre. «Il Figlio di Dio è apparso per distruggere le opere del diavolo» (1 Gv 3,8). Di queste opere, la più grave nelle sue conseguenze è stata la seduzione menzo­gnera che ha indotto l'uomo a disobbedire a Dio.

395 - La potenza di Satana però non è infinita. Egli non è che una creatura, potente per il fatto di essere puro spirito, ma pur sempre una creatura: non può impedire l'edificazione del regno di Dio. Sebbene Satana agisca nel mondo per odio contro Dio e il suo regno in Cristo Gesù, e sebbene la sua azione causi gravi danni di natura spirituale e indirettamente anche di natura fisica - per ogni uomo e per la socie­tà, questa azione è permessa dalla divina provvidenza, la quale guida la storia dell'uomo e del mondo con forza e dolcezza. La permissione divina dell'attività diabolica è un grande mistero, ma «noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,28).

III. Il peccato originale.

LA PROVA DELLA LIBERTÀ

396 - Dio ha creato l'uomo a sua immagine e l'ha costituito nella sua amicizia. Creatura spirituale, l'uomo non può vivere questa amicizia che come libera sottomissione a Dio. Questo è il significato del divieto fatto all'uomo di mangiare dell'albero della conoscenza del bene e del male, o perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti» (Gn 2,17). «L'albero della conoscenza del bene e del male» (Gn 2,17) evoca sim­bolicamente il limite invalicabile che l'uomo, in quanto creatura, deve liberamente riconoscere e con fiducia rispettare. L'uomo dipende dal Creatore, è sottomesso alle leggi della creazione e alle norme morali che regolano l'uso della libertà.

IL PRIMO PECCATO DELL'UOMO

397 - L'uomo, tentato dal diavolo, ha lasciato spegnere nel suo cuore la fiducia nei confronti del suo Creatore e, abusando della propria liber­tà, ha disobbedito al comandamento di Dio. In ciò è consistito il primo peccato dell'uomo. In seguito, ogni peccato sarà una disobbedienza a Dio e una mancanza di fiducia nella sua bontà.

398 - Con questo peccato, l'uomo ha preferito se stesso a Dio, e, per­ciò, ha disprezzato Dio: ha fatto la scelta di se stesso contro Dio, con­tro le esigenze della propria condizione di creatura e conseguentemente contro il suo proprio bene. Costituito in uno stato di santità, l'uomo era destinato ad essere pienamente «divinizzato» da Dio nella gloria. Sedotto dal diavolo, ha voluto diventare «come Dio» (Gn 3,5), ma «senza Dio e anteponendosi a Dio, non secondo Dio.

399 - La Scrittura mostra le conseguenze drammatiche di questa prima disobbedienza. Adamo ed Eva perdono immediatamente la grazia della santità originale. Hanno paura di quel Dio di cui si sono fatti una falsa immagine, quella cioè di un Dio geloso delle proprie prerogative.

400 - L'armonia nella quale essi erano posti, grazie alla giustizia origi­nale, è distrutta; la padronanza delle facoltà spirituali dell'anima sul corpo è infranta; l'unione dell'uomo e della donna è sottoposta a ten­sioni; i loro rapporti saranno segnati dalla concupiscenza e dalla ten­denza all'asservimento. L'armonia con la creazione è spezzata: la crea­zione visibile è diventata aliena e ostile all'uomo. A causa dell'uomo, la creazione è soggetta alla schiavitù della corruzione. Infine, la conse­guenza esplicitamente annunziata nell'ipotesi della disobbedienza realizzerà: l'uomo tornerà in polvere, quella polvere dalla quale è stato tratto. La morte entra nella storia dell’umanità.

401 - Dopo questo primo peccato, il mondo è inondato da una vera «invasione» del peccato: il fratricidio commesso da Caino contro Abele; la corruzione universale quale conseguenza del peccato; nella sto­ria d'Israele, il peccato si manifesta frequentemente soprattutto come infedeltà al Dio dell'Alleanza e come trasgressione della Legge di Mosè; anche dopo la redenzione di Cristo, fra i cristiani, il peccato si manife­sta in svariati modi. La Scrittura e la Tradizione della Chiesa richia­mano continuamente la presenza e l'universalità del peccato nella storia dell'uomo: «Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione divina concorda con la stessa esperienza. Infatti, se l'uomo guarda dentro al suo cuore, si sco­pre anche inclinato al male e immerso in tante miserie che non possono certo derivare dal Creatore che è buono. Spesso, rifiutando di ricono­scere Dio quale suo principio, l'uomo ha infranto il debito ordine in rapporto al suo ultimo fine, e al tempo stesso tutto il suo orientamento sia verso se stesso, sia verso gli altri uomini e verso tutte le cose create».

CONSEGUENZE DEL PECCATO DI ADAMO PER L'UMANITÀ

402 - Tutti gli uomini sono coinvolti nel peccato di Adamo. San Paolo lo afferma: «Per la disobbedienza di uno solo, tutti sono stati costituiti peccatori» (Rm 5,19); «Come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato...» (Rm 5,12). All'universalità del peccato e della morte l'Apostolo contrappone l'universalità della salvezza in Cristo: «Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l'opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita» (Rm 5,18).

403 - Sulle orme di san Paolo la Chiesa ha sempre insegnato che l'immensa miseria che opprime gli uomini, la loro inclinazione al male e l'ineluttabilità della morte non si possono comprendere senza il loro legame con la colpa di Adamo e prescindendo dal fatto che egli ci ha trasmesso un peccato dal quale tutti nasciamo contaminati e che i «morte dell'anima». Per questa certezza di fede, la Chiesa amministra il Battesimo per la remissione dei peccati anche ai bambini che non hanno commesso peccati personali.

404 - In che modo il peccato di Adamo è diventato il peccato di tutti i suoi discendenti? Tutto il genere umano è in Adamo. «sicut unum cor­pus unius hominis - come un unico corpo di un unico uomo». Per questa «unità del genere umano» tutti gli uomini sono coinvolti nel peccato di Adamo, così come tutti sono coinvolti nella giustizia di Cri­sto. Tuttavia, la trasmissione del peccato originale è un mistero che non possiamo comprendere appieno. Sappiamo però dalla Rivelazione che Adamo aveva ricevuto la santità e la giustizia originali non soltanto per sé, ma per tutto il genere umano: cedendo al tentatore, Adamo ed Eva commettono un peccato personale, ma questo peccato intacca la natura umana, che essi trasmettono in una condizione decaduta. Si tratta di un peccato che sarà trasmesso per propagazione a tutta l'umanità, cioè con la trasmissione di una natura umana privata della santità e della giusti­zia originali. Per questo il peccato originale è chiamato «peccato» in modo analogico: è un peccato «contratto» e non «commesso», uno stato e non un atto.

405 - Il peccato originale, sebbene proprio a ciascuno, in nessun di­scendente di Adamo ha un carattere di colpa personale. Consiste nella privazione della santità e della giustizia originali, ma la natura umana non è interamente corrotta: è ferita nelle sue proprie forze naturali, sot­toposta all'ignoranza, alla sofferenza e al potere della morte, e inclinata al peccato (questa inclinazione al male è chiamata «concupiscenza»). Il Battesimo, donando la vita della grazia di Cristo, cancella il peccato originale e volge di nuovo l'uomo verso Dio; le conseguenze di tale peccato sulla natura indebolita e incline al male rimangono nell'uomo e lo provocano al combattimento spirituale.

406 - La dottrina della Chiesa sulla trasmissione del peccato originale è andata precisandosi soprattutto nel V secolo, in particolare sotto la spinta della riflessione di sant'Agostino contro il pelagianesimo, e nel XVI secolo, in opposizione alla Riforma protestante. Pelagio riteneva che l'uomo, con la forza naturale della sua libera volontà, senza l'aiuto necessario della grazia di Dio, potesse condurre una vita moralmente buona; in tal modo riduceva l'influenza della colpa di Adamo a quella di un cattivo esempio. Al contrario, i primi riformatori protestanti insegnavano che l'uomo era radicalmente pervertito e la sua libertà annullata dal peccato delle origini; identificavano il peccato ereditato da ogni uomo con l'inclinazione al male («concupiscentia»), che sarebbe invincibile. La Chiesa si è pronunciata sul senso del dato rivelato concernente il peccato originale soprattutto nel II Concilio di Orange nel e nel Concilio di Trento nel 1546.

UN DURO COMBATTIMENTO...

407 - La dottrina sul peccato originale - connessa strettamente con quella della redenzione operata da Cristo - offre uno sguardo di luci­do discernimento sulla situazione dell'uomo e del suo agire nel mondo. In conseguenza del peccato dei progenitori, il diavolo ha acquisito un certo dominio sull'uomo, benché questi rimanga libero. Il peccato origi­nale comporta «la schiavitù sotto il dominio di colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo». Ignorare che l'uomo ha una natura feri­ta, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell'educazione, della politica, dell'azione sociale e dei costumi.

408 - Le conseguenze del peccato originale e di tutti i peccati personali degli uomini conferiscono al mondo nel suo insieme una condizione peccaminosa, che può essere definita con l'espressione di san Giovanni: «il peccato del mondo» (Gv 1,29). Con questa espressione viene anche significata l'influenza negativa esercitata sulle persone dalle situazioni comunitarie e dalle strutture sociali che sono frutto dei peccati degli uomini.

409 - La drammatica condizione del mondo che «giace» tutto «sotto il potere del maligno» (1 Gv 5,19) fa della vita dell'uomo una lotta: «Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta incominciata fin dall'origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all'ultimo giorno. Inseri­to in questa battaglia, l'uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche, con l'aiuto della grazia di Dio.

IV. «Tu non l'hai abbandonato in potere della morte».

410 - Dopo la caduta, l'uomo non è stato abbandonato da Dio. Al contrario, Dio lo chiama, e gli predice in modo misterioso che il male sarà vinto e che l'uomo sarà sollevato dalla caduta. Questo passo della Genesi è stato chiamato «protovangelo», poiché è il primo annunzio del Messia redentore, di una lotta tra il serpente e la Donna e della vittoria finale di un discendente di lei.

411 - La Tradizione cristiana vede in questo passo un annunzio del «nuovo Adamo che, con la sua obbedienza «fino alla morte di cro­ce» (FiI 2,8), ripara sovrabbondantemente la disobbedienza di Adamo. Inoltre, numerosi Padri e dottori della Chiesa vedono nella Donna an­nunziata nel «protovangelo» la Madre di Cristo, Maria, come «nuova Eva». Ella è stata colei che, per prima e in una maniera unica, ha be­neficiato della vittoria sul peccato riportata da Cristo: è stata preservata da ogni macchia di peccato originale e, durante tutta la sua vita terre­na, per una speciale grazia di Dio, non ha commesso alcun peccato.

412 - Ma perché Dio non ha impedito al primo uomo di peccare? San Leone Magno risponde: «L'ineffabile grazia di Cristo ci ha dato beni migliori di quelli di cui l'invidia del demonio ci aveva privati». E san Tommaso d'Aquino: «Nulla si oppone al fatto che la natura umana sia stata destinata ad un fine più alto dopo il peccato. Dio permette, infat­ti, che ci siano i mali per trarre da essi un bene più grande. Da qui il detto di san Paolo: "Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbonda­to la grazia" (Rm 5,20). Perciò nella benedizione del cero pasquale si dice: "O felice colpa, che ha meritato un tale e così grande Redentore!" »

In sintesi

413 - «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi […]. La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap 1,13; 2,24).

414 - Satana o il diavolo e gli altri demoni sono angeli decaduti per avere liberamente rifiutato di servire Dio e il suo disegno. La loro scelta contro Dio è definitiva. Essi tentano di associare l'uomo alla loro ribellione contro Dio.

415 - «Costituito da Dio in uno stato di giustizia, l'uomo però, tentato dal maligno, fin dagli inizi della storia abusò della sua libertà, erigendosi contro Dio e bramando di conseguire il suo fine al di fuori di Dio».

416 - Per il suo peccato, Adamo, in quanto primo uomo, ha perso la santi­tà e la giustizia originali che aveva ricevuto da Dio non soltanto per sé, ma per tutti gli esseri umani.

417 - Adamo ed Eva hanno trasmesso alla loro discendenza la natura uma­na ferita dal loro primo peccato, privata, quindi, della santità e della giustizia originali. Questa privazione è chiamata «peccato originale».

418 - In conseguenza del peccato originale, la natura umana è indebolita nelle sue forze, sottoposta all'ignoranza, alla sofferenza, al potere della morte, e inclinata al peccato (inclinazione che è chiamata «con­cupiscenza»).

419 - «Noi dunque riteniamo, con il Concilio di Trento, che il peccato ori­ginale viene trasmesso insieme con la natura umana, "non per imita­zione ma per propagazione", e che perciò e proprio a ciascuno" ».

420 - La vittoria sul peccato riportata da Cristo ci ha donato beni migliori di quelli che il peccato ci aveva tolto: «Laddove è abbondato il pec­cato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20).

421 - Secondo la fède dei cristiani, questo mondo è stato «creato» ed è «conservato nell'esistenza dall'amore del Creatore»; questo mondo è «certamente posto sotto la schiavitù del peccato, ma liberato da Cristo eroe fisso e risorto, con la sconfitta del maligno...

CAPITOLO SECONDO

CREDO IN GESU CRISTO, UNICO FIGLIO DI DIO

LA BUONA NOVELLA: DIO HA MANDATO IL SUO FIGLIO

422 - «Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Fi­glio, nato da donna, nato sotto la Legge, per riscattare coloro che era­no sotto la Legge, perché ricevessimo l'adozione a figli» (GaI 4,4-5). Ecco la Buona Novella riguardante Gesù Cristo, Figlio di Dio: Dio ha visitato il suo popolo, ha adempiuto le promesse fatte ad Abramo ed alla sua discendenza; ed è andato oltre ogni attesa: ha mandato il suo Figlio prediletto.

423 - Noi crediamo e professiamo che Gesù di Nazaret, nato ebreo da una figlia d'Israele, a Betlemme, al tempo del re Erode il Grande e dell'imperatore Cesare Augusto, di mestiere carpentiere, morto croci­fisso a Gerusalemme, sotto il procuratore Ponzio Pilato, mentre regnava l'imperatore Tiberio, è il Figlio eterno di Dio fatto uomo, il quale è «venuto da Dio » (Gv 13,3), «disceso dal cielo » (Gv 3,13; 6,33), venuto nella carne; infatti «il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità. [...] Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia» (Gv 1,14.16).

424 - Mossi dalla grazia dello Spirito Santo e attirati dal Padre, noi, ri­guardo a Gesù, crediamo e confessiamo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Sulla roccia di questa fede, confessata da san Pietro, Cristo ha fondato la sua Chiesa.

«ANNUNZIARE.. LE IMPERSCRUTABILI RICCHEZZE DI CRISTO» (Ef 3,8)

425 - La trasmissione della fede cristiana è innanzi tutto l'annunzio di Gesù Cristo, allo scopo di condurre alla fede in lui. Fin dall'inizio, i primi discepoli sono stati presi dal desiderio ardente di annunziare Cristo: «Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato»(At 4,20). Essi invitano gli uomini di tutti i tempi ad entrare nella gioia della loro comunione con Cristo: «Ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta» (1 Gv 1,1-4).

AL CENTRO DELLA CATECHESI: CRISTO

426 - «Al centro della catechesi noi troviamo essenzialmente una perso­na: quella di Gesù di Nazaret, unigenito del Padre [...]; il quale ha sof­ferto ed è morto per noi e ora, risorto, vive per sempre con noi. [...] Catechizzare [...] è, dunque, svelare nella persona di Cristo l'intero dise­gno di Dio [...]. E cercare di comprendere il significato dei gesti e delle parole di Cristo, dei segni da lui operati». Lo scopo della catechesi: «Mettere [...] in comunione (...) con Gesù Cristo: egli solo può condur­re all'amore del Padre nello Spirito e può farci partecipare alla vita della Santa Trinità».

427 - «Nella catechesi è Cristo, Verbo incarnato e Figlio di Dio, che viene insegnato, e tutto il resto lo è in riferimento a lui; solo Cristo in­segna, mentre ogni altro lo fa nella misura in cui è il suo portavoce, consentendo a Cristo di insegnare per bocca sua. [...] Ogni catechista dovrebbe poter applicare a se stesso la misteriosa parola di Gesù: "La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha mandato" (Gv 7,16) ».

428 - Colui che è chiamato a «insegnare Cristo» deve dunque cercare innanzi tutto quel guadagno che è la «sublimità della conoscenza di Cristo»; bisogna accettare di perdere tutto, «al fine di guadagnare Cri­sto e di essere trovato in lui», e di «conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli confor­me nella morte con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,8-11).

429 - Da questa amorosa conoscenza di Cristo nasce irresistibile il desi­derio di annunziare, di «evangelizzare», e di condurre altri al «si» della fede in Gesù Cristo. Nello stesso tempo si fa anche sentire il biso­gno di conoscere sempre meglio questa fede. A tal fine, seguendo l'or­dine del Simbolo della fede, saranno innanzi tutto presentati i principali titoli di Gesù: Cristo, Figlio di Dio, Signore (articolo 2). Il Simbolo successivamente confessa i principali misteri della vita di Cristo: quelli della sua incarnazione (articolo 3), quelli della sua pasqua (articoli 4 e 5), infine quelli della sua glorificazione (articoli 6 e 7).

Articolo 2

«E IN GESU CRISTO SUO UNICO FIGLIO, NOSTRO SIGNORE»

I. Gesù .

430 - Gesù in ebraico significa: «Dio salva». Al momento dell'annun­ciazione, l’angelo Gabriele dice che il suo nome proprio sarà Gesù, no­me che esprime ad un tempo la sua identità e la sua missione. Poiché nessuno «può rimettere i peccati se non Dio solo » (Mc 2,7), in Gesù, il suo Figlio eterno fatto uomo, egli «salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). Così, in Gesù, Dio ricapitola tutta la sua storia di salvezza a vantaggio degli uomini.

431 - Nella storia della salvezza, Dio non si è limitato a liberare Israele «dalla condizione servile» (Dt 5,6) facendolo uscire dall'Egitto; lo salva anche dal suo peccato. Poiché il peccato è sempre un'offesa fatta a Dio, solo Dio lo può cancellare. Per questo Israele, prendendo sempre più coscienza dell'universalità del peccato, non potrà più cercare la salvezza se non nell'invocazione del nome del Dio Redentore.

432 - Il nome di Gesù significa che il nome stesso di Dio è presente nella Persona del Figlio suo fatto uomo per l'universale e definitiva redenzione dei peccati. È il nome divino che solo reca la salvezza, e può ormai essere invocato da tutti perché, mediante l'incarnazione, egli si è unito a tutti gli uomini in modo tale che «non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,12).

433 - Il nome del Dio Salvatore era invocato una sola volta all'anno, per l'espiazione dei peccati d'Israele, dal sommo sacerdote, dopo che questi aveva asperso col sangue del sacrificio il propiziatorio del Santo dei Santi. Il propiziatorio era il luogo della presenza di Dio. Quando san Paolo dice di Gesù: «Dio l'ha stabilito a servire come strumento di espiazione... nel suo sangue» (Rm 3,25), intende affermare che nella sua umanità «era Dio a riconciliare a sé il mondo in Cristo» (2 Cor 5,19).

434 - La risurrezione di Gesù glorifica il nome di Dio «Salvatore» perché ormai è il nome di Gesù che manifesta in pienezza la suprema potenza del «Nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9-10). Gli spiriti malvagi temono il suo nome ed è nel suo nome che i discepoli di Gesù compiono miracoli; infatti tutto ciò che essi chiedono al Padre nel suo nome, il Padre lo concede.

435 - Il nome di Gesù è al centro della preghiera cristiana. Tutte le orazioni liturgiche terminano con la formula: «per Dominum nostrum Iesum Christum... - per il nostro Signore Gesù Cristo...». L'«Ave, Maria» culmina con le parole: «E benedetto il frutto del tuo seno, Ge­sù». La preghiera del cuore, consueta presso gli orientali e chiamata «preghiera di Gesù», dice: « Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore». Parecchi cristiani muoiono con la sola parola «Gesù» sulle labbra, come santa Giovanna d'Arco.

Il. Cristo.

436 - Cristo viene dalla traduzione greca del termine ebraico «Messia» che significa «unto». Non diventa il nome proprio di Gesù se non per­ché egli compie perfettamente la missione divina da esso significata. Infatti in Israele erano unti nel nome di Dio coloro che erano a lui con­sacrati per una missione che egli aveva loro affidato. Era il caso dei re, dei sacerdoti e, raramente, dei profeti. Tale doveva essere per eccellenza il caso del Messia che Dio avrebbe mandato per instaurare definitivamente il suo Regno. Il Messia doveva essere unto dallo Spiri­to del Signore, ad un tempo come re e sacerdote ma anche come profeta. Gesù ha realizzato la speranza messianica di Israele nella sua triplice funzione di sacerdote, profeta e re.

437 - L'angelo ha annunziato ai pastori la nascita di Gesù come quella del Messia promesso a Israele: «Oggi vi è nato nella città di Davide un Salvatore che è il Cristo Signore» (Lc 2,11). Fin da principio egli è «colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo» (Gv 10,36), concepito come «santo» nel grembo verginale di Maria. Giuseppe è stato chiamato da Dio a prendere con sé Maria sua sposa, incinta di «quel che è generato in lei [...] dallo Spirito Santo» (Mt 1,20), affinché Gesù, «chiamato Cristo» (Mt 1,16), nasca dalla sposa di Giuseppe nel­la discendenza messianica di Davide.

438 - La consacrazione messianica di Gesù rivela la sua missione divina. «E, d'altronde, ciò che indica il suo stesso nome, perché nel nome di Cristo è sottinteso colui che ha unto, colui che è stato unto e l'unzione stessa di cui è stato unto: colui che ha unto è il Padre, colui che è stato unto è il Figlio, ed è stato unto nello Spirito che è l'unzione. La sua consacrazione messianica eterna si è rivelata nel tempo della sua vita terrena nel momento in cui fu battezzato da Giovanni, quando Dio lo «consacrò in Spirito Santo e potenza» (At 10,38) «perché egli fosse fatto conoscere a Israele» (Gv 1,31) come suo Messia. Le sue opere e le sue parole lo riveleranno come «il Santo di Dio».

439 - Numerosi ebrei ed anche alcuni pagani che condividevano la loro speranza hanno riconosciuto in Gesù i tratti fondamentali del «figlio di Davide» messianico promesso da Dio a Israele. Gesù ha accettato il titolo di Messia cui aveva diritto, ma non senza riserve, perché una parte dei suoi contemporanei lo intendevano secondo una concezione troppo umana, essenzialmente politica.

440 - Gesù ha accettato la professione di fede di Pietro che lo ricono­sceva quale Messia, annunziando la passione ormai vicina del Figlio dell'uomo. Egli ha così svelato il contenuto autentico della sua regalità messianica, nell'identità trascendente del Figlio dell'uomo «che è disce­so dal cielo» (Gv 3,13), come pure nella sua missione redentrice quale Servo sofferente: «Il Figlio dell'uomo (...) non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Per questo il vero senso della sua regalità si manifesta, soltanto dall'alto della croce. Solo dopo la risurrezione, la sua regalità messianica potrà essere proclamata da Pietro davanti al popolo di Dio: «Sappia dunque con certezza tutta la casa d'Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso!» (Ai 2,36).

III. Figlio unico di Dio.

441 - Figlio di Dio, nell'Antico Testamento, è un titolo dato agli angeli, al popolo dell'elezione, ai figli d'Israele e ai loro re. In tali casi ha il significato di una filiazione adottiva che stabilisce tra Dio e la sua creatura relazioni di una particolare intimità. Quando il Re-Messia pro­messo è detto «figlio di Dio», ciò non implica necessariamente, se­condo il senso letterale di quei testi, che egli sia più che umano. Coloro che hanno designato così Gesù in quanto Messia d'Israele forse non hanno inteso dire di più.

442 - Non è la stessa cosa per Pietro quando confessa Gesù come «il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,l6), perché Gesù risponde con solennità: «Nè la carne nè il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli» (Mt 16,17). Parallelamente Paolo, a proposito della sua conversione sulla strada di Damasco, dirà: «Quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si com­piacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani...» (Gal 1,15-16). «Subito nelle sinagoghe proclamava Gesù Fi­glio di Dio» (At 9,20). Questo sarà fin dagli inizi il centro della fede apostolica professata prima di tutti da Pietro quale fondamento della Chiesa.

443 - Se Pietro ha potuto riconoscere il carattere trascendente della fi­liazione divina di Gesù Messia, è perché egli l'ha lasciato chiaramente intendere. Davanti al Sinedrio, alla domanda dei suoi accusatori: «Tu dunque sei il Figlio di Dio?», Gesù ha risposto: « Lo dite voi stessi: io lo sono» (Lc 22,70). Già molto prima, egli si era designato come «il Figlio» che conosce il Padre, che è distinto dai «servi» che Dio in precedenza ha mandato al suo popolo, superiore agli stessi angeli. Egli ha differenziato la sua filiazione da quella dei suoi discepoli non dicendo mai «Padre nostro» tranne che per comandare loro: «Voi dunque pregate così: Padre nostro» (Mt 6,9); e ha sottolineato tale distinzione: «Padre mio e Padre vostro» (Gv 20,17).

444 - I Vangeli riferiscono in due momenti solenni, il battesimo e la trasfigurazione di Cristo, la voce del Padre che lo designa come il suo «Figlio prediletto Gesù presenta se stesso come il Figlio unigenito di Dio e con tale titolo afferma la sua preesistenza eterna. Egli chie­de la fede «nel nome dell'unigenito Figlio di Dio» (Gv 3,18). Questa confessione cristiana appare già nell'esclamazione del centurione davanti a Gesù in croce: «Veramente quest'uomo era il Figlio di Dio» (Mc 15,39); infatti soltanto nel mistero pasquale il credente può dare al tito­lo «Figlio di Dio» il suo pieno significato.

445 - Dopo la risurrezione la sua filiazione divina appare nella potenza della sua umanità glorificata: egli è stato costituito «Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti» (Rm l,4). Gli Apostoli potranno confessare: «Noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14)

IV. Signore.

446 - Nella traduzione greca dei libri dell'Antico Testamento, il nome ineffabile sotto il quale Dio si è rivelato a Mosè, («Signore»). Da allora Signore diventa il nome più abituale per indicare la stessa divinità del Dio di Israele. Il Nuovo Testamento uti­lizza in questo senso forte il titolo di «Signore» per il Padre, ma, ed di questa la novità, anche per Gesù riconosciuto così egli stesso come Dio. Gesù stesso attribuisce a sé, in maniera velata, tale titolo allorché discute con i farisei sul senso del salmo 110,65 ma anche in modo espli­cito rivolgendosi ai suoi Apostoli. Durante la sua vita pubblica i suoi gesti di potenza sulla natura, sulle malattie, sui demoni, sulla morte e sul peccato, manifestavano la sua sovranità divina.

448 - Molto spesso, nei Vangeli, alcune persone si rivolgono a Gesù chiamandolo «Signore». Questo titolo esprime il rispetto e la fiducia di coloro che si avvicinano a Gesù e da lui attendono aiuto e guarigione. Pronunciato sotto la mozione dello Spirito Santo, esprime il riconosci­mento del mistero divino di Gesù. Nell'incontro con Gesù risorto, di­venta espressione di adorazione: «Mio Signore e mio Dio!» (Gv 20,28). Assume allora una connotazione d'amore e d'affetto che resterà pecu­liare della tradizione cristiana: «È il Signore!» (Gv 21,7).

449 - Attribuendo a Gesù il titolo divino di Signore, le prime confessio­ni di fede della Chiesa affermano, fin dall'inizio, che la potenza, l'ono­re e la gloria dovuti a Dio Padre convengono anche a Gesù, perché egli è di «natura divina» (Fil 2,6) e perché il Padre ha manifestato questa signoria di Gesù risuscitandolo dai morti ed esaltandolo nella sua gloria.

450 - Fin dall'inizio della storia cristiana, l'affermazione della signoria di Gesù sul mondo e sulla storia comporta anche il riconoscimento che l'uomo non deve sottomettere la propria libertà personale, in modo assoluto, ad alcun potere terreno, ma soltanto a Dio Padre e al Signore Gesù Cristo: Cesare non è «il Signore». La Chiesa «crede di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave, il centro e il fine di tutta la storia umana.

451 - La preghiera cristiana è contrassegnata dal titolo «Signore», sia che si tratti dell'invito alla preghiera: «Il Signore sia con voi », sia della conclusione della preghiera: «Per il nostro Signore Gesù Cristo », anche del grido pieno di fiducia e di speranza: «Maran atha» («Il Signore viene!»), oppure «Marana tha» («Vieni, Signore!») (1 Cor 16,22), «Amen, vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20).

In sintesi

452 - Il nome «Gesù» significa «Dio salva »~ J/ Bambino nato dalla Ver­gine Maria è chiamato «Gesù» «perché salverù il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21): «Non vi è altro nome dato agli uomini sot­to il cielo nel quale é stabilito che possiamo essere salvati» (At 4,12).

453 - Il nome «Cristo» significa «unto», «Messia». Gesù è il Cristo perché Dio lo «consacrò in Spirito Santo e potenza» (At 10,38). Egli era « colui che deve venire» (Lc 7,19), l'oggetto della speranza d'Israele.

454 - Il nome «Figlio di Dio» indica la relazione unica ed eterna di Gesù Cristo con Dio suo Padre: egli è il Figlio unigenito del Padre Dio egli stesso.77 Per essere cristiani si deve credere che Gesù Cristo è il Figlio di Dio.

455 - Il nome «Signore» indica la sovranità divina. Conlèssare o invocare Gesù come Signore, è credere nella sua divinità. «Nessuno può dire "Gesù è il Signore" se non sotto l'azione dello Spirito Santo» (I Cor 12,3).

Articolo 3

GESU CRISTO «FU CONCEPITO DI SPIRITO SANTO, NACQUE DA MARIA VERGINE»

Paragrafo 1

IL FIGLIO DI DIO SI E’ FATTO UOMO

I. Perché il Verbo si è fatto carne?

456 - Con il Credo niceno-costantinopolitano rispondiamo confessando: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo».

457 - Il Verbo si è fatto carne per salvarci riconciliandoci con Dio: è Dio «che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espia­zione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10). «Il Padre ha mandato il suo Figlio come salvatore del mondo» (1 Gv 4,14). «Egli è apparso per togliere i peccati » (1 Gv 3,5): «La nostra natura, malata, richiedeva d'essere guarita; decaduta, d'es­sere risollevata; morta, di essere risuscitata. Avevamo perduto il posses­so del bene; era necessario che ci fosse restituito. Immersi nelle tenebre, occorreva che ci fosse portata la luce; perduti, attendevamo un salvato­re; prigionieri, un soccorritore; schiavi, un liberatore. Tutte queste ra­gioni erano prive d'importanza? Non erano tali da commuovere Dio sì da farlo discendere fino alla nostra natura umana per visitarla, poiché l'umanità si trovava in una condizione tanto miserabile ed infelice?».

458 - Il Verbo si è fatto carne perché noi così conoscessimo l'amore di Dio: «In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: Dio ha man­dato il suo unigenito Figlio nel mondo perché noi avessimo la vita per lui» (1 Gv 4,9). «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).

459 - Il Verbo si è fatto carne per essere nostro modello di santità: «Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me...» (Mt I 1,29). «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mez­zo di me» (Gv 14,6). E il Padre, sul monte della trasfigurazione, co­manda: «Ascoltatelo » (Mc 9,7). In realtà, egli è il modello delle beatitudini e la norma della Legge nuova: «Amatevi gli unì gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Questo amore implica l'effettiva offerta di se stessi alla sua sequela.

460 - Il Verbo sì è fatto carne perché diventassimo «partecipi della natu­ra divina» (2 Pt 1,4): «Infatti, questo è il motivo per cui il Verbo si è fatto uomo, e il Figlio di Dio, Figlio dell'uomo: perché l'uomo, entran­do in comunione con il Verbo e ricevendo così la filiazione divina, di­ventasse figlio di Dio ». «Infatti il Figlio di Dio si è fatto uomo per farci Dio». « Unìgenitus [...) Dei Fìlius, suae divinitatis volens nos esse participes, naturam nostram assumpsit, ut homines deos faceret factus homo L'unigenito [...) Figlio di Dio, volendo che noi fossimo partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura, affinché, fatto uo­mo, facesse gli uomini dei».

Il. L'incarnazione.

461 - Riprendendo l'espressione di san Giovanni («Il Verbo si fece car­ne»: (Gv 1,14), la Chiesa chiama «incarnazione» il fatto che il Figlio di Dio abbia assunto una natura umana per realizzare in essa la nostra salvezza. La Chiesa canta il mistero dell'incarnazione in un inno ripor­tato da san Paolo: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il qua­le, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso obbediente fino alla morte e alla morte di croce».

462 - Dello stesso mistero parla la lettera agli Ebrei: «Per questo, entrando nel mondo, Cristo dice: «Tu non hai voluto nè sacrificio nè offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti nè sacrifici per il peccato. Allora ho detto: Ecco, io ven­go... per fare la tua volontà"» (E.b 10,5-7 citando Sal 40,7-9 LXX).

463 - La fede nella reale incarnazione del Figlio di Dio è il segno di­stintivo della fede cristiana: «Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio» (1 Gv 4,2). È la gioiosa convinzione della Chiesa fin dal suo inizio, allorché canta «il grande mistero della pietà»: «Egli si manife­stò nella carne» (I Tm 3,16)

III. Vero Dio e vero uomo.

464 - L'evento unico e del tutto singolare dell'incarnazione del Figlio di Dio non significa che Gesù Cristo sia in parte Dio e in parte uomo, né che sia il risultato di una confusa mescolanza di divino e di umano. Egli sì è fatto veramente uomo rimanendo veramente Dio. Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo. La Chiesa nel corso dei primi secoli ha dovu­to difendere e chiarire questa verità di fede contro eresie che la falsifi­cavano.

465 - Le prime eresie più che la divinità di Cristo hanno negato la sua vera umanità (docetismo gnostico). Fin dall'epoca apostolica la fede cri­stiana ha insistito sulla vera incarnazione del Figlio di Dio «venuto nella carne». Ma nel terzo secolo, la Chiesa ha dovuto affermare con­tro Paolo di Samosata, in un Concilio riunito ad Antiochia, che Gesù Cristo è Figlio di Dio per natura e non per adozione. Il primo Concilio Ecumenico di Nicea nel 325 professò nel suo Credo che il Figlio di Dio è «generato, non creato, della stessa sostanza (homousios) del Padre», e condannò Ario, il quale sosteneva che «il Figlio di Dio veniva dal nulla» e che sarebbe «di un'altra sostanza o di un'altra essenza ri­spetto al Padre»).

466 - L'eresia nestoriana vedeva in Cristo una persona umana congiun­ta alla Persona divina del Figlio di Dio. In contrapposizione ad essa san Cirillo di Alessandria e il terzo Concilio Ecumenico riunito a Efeso nel 431 hanno confessato che «il Verbo, unendo a se stesso ipostatica­mente una carne animata da un'anima razionale, [...] si fece uomo». L'umanità di Cristo non ha altro soggetto che la Persona divina del Fi­glio di Dio, che l'ha assunta e fatta sua al momento del suo concepi­mento. Per questo il Concilio di Efeso ha proclamato nel 431 che Maria in tutta verità è divenuta Madre di Dio per il concepimento umano del Figlio di Dio nel suo seno; «Madre di Dio (...) non certo perché la natura del Verbo o la sua divinità avesse avuto origine dalla santa Ver­gine, ma, poiché nacque da lei il santo corpo dotato di anima razionale a cui il Verbo è unito sostanzialmente, si dice che il Verbo è nato secondo la carne».

467 - I monofisiti affermavano che la natura umana come tale aveva cessato di esistere in Cristo, essendo stata assunta dalla Persona divina del Figlio di Dio. Opponendosi a questa eresia, il quarto Concilio Ecu­menico, a Calcedonia, nel 451, ha confessato: «Seguendo i santi Padri, all'unanimità noi insegniamo a confessare un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo, perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità, vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l'umanità, "simile in tutto a noi, fuorché nel peccato"; generato dal Padre prima dei secoli secondo la divinità, e in questi ultimi tempi, per noi e per la nostra salvezza, nato da Maria Vergine e Madre di Dio, secondo l'umanità. Un solo e medesimo Cristo, Signore, Figlio unigenito, che noi dob­biamo riconoscere in due nature, senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione. La differenza delle nature non è affatto negata dalla loro unione, ma piuttosto le proprietà di ciascuna sono salvaguardate e riunite in una sola persona e una sola ipostasi.

468 - Dopo il Concilio di Calcedonia, alcuni fecero della natura umana di Cristo una sorta di soggetto personale. Contro costoro, il quinto Concilio Ecumenico, a Costantinopoli, nel 553, ha confessato riguardo a Cristo: vi è «una sola ipostasi [o Persona]..., cioè il Signore (nostro) Gesù Cristo, uno della Trinità. Tutto, quindi, nell'umanità di Cristo deve essere attribuito alla sua Persona divina come al suo soggetto pro­prio, non soltanto i miracoli ma anche le sofferenze e così pure la morte: «Il Signore nostro Gesù Cristo, crocifisso nella sua carne, e vero Dio, Signore della gloria e uno della Santa Trinità.

469 - La Chiesa così confessa che Gesù è inscindibilmente vero Dio e vero uomo. Egli è veramente il Figlio di Dio che si è fatto uomo, nostro fratello, senza con ciò cessare d'essere Dio, nostro Signore: «Id quod fuit remansit et quod non fuit assumpsit Rimase quel che era e quel che non era assunse», canta la liturgia romana. E la litur­gia di san Giovanni Crisostomo proclama e canta: «O Figlio unigenito e Verbo di Dio, tu, che sei immortale, per la nostra salvezza ti sei de­gnato d'incarnarti nel seno della santa Madre di Dio e sempre Vergine Maria; tu, che senza mutamento sei diventato uomo e sei stato crocifis­so, o Cristo Dio, tu, che con la tua morte hai sconfitto la morte, tu che sei uno della Santa Trinità, glorificato con il Padre e lo Spirito Santo, salvaci!»

IV. Come il Figlio di Dio è uomo?

470 - Poiché nella misteriosa unione dell'incarnazione «la natura umana è stata assunta, senza per questo venir annientata» la Chiesa nel cor­so dei secoli è stata condotta a confessare la piena realtà dell'anima umana, con le sue operazioni di intelligenza e di volontà, e del corpo umano di Cristo. Ma parallelamente ha dovuto di volta in volta ricor­dare che la natura umana di Cristo appartiene in proprio alla Persona divina del Figlio di Dio che l'ha assunta. Tutto ciò che egli è e ciò che egli fa in essa deriva da «uno della Trinità». Il Figlio di Dio, quindi, comunica alla sua umanità il suo modo personale d'esistere nella Trinità. Pertanto, nella sua anima come nel suo corpo, Cristo esprime uma­namente i comportamenti divini della Trinità: «Il Figlio di Dio [...] ha lavorato con mani d'uomo, ha pensato con mente d'uomo, ha agito con volontà d'uomo, ha amato con cuore d'uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato».

L'anima e la conoscenza umana di Cristo.

471 - Apollinare di Laodicea sosteneva che in Cristo il Verbo aveva preso il posto dell'anima o dello spirito. Contro questo errore la Chiesa ha confessato che il Figlio eterno ha assunto anche un'anima razionale umana.

472 - L'anima umana che il Figlio di Dio ha assunto è dotata di una vera conoscenza umana. In quanto tale, essa non poteva di per sé essere illimi­tata: era esercitata nelle condizioni storiche della sua esistenza nello spazio e nel tempo. Per questo il Figlio di Dio, facendosi uomo, ha potuto accet­tare di «crescere in sapienza, età e grazia» (Lc 2,52) e anche di doversi informare intorno a ciò che nella condizione umana non si può apprendere che attraverso l'esperienza. Questo era del tutto consono alla realtà del suo volontario umiliarsi nella «condizione di servo» (Fil 2,7).

473 - Al tempo stesso, però, questa conoscenza veramente umana del Figlio di Dio esprimeva la vita divina della sua persona. «Il figlio di Dio conosceva ogni cosa; e ciò per il tramite dello stesso uomo che egli aveva assunto; non per la natura (umana), ma per il fatto che essa stes­sa era unita al Verbo (...). La natura umana, che era unita al Verbo, conosceva ogni cosa, e tutto ciò che è divino lo mostrava in se stesso per la sua maestà. E’, innanzi tutto, il caso della conoscenza intima e immediata che il Figlio di Dio fatto uomo ha del Padre suo. Il Figlio di Dio anche nella sua conoscenza umana mostrava la penetrazione di­vina che egli aveva dei pensieri segreti del cuore degli uomini.

474 - La conoscenza umana di Cristo, per la sua unione alla Sapienza divina nella Persona del Verbo incarnato, fruiva in pienezza della scien­za dei disegni eterni che egli era venuto a rivelare. Ciò che in questo campo dice di ignorare, dichiara altrove di non avere la missione di rivelarlo.

LA VOLONTÀ UMANA DI CRISTO

475 - Parallelamente, la Chiesa nel sesto Concilio Ecumenico ha dichia­rato che Cristo ha due volontà e due operazioni naturali, divine e uma­ne, non opposte, ma cooperanti, in modo che il Verbo fatto carne ha umanamente voluto, in obbedienza al Padre, tutto ciò che ha divina­mente deciso con il Padre e con lo Spirito Santo per la nostra salvez­za. La volontà umana di Cristo «segue, senza opposizione o riluttan­za, o meglio, è sottoposta alla sua volontà divina e onnipotente».

IL VERO CORPO DI CRISTO

476 - Poiché il Verbo si è fatto carne assumendo una vera umanità, il corpo di Cristo era delimitato. Perciò l'aspetto umano di Cristo può essere «dipinto». Nel settimo Concilio Ecumenico la Chiesa ha rico­nosciuto legittimo che venga raffigurato mediante venerande e sante immagini.

477 - Al tempo stesso la Chiesa ha sempre riconosciuto che nel corpo di Gesù il «Verbo invisibile apparve visibilmente nella nostra carne», In realtà, le caratteristiche individuali del corpo di Cristo esprimono la Persona divina del Figlio di Dio. Questi ha fatto a tal punto suoi i li­neamenti del suo corpo umano che, dipinti in una santa immagine, pos­sono essere venerati, perché il credente che venera «l'immagine, venera la realtà di chi in essa è riprodotto».

IL CUORE DEL VERBO INCARNATO

478 - Gesù ci ha conosciuti e amati, tutti e ciascuno, durante la sua vi­ta, la sua agonia e la sua passione, e per ognuno di noi si è offerto: il Figlio di Dio «mi ha amato e ha dato se stesso per me» (GaI 2,20). Ci ha amati tutti con un cuore umano. Per questo motivo, il sacro cuore di Gesù, trafitto a causa dei nostri peccati e per la nostra salvezza, «praecipuus consideratur index et symbolus [...] illius amoris, quo divi­nus Redemptor aeternum Patrem hominesque universos continenter adamat - è considerato il segno e simbolo principale (...) di quell'infini­to amore, col quale il Redentore divino incessantemente ama l'eterno Padre e tutti gli uomini».

In sintesi

479 - Nel tempo stabilito da Dio, il Figlio unigenito del Padre, la Parola eterna, cioè il Verbo e l'immagine sostanziale del Padre, si è incarna­to: senza perdere la natura divina, ha assunto la natura umana.

480 - Gesù Cristo è vero Dio e vero uomo, nell'unità della sua Persona divina; per questo motivo è l'unico mediatore tra Dio e gli uomini.

481 - Gesù Cristo ha due nature, la divina e l'umana, non confuse, ma unite nell'unica Persona del Figlio di Dio.

482 - Cristo, essendo vero Dio e vero uomo, ha una intelligenza e una vo­lontà umane, perfettamente armonizzate e sottomesse alla sua intelli­genza e alla sua volontà divine, che egli ha in comune con il Padre e lo Spirito Santo.

483 - L 'incarnazione è quindi il mistero dell'ammirabile unione della natura divina e della natura umana nell'unica Persona del Verbo.

Paragrafo 2

«...FU CONCEPITO DI SPIRITO SANTO, NACQUE DA MARIA VERGINE»

I. Fu concepito di Spirito Santo...

484 - L'annunciazione a Maria inaugura la «pienezza del tempo» (GaI 4,4), cioè il compimento delle promesse e delle preparazioni. Maria è chiamata a concepire colui nel quale abiterà «corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9). La risposta divina al suo: «Come è possibile? Non conosco uomo» (Lc 1,34) è data mediante la potenza dello Spirito: «Lo Spirito Santo scenderà su di te» (Lc 1,35).

485 - La missione dello Spirito Santo è sempre congiunta e ordinata a quella del Figlio. Lo Spirito Santo, che è «Signore e dà la vita», è mandato a santificare il grembo della Vergine Maria e a fecondarla di­vinamente, facendo sì che ella concepisca il Figlio eterno del Padre in un'umanità tratta dalla sua.

486 - Il Figlio unigenito del Padre, essendo concepito come uomo nel seno della Vergine Maria, è «Cristo», cioè unto dallo Spirito Santo, sin dall'inizio della sua esistenza umana, anche se la sua manifestazione avviene progressivamente: ai pastori, ai magi, a Giovanni Battista, ai discepoli. L'intera vita di Gesù Cristo manifesterà dunque «come Dio [lo] consacrò in Spirito Santo e potenza» (At 10,38).

Il. ...nacque da Maria Vergine

487 - Ciò che la fede cattolica crede riguardo a Maria si fonda su ciò che essa crede riguardo a Cristo, ma quanto insegna su Maria illumina, a sua volta, la sua fede in Cristo.

LA PREDESTINAZIONE DI MARIA

488 - «Dio ha mandato suo Figlio» (Gal 4,4), ma per preparargli un corpo ha voluto la libera collaborazione di una creatura. Per questo, Dio, da tutta l'eternità, ha scelto, perché fosse la Madre del Figlio suo, una figlia d'israele, una giovane ebrea di Nazaret in Galilea, «una vergine promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria» (Lc 1,26-27): «Volle il Padre delle misericordie che l'accettazione di colei che era predestinata a essere la Madre precedesse l'incarnazione, perché così, come la donna aveva contribuito a dare la morte, la donna contribuisse a dare la vita».

489 - Nel corso dell'Antica Alleanza, la missione di Maria è stata preparata da quella di sante donne. All'inizio c'è Eva: malgrado la sua disobbedienza, ella riceve la promessa di una discendenza che sarà vittoriosa sul maligno, e quella d'essere la madre di tutti i viventi. In forza di questa promessa, Sara concepisce un figlio nonostante la sua vecchiaia. Contro ogni umana attesa, Dio sceglie ciò che era ritenuto impotente e debole per mostrare la sua fedeltà alla promessa: Anna, la madre di Samuele, Debora, Rut, Giuditta e Ester, e molte altre donne. Maria «primeggia tra gli umili e i poveri del Signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da lui la salvezza. Infine con lei, la eccelsa figlia di Sion, dopo la lunga attesa della promessa, si compiono i tempi e si instaura la nuova economia».

L'IMMACOLATA CONCEZIONE

490 - Per essere la Madre del Salvatore, Maria «da Dio è stata arric­chita di doni degni di una così grande missione». L'angelo Gabriele, al momento dell'annunciazione, la saluta come «piena di grazia» (Le 1,28). In realtà, per poter dare il libero assenso della sua fede all'annunzio della sua vocazione, era necessario che fosse tutta sorretta dalla grazia di Dio.

491 - Nel corso dei secoli la Chiesa ha preso coscienza che Maria, «colmata di grazia» da Dio, era stata redenta fin dal suo concepi­mento. È quanto afferma il dogma dell'immacolata concezione, procla­mato da papa Pio IX nel 1854: La beatissima Vergine Maria nel primo istante della sua concezione, per una grazia ed un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previ­sione dei meriti di Gesù Cristo Salvatore del genere umano, è stata pre­servata intatta da ogni macchia del peccato originale.

492 - Questi «splendori di una santità del tutto singolare» di cui Maria è «adornata fin dal primo istante della sua concezione» le vengono interamente da Cristo: ella è «redenta in modo così sublime in vista dei meriti del Figlio suo». Più di ogni altra persona creata, il Padre l'ha «benedetta con ogni benedizione spirituale, nei cieli, in Cristo» (Ef 1,3). In lui l'ha scelta «prima della creazione del mondo, per essere» santa e immacolata «al suo cospetto nella carità» (Ef 1,4).

493 - I Padri della Tradizione orientale chiamano la Madre di Dio «la Tutta Santa» la onorano come «immune da ogni macchia di peccato, dallo Spirito Santo quasi plasmata e resa una nuova creatu­ra» Maria, per la grazia di Dio, è rimasta pura da ogni peccato per­sonale durante tutta la sua esistenza.

«AVVENGA DI ME QUELLO CHE HAI DETTO...»

494 - All'annunzio che avrebbe dato alla luce «il Figlio dell'Altissimo» senza conoscere uomo, per la potenza dello Spirito Santo, Maria ha risposto con «l'obbedienza della fede» (Rm 1,5), certa che nulla è im­possibile a Dio: «Io sono la serva del Signore; avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Così, dando il proprio assenso alla parola di Dio, Maria è diventata Madre di Gesù e, abbracciando con tutto l'animo e senza essere ritardata da nessun peccato la volontà divina di salvezza, si è offerta totalmente alla persona e all'opera del Figlio suo, mettendosi al servizio del mistero della redenzione, sotto di lui e con lui, con la grazia di Dio onnipotente: «Come dice sant'Ireneo, obbedendo divenne causa della salvezza per sé e per tutto il genere umano». Con lui, non pochi antichi Padri af­fermano: “Il nodo della disobbedienza di Eva ha avuto la sua soluzione con l'obbedienza di Maria; ciò che la vergine Eva aveva legato con la sua incredulità, la Vergine Maria ha sciolto con la sua fede”, e, fatto il paragone con Eva, chiamano Maria la Madre dei viventi" e affermano spesso: "La morte per mezzo di Eva, la vita per mezzo di Maria".

LA MATERNITÀ DIVINA DI MARIA

495 - Maria, chiamata nei Vangeli «la Madre di Gesù» (Gv 2,1; l9,25), prima della nascita del Figlio suo è acclamata, sotto la mozio­ne dello Spirito, «la Madre del mio Signore» (Lc 1,43). Infatti, colui che Maria ha concepito come uomo per opera dello Spirito Santo e che è diventato veramente suo Figlio secondo la carne, è il Figlio eterno del Padre, la seconda Persona della Santissima Trinità. La Chiesa confessa che Maria è veramente Madre di Dio.

LA VERGINITÀ DI MARIA

496 - Fin dalle prime formulazioni della fede, la Chiesa ha confessato che Gesù è stato concepito nel seno della Vergine Maria per la sola po­tenza dello Spirito Santo, ed ha affermato anche l'aspetto corporeo di tale avvenimento: Gesù è stato concepito «senza seme [...], per opera dello Spirito Santo». Nel concepimento verginale i Padri ravvisano il segno che si tratta veramente del Figlio di Dio, il quale è venuto in una umanità come la nostra: Così, sant'Ignazio di Antiochia (inizio Il secolo): «Voi siete pienamente convinti riguardo a nostro Signore che è veramente della stirpe di Davide secondo la carne, Figlio di Dio secondo la volontà e la potenza di Dio, veramente nato da una Vergine; [...] veramente è stato inchiodato [alla croce] per noi, nella sua carne, sotto Ponzio Pilato. [...] Veramente ha sofferto, così come veramente è risorto.

497 - I racconti evangelici considerano la concezione verginale un'ope­ra divina che supera ogni comprensione e ogni possibilità umana: «Quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo», dice l'angelo a Giuseppe riguardo a Maria, sua sposa (Mt 1,20). La Chiesa vede in ciò il compimento della promessa divina fatta per bocca del profeta Isaia: «Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio» (Is 7,14), secondo la versione greca di Mt 1,23.

498 - Il silenzio del Vangelo secondo san Marco e delle lettere del Nuovo Te­stamento sul concepimento verginale di Maria è stato talvolta causa di perples­sità. Ci si è potuto anche chiedere se non si trattasse di leggende o di elabora­zioni teologiche senza pretese di storicità. A ciò si deve rispondere; la fede nel concepimento verginale di Gesù ha incontrato vivace opposizione, sarcasmi o incomprensione da parte dei non-credenti, giudei e pagani: essa non proveniva dalla mitologia pagana né da qualche adattamento alle idee del tempo. Il senso di questo avvenimento è accessibile soltanto alla fede, la quale lo vede in quel «nesso che lega tra loro i vari misteri» nell'insieme dei misteri di Cri­sto, dalla sua incarnazione alla sua pasqua. Sant'Ignazio di Antiochia già testi­monia tale legame: «Rimase nascosta al principe di questo mondo la verginità di Maria e il suo parto, come pure la morte del Signore: tre misteri sublimi che si compirono nel silenzio di Dio.

MARIA - «SEMPRE VERGINE»

499 - L'approfondimento della fede nella maternità verginale ha condot­to la Chiesa a confessare la verginità reale e perpetua di Maria anche nel parto del Figlio di Dio fatto uomo. Infatti la nascita di Cristo «non ha diminuito la sua verginale integrità, ma l'ha consacrata». La liturgia della Chiesa celebra Maria come la, «sempre Vergine».

500 - A ciò si obietta talvolta che la Scrittura parla di fratelli e di sorelle di Gesù. La Chiesa ha sempre ritenuto che tali passi non indichino altri figli del­la Vergine Maria: infatti Giacomo e Giuseppe, «fratelli di Gesù» (Mt 13,55), sono i figli di una Maria discepola di Cristo, la quale è designata in modo significativo come «l'altra Maria» (Mt 28,1). Si tratta di parenti prossimi di Gesù, secondo un'espressione non inusitata nell'Antico Testamento.

501 - Gesù è l'unico Figlio di Maria. Ma la maternità spirituale di Ma­ria estende a tutti gli uomini che egli è venuto a salvare: «Ella ha dato alla luce un Figlio, che Dio ha fatto il primogenito di una moltitudine di fratelli» (Rm 8,29), cioè dei fedeli, alla cui nascita e formazio­ne ella coopera con amore di madre».

La maternità verginale di Maria nel disegno di Dio

502 - Lo sguardo della fede può scoprire, in connessione con l'insieme della Rivelazione, le ragioni misteriose per le quali Dio, nel suo proget­to salvifico, ha voluto che suo Figlio nascesse da una Vergine. Queste ragioni riguardano tanto la persona e la missione redentrice di Cristo, quanto l'accettazione di tale missione da parte di Maria in favore di tutti gli uomini.

503 - La verginità di Maria manifesta l'iniziativa assoluta di Dio nell'incarnazione. Gesù come Padre non ha che Dio. «La natura umana che egli ha assunto non l'ha mai separato dal Padre. [...] Per natura Figlio del Padre secondo la divinità, per natura Figlio della Madre secondo l'umanità, ma propriamente Figlio di Dio nelle sue due nature ».

504 - Gesù è concepito per opera dello Spirito Santo nel seno della Vergine Maria perché egli è il nuovo Adamo che inaugura la nuova creazione: «Il pri­mo uomo tratto dalla terra è di terra, il secondo uomo viene dal cielo» (1 Cor 15,47). L'umanità di Cristo, fin dal suo concepimento, è ricolma dello Spirito Santo perché Dio gli «dà lo Spirito senza misura» (Gv 3,34). «Dalla pienezza» di lui, capo dell'umanità redenta, «noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su gra­zia» (Gv 1,16).

505 - Gesù, il nuovo Adamo, inaugura con il suo concepimento verginale la nuova nascita dei figli di adozione nello Spirito Santo per la fede. «Come è possibile?» (Lc l,34). La partecipazione alla vita divina non proviene «da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio» (Gv 1,13). L'accoglienza di questa vita è verginale perché è interamente donata all'uomo dallo Spirito. Il senso sponsale della vocazione umana in rapporto a Dio si compie perfettamente nella maternità verginale di Maria.

506 - Maria è Vergine perché la sua verginità è il segno della sua fede che non era alterata da nessun dubbio e del suo totale abbandono alla volontà di Dio. Per la sua fede ella diviene la Madre del Salvatore: «Beatior est Maria percipiendo fidem Christi quam concipiendo carnem Christi - Maria è più felice nel ricevere la fede di Cristo che nel concepire la carne di Cristo.

507 - Maria è ad un tempo Vergine e Madre perché è la figura e la realizzazio­ne più perfetta della Chiesa: «La Chiesa [...] per mezzo della Parola di Dio accolta con fedeltà diventa essa pure Madre, poichè con la predicazione e il Battesimo genera a una vita nuova e immortale i figli, concepiti ad opera dello Spirito Santo e nati da Dio. Essa è pure la vergine che custodisce integra e pura la fede data allo Sposo.

In sintesi

508 - Nella discendenza di Eva, Dio ha scelto la Vergine Maria perché fosse la Madre del suo Figlio. «Piena di grazia», ella è «il frutto più eccelso della redenzione»: fin dal primo istante del suo concepimento, è interamente preservata da ogni macchia del peccato originale ed è rimasta im­mune da ogni peccato personale durante tutta la sua vita.

509 - Maria è veramente «Madre di Dio», perché è la Madre del Figlio eterno di Dio fatto uomo, Dio lui stesso.

510 - Maria è rimasta «Vergine nel concepimento del Figlio suo, Vergine nel parto, Vergine incinta, Vergine madre, Vergine perpetua»: con tutto il suo essere, ella è «la serva del Signore» (Lc 1,38).

511 - Maria Vergine «cooperò alla salvezza dell'uomo con libera fede e obbedienza». Ha dato il suo assenso, «loco totius humanae naturae - in nome di tutta l'umanità»: per la sua obbedienza, è diventata la nuova Eva, madre dei viventi.

Paragrafo 3

I MISTERI DELLA VITA DI CRISTO

512 - Il Simbolo della fede, a proposito della vita di Cristo, non parla che dei misteri dell’incarnazione (concezione e nascita) e della pasqua (passione, crocifissione, morte, sepoltura, discesa agli inferi, risurrezio­ne, ascensione). Non dice nulla, in modo esplicito, dei misteri della vita nascosta e della vita pubblica di Gesù, ma gli articoli della fede concer­nenti l'incarnazione e la pasqua di Gesù illuminano tutta la vita terrena di Cristo. «Tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui (...) fu assunto in cielo» (At 1,1-2) deve essere visto alla luce dei misteri del natale e della pasqua.

513- La catechesi, secondo le circostanze, svilupperà tutta la ricchezza dei misteri di Gesù. Qui basta indicare alcuni elementi comuni a tutti i misteri della vita di Cristo (I), per accennare poi ai principali misteri della vita nascosta (Il) e pubblica (III) di Gesù

I. Tutta la vita di Cristo è mistero.

514 - Non compaiono nei Vangeli molte cose che interessano la curiosi­tà umana a riguardo di Gesù. Quasi niente vi si dice della sua vita a Nazaret, e anche di una notevole parte della sua vita pubblica non si fa parola. Ciò che è contenuto nei Vangeli è stato scritto «perché credia­te che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome» (Gv 20,31).

515 - I Vangeli sono scritti da uomini che sono stati tra i primi a crede­re e che vogliono condividere con altri la loro fede. Avendo conosciu­to, nella fede, chi è Gesù, hanno potuto scorgere e fare scorgere in tut­ta la sua vita terrena le tracce del suo mistero. Dalle fasce della sua nascita, fino all'aceto della sua passione e al sudario della risurrezio­ne. In tutto nella vita di Gesù è segno del suo mistero. Attraverso i suoi gesti, i suoi miracoli, le sue parole, è stato rivelato che «in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9). In tal modo la sua umanità appare come «il sacramento», cioè il segno e lo strumento della sua divinità e della salvezza che egli reca: ciò che era visibile nella sua vita terrena condusse al mistero invisibile della sua filiazione divina e della sua missione redentrice.

I TRATTI COMUNI DEI MISTERI DI GESÙ

516 - Tutta la vita di Cristo è rivelazione del Padre: le sue parole e le sue azioni, i suoi silenzi e le sue sofferenze, il suo modo di essere e di parlare. Gesù può dire: «Chi vede me, vede il Padre » (Gv 14,9), e il Padre: «Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo» (Lc 9,35). Poiché il nostro Signore si è fatto uomo per compiere la volontà del Padre, i più piccoli tratti dei suoi misteri ci manifestano l'amore di Dio per noi.

517 - Tutta la vita di Cristo è mistero di redenzione. La redenzione è frutto innanzi tutto del sangue della croce, ma questo mistero opera nell'intera vita di Cristo: già nella sua incarnazione, mediante la quale, facendosi povero, ci ha arricchiti con la sua povertà; nella sua vita nascosta che, con la sua sottomissione, ripara la nostra insubordina­zione; nella sua parola che purifica i suoi ascoltatori; nelle guarigioni e negli esorcismi che opera, mediante i quali «ha preso le nostre infer­mità e si è addossato le nostre malattie» (Mt 8,17); nella sua risurre­zione, con la quale ci giustifica.

518 - Tutta la vita di Cristo è mistero di ricapitolazione. Quanto Gesù ha fatto, detto e sofferto, aveva come scopo di ristabilire nella sua pri­mitiva vocazione l'uomo decaduto: «Allorché si è incarnato e si è fatto uomo, ha ricapitolato in se stesso la lunga storia degli uomini e in breve ci ha procurato la salvezza, così che noi recuperassimo in Gesù Cristo ciò che avevamo perduto in Ada­mo, cioè d'essere ad immagine e somiglianza di Dio «Per questo appunto Cristo è passato attraverso tutte le età della vita, restituendo con ciò a tutti gli uomini la comunione con Dio».

LA NOSTRA COMUNIONE AI MISTERI DI GESÙ

519 - Tutta la ricchezza di Cristo è destinata ad ogni uomo e costituisce il bene di ciascuno. Cristo non ha vissuto la sua vita per sé, ma per noi, dalla sua incarnazione «per noi uomini e per la nostra salvezza» fino alla sua morte «per i nostri peccati» (1 Cor 15,3) e alla sua risur­rezione «per la nostra giustificazione» (Rm 4,25). E anche adesso, è nostro avvocato «presso il Padre» (1 Gv 2,1), «essendo sempre vivo per intercedere» a nostro favore (Eb 7,25). Con tutto ciò che ha vissu­to e sofferto per noi una volta per tutte, egli resta sempre «al cospetto di Dio in nostro favore» (Eb 9,24).

520 - Durante tutta la sua vita, Gesù si mostra come nostro modello: è «l'uomo perfetto» che ci invita a diventare suoi discepoli e a seguir­lo; con il suo abbassamento, ci ha dato un esempio da imitare, con la sua preghiera, attira alla preghiera, con la sua povertà, chiama ad accettare liberamente la spogliazione e le persecuzioni.

521 - Tutto ciò che Cristo ha vissuto, egli fa si che noi possiamo viverlo in lui e che egli lo viva in noi. «Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo». Siamo chiamati a formare una co­sa sola con lui; egli ci fa comunicare come membra del suo corpo a ciò che ha vissuto nella sua carne per noi e come nostro modello: «Noi dobbiamo sviluppare continuamente in noi e, in fine, completare gli stati e i misteri di Gesù. Dobbiamo poi pregarlo che li porti lui stes­so a compimento in noi e in tutta la sua Chiesa. (...) Il Figlio di Dio desidera una certa partecipazione e come un'estensione e continuazione in noi e in tutta la sua Chiesa dei suoi misteri mediante le grazie che vuole comunicarci e gli effetti che intende operare in noi attraverso i suoi misteri. E’ con questo mezzo egli vuole completarli in noi»

l. I misteri dell'infanzia e della vita nascosta di Gesù.

LE PREPARAZIONI

522 - La venuta del Figlio di Dio sulla terra è un avvenimento di tale portata che Dio lo ha voluto preparare nel corso dei secoli. Riti e sa­crifici, figure e simboli della «prima Alleanza », li fa convergere tutti verso Cristo; lo annunzia per bocca dei profeti che si succedono in Israele; risveglia inoltre nel cuore dei pagani l'oscura attesa di tale venuta.

523 - San Giovanni Battista è l'immediato precursore del Signore, mandato a preparargli la via. «Profeta dell'Altissimo» (Lc 1,76), di tutti i profeti è il più grande e l'ultimo; egli inaugura il Vangelo; saluta la venuta di Cristo fin dal seno di sua madre e trova la sua gioia nell'essere «l'amico dello sposo» (Gv 3,29), che designa come «l'Agnello di Dio... che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29). Precedendo Ge­sù «con lo spirito e la forza di Elia» (Lc 1,17), gli rende testimonianza con la sua predicazione, con il suo battesimo di conversione ed infine con il suo martirio.

524 - La Chiesa, celebrando ogni anno la liturgia dell 'Avvento, attualizza questa attesa del Messia: mettendosi in comunione con la lunga prepa­razione della prima venuta del Salvatore, i fedeli ravvivano l'ardente desiderio della sua seconda venuta. Con la celebrazione della nascita e del martirio del Precursore, la Chiesa si unisce al suo desiderio: «Egli deve crescere e io invece diminuire» (Gv 3,30).

IL MISTERO DEL NATALE

525 - Gesù è nato nell'umiltà di una stalla, in una famiglia povera; semplici pastori sono i primi testimoni dell'avvenimento. In questa povertà si manifesta la gloria del cielo. La Chiesa non cessa di cantare la gloria di questa notte: «La Vergine Oggi dà alla luce l'Eterno e la terra offre una grotta all'inaccessibile. Gli angeli e i pastori a lui inneggiano e i magi, guidati dalla stella, vengono ad adorano. Tu sei nato per noi piccolo Bambino, Dio eterno!».

526 - «Diventare come i bambini» in rapporto a Dio è la condizione per entrare nel Regno; diventare piccoli; anzi, bisogna «rinascere dall'alto» (Gv 3,7), essere generati da Dio per diventare figli di Dio. Il mistero del natale si compie in noi allorché Cristo «si forma» in noi. Natale è il mistero di questo «meraviglioso scambio»: «O admirabile commercium! Creator generis humani, animatum corpus sumens, de Virgine nasci dignatus est; et proccdens homo sine semine, largitus est nobis suam deitatem - O meraviglioso scambio! Il Creatore ha preso un'anima e un corpo, è nato da una Vergine; fatto uomo senza opera d'uomo, ci dona la sua divinità».

I MISTERI DELL'INFANZIA DI GESÙ

527 - La circoncisione di Gesù, otto giorni dopo la nascita, è segno del suo inserimento nella discendenza di Abramo, nel popolo dell'Alleanza, della sua sottomissione alla Legge, della sua abilitazione al culto d'Israele al quale parteciperà durante tutta la vita. Questo segno è pre­figurazione della «circoncisione di Cristo» che è il Battesimo.

528 - L'epifania è la manifestazione di Gesù come Messia d'Israele, Fi­glio di Dio e Salvatore del mondo. Insieme con il battesimo di Gesù nel Giordano e con le nozze di Cana, essa celebra l'adorazione di Ge­sù da parte dei «magi» venuti dall'oriente. In questi «magi», che rappresentano le religioni pagane circostanti, il Vangelo vede le primizie delle nazioni che nell'incarnazione accolgono la Buona Novella della salvezza. La venuta dei magi a Gerusalemme per adorare il re dei Giu­dei mostra che essi, alla luce messianica della stella di Davide, cercano in Israele colui che sarà il re delle nazioni. La loro venuta sta a si­gnificare che i pagani non possono riconoscere Gesù e adorarlo come Figlio di Dio e Salvatore del mondo se non volgendosi ai Giudei e ri­cevendo da loro la Promessa messianica quale è contenuta nell'Antico,

Testamento. L'epifania manifesta che «la grande massa delle genti» entra nella famiglia dei patriarchi e ottiene la «dignità Israelitica».

529 - La presentazione di Gesù al Tempio lo mostra come il Primogeni­to che appartiene al Signore. In Simeone e Anna è tutta l'attesa di Israele che viene all'incontro con il suo Salvatore (la tradizione bizanti­na chiama così questo avvenimento). Gesù è riconosciuto come il Mes­sia tanto a lungo atteso, «luce delle genti» e «gloria di Israele», ma anche come «segno di contraddizione». La spada di dolore predetta a Maria annunzia l'altra offerta, perfetta e unica, quella della croce, la quale darà la salvezza «preparata da Dio davanti a tutti i popoli».

530 - La fuga in Egitto e la strage degli innocenti manifestano l'oppo­sizione delle tenebre alla luce: «Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto» (Gv 1,11). L'intera vita di Cristo sarà sotto il segno della persecuzione. I suoi condividono con lui questa sorte. Il suo ri­torno dall'Egitto ricorda l'Esodo e presenta Gesù come il liberatore definitivo.

I MISTERI DELLA VITA NASCOSTA DI GESÙ

531 - Durante la maggior parte della sua vita, Gesù ha condiviso la condizione della stragrande maggioranza degli uomini: un'esistenza quo­tidiana senza apparente grandezza, vita di lavoro manuale, vita religiosa giudaica sottomessa alla Legge di Dio, vita nella comunità. Riguardo a tutto questo periodo ci è rivelato che Gesù era sottomesso ai suoi genitori e che «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52).

532 - Nella sottomissione di Gesù a sua Madre e al suo padre legale si realizza l'osservanza perfetta del quarto comandamento. Tale sottomis­sione è l'immagine nel tempo dell'obbedienza filiale al suo Padre cele­ste. La quotidiana sottomissione di Gesù a Giuseppe e a Maria annun­ziava e anticipava la sottomissione del Giovedì Santo: «Non (...) la mia volontà...» (Lc 22,42). L'obbedienza di Cristo nel quotidiano della vita nascosta inaugurava già l'opera di restaurazione di ciò che la disobbe­dienza di Adamo aveva distrutto.

533 - La vita nascosta di Nazaret permette ad ogni uomo di essere in comunione con Gesù nelle vie più ordinarie della vita quotidiana: «Nazaret è la scuola dove si è iniziati a comprendere la vita di Gesù, cioè la scuola del Vangelo. […] In primo luogo essa ci insegna il silenzio. Oh! se rinascesse in noi la stima del silenzio, atmosfera ammirabile e indispensabile dello spirito (...). Essa ci insegna il modo di vivere in fa­miglia. Nazaret ci ricordi cos'è la famiglia, cos'è la comunione di amore, la sua bellezza austera e semplice, il suo carattere sacro e inviolabile [...]. Infine impariamo una lezione di lavoro. Oh! dimora di Nazaret, ca­sa del «Figlio del falegname»! Qui soprattutto desideriamo comprende­re e celebrare la legge, severa certo, ma redentrice della fatica umana [...]. Infine vogliamo salutare gli operai di tutto il mondo e mostrar loro il grande modello, il loro divino fratello».

534 - Il ritrovamento di Gesù nel Tempio è il solo avvenimento che rompe il silenzio dei Vangeli sugli anni nascosti di Gesù. Gesù vi lascia intravvedere il mistero della sua totale consacrazione a una missione che deriva dalla sua filiazione divina: «Non sapevate che io devo occu­parmi delle cose del Padre mio?». Maria e Giuseppe «non comprese­ro» queste parole, ma le accolsero nella fede, e Maria «serbava tutte queste cose nel suo cuore» nel corso degli anni in cui Gesù rimase nascosto nel silenzio di una vita ordinaria.

I misteri della vita pubblica di Gesù.

IL BATTESIMO DI GESÙ

535 - L'inizio della vita pubblica di Gesù è il suo battesimo da parte di Giovanni nel Giordano. Giovanni predicava «un battesimo di con­versione per il perdono dei peccati» (Lc 3,3). Una folla di peccatori, pubblicani e soldati, farisei e sadducei e prostitute vengono a farsi battezzare da lui. «Allora Gesù andò». Il Battista esita, Gesù insiste: riceve il battesimo. Allora lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, scende su Gesù e una voce dal cielo dice: «Questi è il Figlio mio predi­letto» (Mt 3,13-17). E’ la manifestazione («epifania») di Gesù come Messia di Israele e Figlio di Dio.

536 - Il battesimo di Gesù è, da parte di lui, l'accettazione e l'inaugura­zione della sua missione di Servo sofferente. Egli si lascia annoverare tra i peccatori; già «l'Agnello di Dio che toglie il peccato del mon­do» (Gv 1,29); già anticipa il «battesimo» della sua morte cruenta. Già viene ad adempiere «ogni giustizia» (Mt 3,15), cioè si sottomette totalmente alla volontà del Padre suo: accetta per amore il battesimo di morte per la remissione dei nostri peccati. A tale accettazione risponde la voce del Padre che nel Figlio suo si compiace. Lo Spirito, che Gesù possiede in pienezza fin dal suo concepimento, si posa e «rimane» su di lui. Egli ne sarà la sorgente per tutta l'umanità. Al suo battesimo, «si aprirono i cieli» (Mt 3,16) che il peccato di Adamo aveva chiuso; e le acque sono santificate dalla discesa di Gesù e dello Spirito, preludio della nuova creazione.

537 - Con il Battesimo, il cristiano è sacramentalmente assimilato a Ge­sù, il quale con il suo battesimo anticipa la sua morte e la sua risurre­zione; il cristiano deve entrare in questo mistero di umile abbassamento e pentimento, discendere nell'acqua con Gesù, per risalire con lui, rina­scere dall'acqua e dallo Spirito per diventare, nel Figlio, figlio amato dal Padre e «camminare in una vita nuova» (Rm 6,4): «Scendiamo nella tomba insieme con Cristo per mezzo del Battesimo, in modo da poter anche risorgere insieme con lui; scendiamo con lui per poter anche risalire con lui; risaliamo con lui, per poter anche esse­re glorificati con lui». Tutto ciò che é avvenuto in Cristo ci fa comprendere che, dopo l'immersione nell'acqua, lo Spirito Santo vola su di noi dall'alto del cielo e che, adottati dalla voce del Padre, diventiamo figli di Dio»

LA TENTAZIONE DI GESU’

538 - I Vangeli parlano di un tempo di solitudine di Gesù nel deserto, immediatamente dopo che ebbe ricevuto il battesimo da Giovanni: «Lo Spirito lo sospinse nel deserto» (Mc 1,12) ed egli vi rimane quaranta giorni digiunando; sta con le fiere e gli angeli lo servono. Terminato questo periodo, Satana lo tenta tre volte cercando di mettere alla prova la sua disposizione filiale verso Dio. Gesù respinge tali assalti che rica­pitolano le tentazioni di Adamo nel paradiso e quelle d'israele nel de­serto, e il diavolo si allontana da lui «per ritornare al tempo fissato» (Lc 4,13).

539 - Gli evangelisti rilevano il senso salvifico di questo misterioso av­venimento. Gesù è il nuovo Adamo, rimasto fedele mentre il primo ha ceduto alla tentazione. Gesù compie perfettamente la vocazione d'Israe­le: contrariamente a coloro che in passato provocarono Dio durante i quaranta anni nel deserto, Cristo si rivela come il Servo di Dio obbe­diente in tutto alla divina volontà. Così Gesù è vincitore del diavolo: egli ha legato l'uomo forte per riprendergli il suo bottino. La vittoria di Gesù sul tentatore nel deserto anticipa la vittoria della passione, suprema obbedienza del suo amore filiale per il Padre.

540 - La tentazione di Gesù manifesta quale sia la messianicità del Fi­glio di Dio, in opposizione a quella propostagli da Satana e che gli uo­mini desiderano attribuirgli. Per questo Cristo ha vinto il tentatore «Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato» (Eb 4,15). La Chiesa ogni anno si unisce al mistero di Gesù nel deserto con i quaranta gior­ni della Quaresima.

«IL REGNO DI DIO E' VICINO»

541 - «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea pre­dicando il Vangelo di Dio e diceva: «”Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino: convertitevi e credete al Vangelo”» (Mc 1,14-15). «Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli». Ora, la volontà del Padre è di «elevare gli uomini alla par­tecipazione della vita divina». Lo fa radunando gli uomini attorno al Figlio suo, Gesù Cristo. Questa assemblea è la Chiesa, la quale in terra costituisce «il germe e l'inizio» del regno di Dio.

542 - Cristo è al centro di questa riunione degli uomini nella «famiglia di Dio». Li convoca attorno a sé con la sua parola, con i suoi «segni» che manifestano il regno di Dio, con l'invio dei suoi discepoli. Egli rea­lizzerà la venuta del suo Regno soprattutto con il grande mistero della sua pasqua: la sua morte in croce e la sua risurrezione. «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). «Tutti gli uomini sono chiamati a questa unione con Cristo».

L'ANNUNZIO DEL REGNO DI DIO

543 - Tutti gli uomini sono chiamati ad entrare nel Regno. Annunziato dapprima ai figli di Israele, questo regno messianico è destinato ad ac­cogliere gli uomini di tutte le nazioni. Per accedervi, è necessario accogliere la parola di Gesù: «La parola del Signore è paragonata appunto al seme che viene semi­nato in un campo: quelli che l'ascoltano con fede e appartengono al piccolo gregge di Cristo hanno accolto il regno stesso di Dio; poi il se­me per virtù propria germoglia e cresce fino al tempo del raccolto».

544 - Il Regno appartiene ai poveri e ai piccoli, cioè a coloro che l'han­no accolto con un cuore umile. Gesù è mandato per «annunziare ai poveri un lieto messaggio» (Lc 4,18). Li proclama beati, perché «di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3); ai «piccoli» il Padre si è degnato di rivelare ciò che rimane nascosto ai sapienti e agli intelligenti. Gesù condivide la vita dei poveri, dalla mangiatoia alla croce; conosce la fame, la sete e l'indigenza. Anzi, arriva a identificarsi con ogni tipo di poveri e fa dell'amore operante verso di loro la condizione per entrare nel suo Regno.

545 - Gesù invita i peccatori alla mensa del Regno: «Non sono venuto per chiamare i giusti, ma i peccatori» (Mc 2,1 7). Li invita alla conver­sione, senza la quale non si può entrare nel Regno, ma nelle parole e nelle azioni mostra loro l'infinita misericordia del Padre suo per loro e l'immensa «gioia che ci sarà in cielo per un peccatore convertito» (Lc 15,7). La prova suprema di tale amore sarà il sacrificio della pro­pria vita «in remissione dei peccati» (Mt 26,28).

546 - Gesù chiama ad entrare nel Regno servendosi delle parabole, ele­mento tipico del suo insegnamento. Con esse egli invita al banchetto del Regno, ma chiede anche una scelta radicale: per acquistare il Re­gno, è necessario «vendere» tutto; le parole non bastano, occorrono 1 fatti. Le parabole sono come specchi per l'uomo: accoglie la Parola come un terreno arido o come un terreno buono? Che uso fa dei ta­lenti ricevuti? Al centro delle parabole stanno velatamente Gesù e la presenza del Regno in questo mondo. Occorre entrare nel Regno, cioè diventare discepoli di Cristo per «conoscere i misteri del regno dei cie­li» (Mt 13,11). Per coloro che rimangono «fuori» (Mc 4,11), tutto re­sta enigmatico.

I SEGNI DEL REGNO DI DIO

547 - Gesù accompagna le sue parole con numerosi «miracoli, prodigi e segni» (At 2,22), i quali manifestano che in lui il Regno è presente. Attestano che Gesù è il Messia annunziato.

548 - I segni compiuti da Gesù testimoniano che il Padre lo ha mandato. Essi sollecitano a credere in lui. A coloro che gli si rivolgono con fede egli concede ciò che domandano. Allora i miracoli rendono più salda la fede in colui che compie le opere del Padre suo: testimoniano che egli è il Figlio di Dio. Ma possono anche essere motivo di scanda­lo. Non mirano a soddisfare la curiosità e i desideri di qualcosa di magico. Nonostante i suoi miracoli tanto evidenti, Gesù è rifiutato da alcuni; lo si accusa perfino di agire per mezzo dei demoni.

549 - Liberando alcuni uomini dai mali terreni della fame, dell'ingiustizia, ella malattia e della morte, Gesù ha posto dei segni messianici; egli non è venuto tuttavia per eliminare tutti i mali di quaggiù, ma per liberare gli uomini dalla più grave delle schiavitù: quella del peccato, che li ostacola nella loro vocazione di figli di Dio e causa tutti i loro asservimenti umani.

550 - La venuta del regno di Dio è la sconfitta del regno di Satana: «Se io scaccio i demoni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio» (Mt 12,28). Gli esorcismi di Gesù liberano al­cuni uomini dal tormento dei demoni. Anticipano la grande vittoria di Gesù sul «principe di questo mondo». Il regno di Dio sarà definiti­vamente stabilito per mezzo della croce di Cristo: «Regnavit a ligno Deus Dio regnò dalla croce»

«LE CHIAVI DEL REGNO»

551 - Fin dagli inizi della vita pubblica, Gesù sceglie dodici uomini per­ché stiano con lui e prendano parte alla sua missione; li fa partecipi della sua autorità e li manda «ad annunziare il regno di Dio e a gua­rire gli infermi» (Lc 9,2). Restano per sempre associati al regno di Cri­sto, che, per mezzo di essi, guida la Chiesa: «Io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me; perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno, e siederete in trono a giudicare le dodici tribù d'Israele» (Lc 22,29-30).

552 - Nel collegio dei Dodici Simon Pietro occupa il primo posto. Ge­sù a lui ha affidato una missione unica. Grazie ad una rivelazione con­cessagli dal Padre, Pietro aveva confessato: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16). Nostro Signore allora gli aveva detto: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» (Mt 16,18). Cristo, «Pietra viva », assicura alla sua Chiesa fondata su Pietro la vittoria sulle potenze di morte. Pietro, a causa della fede da lui confessata, resterà la roccia incrollabile della Chiesa. Avrà la missione di custodire la fede nella sua integrità e di confermare i suoi fratelli.

553 - Gesù ha conferito a Pietro un potere specifico: «A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,19). Il «potere delle chiavi» designa l'autorità per governare la casa di Dio, che è la Chiesa. Gesù, «il Buon Pastore» (Gv 10,11), ha confermato questo incarico dopo la risurrezione: «Pasci le mie pecorelle» (Gv 21,15-17). Il potere di «legare e sciogliere» indica l'autorità di assolvere dai peccati, di pronunciare giudizi in materia di dottrina, e prendere decisioni disciplinari nella Chiesa. Gesù ha conferito tale auto­rità alla Chiesa attraverso il ministero degli Apostoli e particolarmen­te di Pietro, il solo cui ha esplicitamente affidato le chiavi del Regno.

UN ANTICIPO DEL REGNO: LA TRASFIGURAZIONE

554 - Dal giorno in cui Pietro ha confessato che Gesù è il Cristo, il Fi­glio del Dio vivente, il Maestro «cominciò a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme, e soffrire molto [...] e ve­nire ucciso e risuscitare il terzo giorno» (Mt 16,21). Pietro protesta a questo annunzio, gli altri addirittura non lo comprendono. In tale contesto si colloca l'episodio misterioso della trasfigurazione di Gesù su un alto monte, davanti a tre testimoni da lui scelti: Pietro, Giacomo e Giovanni. Il volto e la veste di Gesù diventano sfolgoranti di luce, appaiono Mosé ed Elia che parlano «della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme» (Lc 9,31). Una nube li avvolge e una voce dal cielo dice: «Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo» (Lc 9,35).

555 - Per un istante, Gesù mostra la sua gloria divina, confermando co­sì la confessione di Pietro. Rivela anche che, per «entrare nella sua gloria» (Lc 24,26), deve passare attraverso la croce a Gerusalemme. Mosé ed Elia avevano visto la gloria di Dio sul monte; la Legge e i profeti avevano annunziato le sofferenze del Messia. La passione di Gesù è proprio la volontà del Padre: il Figlio agisce come Servo di Dio. La nube indica la presenza dello Spirito Santo: «Tota Trinitas apparuit: Pater in voce, Filius in homine, Spiritus in nube clara - Ap­parve tutta la Trinità: il Padre nella voce, il Figlio nell'uomo, lo Spirito nella nube luminosa»: Tu ti sei trasfigurato sul monte, e, nella misura in cui ne erano capa­ci, i tuoi discepoli hanno contemplato la tua gloria, Cristo Dio, affin­ché, quando ti avrebbero visto crocifisso, comprendessero che la tua passione era volontaria ed annunziassero al mondo che tu sei veramente l'irradiazione del Padre».

556 - Alla soglia della vita pubblica: il battesimo; alla soglia della pasqua: la trasfigurazione. Col battesimo di Gesù «declaratum fuit mysterium primae regenerationis - fu manifestato il mistero della prima ri­generazione»: il nostro Battesimo; la trasfigurazione «est sacramentum secundae regenerationis - è il sacramento della seconda rigenerazione»: la nostra risurrezione. Fin d'ora noi partecipiamo alla risurrezione del Signore mediante lo Spirito Santo che agisce nel sacramento del corpo di Cristo. La trasfigurazione ci offre un anticipo della venuta gloriosa di Cristo «il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3,21). Ma ci ricorda anche che «è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio» (At 14,22): «Pietro non lo capiva ancora quando sul monte desiderava vivere con Cristo. Questa felicità Cristo te la riservava dopo la morte, o Pietro. Ora invece egli stesso ti dice: Discendi ad affaticarti sulla terra, a servi­re sulla terra, a essere disprezzato, a essere crocifisso sulla terra. E di­scesa la vita per essere uccisa; è disceso il pane per sentire la fame; è discesa la via, perché sentisse la stanchezza del cammino; è discesa la sorgente per aver sete; e tu rifiuti di soffrire?».

LA SALITA DI GESÙ A GERUSALEMME

557 - «Mentre stavano compiendosi i giorni in cui sarebbe stato tolto dal mondo, si diresse decisamente verso Gerusalemme» (Lc 9,5l). Con questa decisione, indicava che saliva a Gerusalemme pronto a morire. A tre riprese aveva annunziato la sua passione e la sua risurrezione. Dirigendosi verso Gerusalemme dice: «Non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,33).

558 - Gesù ricorda il martirio dei profeti che erano stati messi a morte a Gerusalemme. Tuttavia, non desiste dall'invitare Gerusalemme a rac­cogliersi attorno a lui: «Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali, e voi non avete volu­to!» (Mt 23,37b). Quando arriva in vista di Gerusalemme, Gesù piange sulla città ed ancora una volta manifesta il desiderio del suo cuore: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, la via della pace! Ma ormai è stata nascosta ai tuoi occhi» (Lc 19,42).

L'INGRESSO MESSIANICO DI GESÙ A GERUSALEMME

559 - Come Gerusalemme accoglierà il suo Messia? Dopo essersi sempre sottratto ai tentativi del popolo di farlo re, Gesù sceglie il tempo e prepara nei dettagli il suo ingresso messianico nella città di «Davide, suo padre» (Lc l,32). E’ acclamato come il figlio di Davide, colui che porta la salvezza (Hosanna significa: «Oh, sì, salvaci!», «donaci la sal­vezza!»). Ora, «Re della gloria» (Sal 24,7-10), entra nella sua città «cavalcando un asino»: (Zc 9,9) egli non conquista la Figlia di Sion, figura della sua Chiesa, né con l'astuzia né con la violenza, ma con l'u­miltà che rende testimonianza alla verità. Per questo i soggetti del suo Regno, in quel giorno, sono i fanciulli e i «poveri di Dio», i quali lo acclamano come gli angeli lo avevano annunziato ai pastori. La loro acclamazione, «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Sal 1352 118,26), è ripresa dalla Chiesa nel «Santo» della liturgia eucaristica come introduzione al memoriale della pasqua del Signore.

560 - L'ingresso di Gesù a Gerusalemme manifesta l'avvento del Regno che il Re-Messia si accinge a realizzare con la pasqua della sua morte e risurrezione. Con la celebrazione dell'entrata di Gesù in Gerusalemme, la domenica delle Palme, la liturgia della Chiesa dà inizio alla Settimana Santa.

In sintesi

561 - «Tutta la vita di Cristo fu un insegnamento continuo: i suoi silenzi, i suoi miracoli, i suoi gesti, la sua preghiera, il suo amore per l'uomo, la sua predilezione per i piccoli e per i poveri, l'accettazione del sacrificio totale sulla croce per la redenzione del mondo, la sua risurrezione sono l'attuazione della sua parola e il compimento della Rivelazione».

562 - I discepoli di Cristo devono conformarsi a lui, finché egli sia formato in loro. «Per questo siamo assunti ai misteri della sua vita, resi conformi a lui, morti e risuscitati con lui, finché con lui regneremo».

563 - Pastori o magi, non si può incontrare Dio quaggiù che inginocchiandosi davanti alla mangiatoia di Betlemme e adorandolo nascosto nel­la debolezza di un bambino.

564 - Con la sua sottomissione a Maria e a Giuseppe, come pure con il suo umile lavoro durante i lunghi anni di Nazaret, Gesù ci dà l'esem­pio della santità nella vita quotidiana della famiglia e del lavoro.

565 - Dall'inizio della sua vita pubblica al momento del suo battesimo, Ge­sù é il «Servo» totalmente consacrato all'opera redentrice che avrà il compimento nel «battesimo» della sua passione.

566 - La tentazione nel deserto mostra Gesù Messia umile che trionfa su Satana in forza della sua piena adesione al disegno di salvezza voluto dal Padre.

567 - Il regno dei cieli è stato inaugurato in terra da Cristo. «Si manife­sta chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere, nella persona di Cristo». La Chiesa è il germe e l'inizio di questo regno. Le sue chiavi sono affidate a Pietro.

568 - La trasfigurazione di Gesù ha come fine di consolidare la fede degli Apostoli in vista della passione: la salita sull '«alto monte» prepara la salita al Calvario. Cristo, Capo della Chiesa, manifesta ciò che il suo corpo contiene e irradia nei sacramenti: «la speranza della gloria» (Col l,27).

569 - Gesù è salito a Gerusalemme volontariamente, sapendo che vi sarebbe morto di morte violenta a causa della grande ostilità dei pec­catori.

570 - L'ingresso di Gesù a Gerusalemme è la manifestazione dell'avvento del Regno che il Re-Messia, accolto nella sua città dai fanciulli e da­gli umili di cuore, si accinge a realizzare con la pasqua della sua morte e risurrezione.

Articolo 4

«GESU’ CRISTO PATI’ SOTTO PONZIO PILATO, FU CROCIFISSO, MORI E FU SEPOLTO»

571 - Il mistero pasquale della croce e della risurrezione di Cristo è al centro della Buona Novella che gli Apostoli, e la Chiesa dopo di loro, devono annunziare al mondo. Il disegno salvifico di Dio si è compiuto «una volta sola» (Eb 9,26) con la morte redentrice del Figlio suo Gesù Cristo.

572 - La Chiesa resta fedele all'interpretazione di tutte le Scritture data da Gesù stesso sia prima, sia dopo la sua pasqua: «Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua glo­ria?» (Lc 24,26). Le sofferenze di Gesù hanno preso la loro forma sto­rica concreta dal fatto che egli è stato «riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi» (Mc 8,31), i quali lo hanno consegnato «ai pagani perché sia schernito e flagellato e crocifisso» (Mt 20,19).

573 - La fede può dunque cercare di indagare le circostanze della morte di Gesù, fedelmente riferite dai Vangeli e illuminate da altre fonti sto­riche, al fine di una migliore comprensione del senso della redenzione.

Paragrafo 1

GESU E ISRAELE

574 - Fin dagli inizi del ministero pubblico di Gesù, alcuni farisei e al­cuni sostenitori di Frode, con alcuni sacerdoti e scribi, si sono accorda­ti per farlo morire. Per certe sue azioni (per la cacciata dei demoni; il perdono dei peccati; le guarigioni in giorno di sabato; la propria interpretazione dei precetti di purità legale; la familiarità con i pubbli­cani e i pubblici peccatori. Gesù è apparso ad alcuni malintenzionati sospetto di possessione demoniaca. Lo si è accusato di bestemmia e di falso profetismo, crimini religiosi che la Legge puniva con la pena di morte sotto forma di lapidazione.

575 - Molte azioni e parole di Gesù sono dunque state un «segno di contraddi­zione» per le autorità religiose di Gerusalemme, quelle che il Vangelo di san Giovanni spesso chiama «i Giudei», ancor più che per il comune popolo di Dio. Certamente, i suoi rapporti con i farisei non furono esclusivamente pole­mici. Ci sono dei farisei che lo mettono in guardia in ordine al pericolo che corre. Gesù loda alcuni di loro, come lo scriba di Mc 12,34, e mangia più vol­te in casa di farisei. Gesù conferma dottrine condivise da questa élite religiosa del popolo di Dio: la risurrezione dei morti, le forme di pietà (elemosina, pre­ghiera e digiuno), e l'abitudine di rivolgersi a Dio come Padre, la centralità del comandamento dell'amore di Dio e del prossimo.

576 - Agli occhi di molti in Israele, Gesù sembra agire contro le istitu­zioni fondamentali del popolo eletto: l'obbedienza alla Legge nell'integralità dei suoi precetti scritti e, per i farisei, nell'interpretazione della tradizione orale; la centralità del Tempio di Gerusalemme come luogo santo do­ve Dio abita in un modo privilegiato; la fede nell'unico Dio del quale nessun uomo può condividere la gloria

I. Gesù e la Legge.

577 - Gesù ha fatto una solenne precisazione all'inizio del discorso della montagna, quando ha presentato, alla luce della grazia della Nuova Al­leanza, la Legge data da Dio sul Sinai al momento della prima Alleanza: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per dare compimento. In verità vi dico: finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà neppure un iota o un segno dalla Legge, senza che tutto sia compiuto. Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli» (Mt 5,17-19).

578 - Gesù, il Messia d'Israele, il più grande quindi nel regno dei cieli, aveva il dovere di osservare la Legge, praticandola nella sua integralità fin nei minimi precetti, secondo le sue stesse parole. Ed è anche il solo che l'abbia potuto fare perfettamente. Gli Ebrei, secondo quanto essi stessi confessano, non hanno mai potuto osservare la Legge nella sua integralità senza trasgredire il più piccolo precetto. Per questo, ogni anno, alla festa dell'Espiazione, i figli d'Israele chiedono perdono a Dio per le loro trasgressioni della Legge. In realtà, la Legge costituisce un tutto unico e, come ricorda san Giacomo, «chiunque osservi tutta la Legge, ma la trasgredisca in un punto solo, diventa colpevole di tutto» (Gc 2,l0).

579 - Il principio dell'integralità dell'osservanza della Legge, non solo nella let­tera ma nel suo spirito, era caro ai farisei. Mettendolo in forte risalto per Israe­le, essi hanno condotto molti ebrei del tempo di Gesù a uno zelo religioso estremo. E questo, se non voleva risolversi in una casistica «ipocrita», non poteva che preparare il popolo a quell'inaudito intervento di Dio che sarà l'osservanza perfetta della Legge da parte dell'unico Giusto al posto di tutti i peccatori.

580 - L'adempimento perfetto della Legge poteva essere soltanto opera del divino Legislatore nato Sotto la Legge nella Persona del Figlio. Con Gesù, la Legge non appare più incisa su tavole di pietra ma scritta «nell'animo» e nel «cuore» (Ger 31,33) del Servo che, proclamando «il diritto con fermezza» (Is 42,3), diventa l'« alleanza del popolo» (Is 42,6). Gesù compie la Legge fino a prendere su di sé «la maledizione della Legge», in cui erano incorsi coloro che non erano rimasti fedeli «a tutte le cose scritte nel libro della Legge»; infatti la morte di Cri­sto intervenne «per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima Alleanza» (Eb 9,15).

581 - Gesù é apparso agli occhi degli Ebrei e dei loro capi spirituali come un «rabbi». Spesso egli ha usato argomentazioni che rientravano nel quadro dell'interpretazione rabbinica della Legge. Ma al tempo stesso, Gesù non poteva che urtare i dottori della Legge; infatti, non si limitava a proporre la sua inter­pretazione accanto alle loro; «egli insegnava come uno che ha autorità e non come i loro scribi» (Mt 7,29). In lui, è la Parola stessa di Dio, risuonata sul Sinai per dare a Mosè la Legge scritta, a farsi di nuovo sentire sul monte delle beatitudini. Questa Parola non abolisce la Legge, ma la porta a compimento dandone in maniera divina l'interpretazione definitiva: «Avete inteso che fu detto agli antichi [...]; ma io vi dico» (Mt 5,33-34). Con questa stessa autorità divina, Gesù sconfessa certe «tradizioni degli uomini» care ai farisei i quali annullano la parola di Dio.

582 - Spingendosi oltre, Gesù dà compimento alla Legge sulla purità degli ali­menti, tanto importante nella vita quotidiana giudaica, svelandone il senso «pe­dagogico» con una interpretazione divina: «Tutto ciò che entra nell'uomo dal di fuori non può contaminarlo [...]. Dichiarava così mondi tutti gli alimenti [...]. Ciò che esce dall'uomo, questo si contamina l'uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore dell'uomo, escono le intenzioni cattive» (Mc 7,18-21). Dando con au­torità divina l'interpretazione definitiva della Legge, Gesù si é trovato a scon­trarsi con certi dottori della Legge, i quali non accettavano la sua interpretazio­ne, sebbene fosse garantita dai segni divini che la accompagnavano. Ciò vale soprattutto per la questione del sabato: Gesù ricorda, ricorrendo spesso ad argomentazioni rabbiniche, che il riposo del sabato non viene violato dal servi­zio di Dio o del prossimo, servizio che le guarigioni da lui operate compiono

lI. Gesù e il Tempio.

583 - Gesù, come prima di lui i profeti, ha manifestato per il Tempio di Gerusalemme il più profondo rispetto. Vi è stato presentato da Giusep­pe e Maria quaranta giorni dopo la nascita. All'età di dodici anni decide di rimanere nel Tempio, per ricordare ai suoi genitori che egli deve occuparsi delle cose del Padre suo. Vi è salito ogni anno, almeno per la Pasqua, durante la sua vita nascosta; lo stesso suo ministero pu­blico è stato ritmato dai suoi pellegrinaggi a Gerusalemme per le grandi feste ebraiche.

584 - Gesù è salito al Tempio come al luogo privilegiato dell'incontro con Dio. Per lui il Tempio è la dimora del Padre suo, una casa di pre­ghiera, e si accende di sdegno per il fatto che il cortile esterno è diven­tato un luogo di commercio. Se scaccia i mercanti dal Tempio, a ciò è spinto dall'amore geloso per il Padre suo: «Non fate della casa di mio Padre un luogo di mercato. I discepoli si ricordarono che sta scritto: “Lo zelo per la tua casa mi divora” (Sal 69,10)» (Gv 2,16-17). Dopo la sua risurrezione, gli Apostoli hanno conservato un religioso rispetto per il Tempio.

585 - Alla vigilia della sua passione, Gesù ha però annunziato la distru­zione di questo splendido edificio, di cui non sarebbe rimasta pietra su pietra. In ciò vi è l'annunzio di un segno degli ultimi tempi che stanno per iniziare con la sua pasqua. Ma questa profezia ha potuto essere ri­ferita in maniera deformata da falsi testimoni al momento del suo interrogatorio presso il sommo sacerdote e ripetuta come ingiuria mentre era inchiodato sulla croce.

586 - Lungi dall'essere stato ostile al Tempio dove ha dato l'essenziale del suo insegnamento, Gesù ha voluto pagare la tassa per il Tempio associandosi a Pietro, che aveva posto come fondamento di quella che sarebbe stata la sua Chiesa. Ancor più, egli si è identificato con il Tempio presentandosi come la dimora definitiva di Dio in mezzo agli uomini. Per questo la sua uccisione nel corpo annunzia la distruzio­ne del Tempio, distruzione che manifesterà l'entrata in una nuova età della storia della salvezza: «È giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre» (Gv 4,21).

III. Gesù e la fede d'Israele nel Dio unico e Salvatore.

587 - Se la Legge e il Tempio di Gerusalemme hanno potuto essere oc­casione di «contraddizione» da parte di Gesù per le autorità religiose di Israele, è però il suo ruolo nella redenzione dei peccati opera divina per eccellenza, a rappresentare per costoro la vera pietra d’inciampo.

588 - Gesù ha scandalizzato i farisei mangiando con i pubblicani e i pecca­tori con la stessa familiarità con cui pranzava con loro. Contro quelli tra i farisei «che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri» (Lc l8,9), Gesù ha affermato: «Io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori a convertirsi» (Lc 5,32). Si è spinto oltre, proclamando da­vanti ai farisei che, essendo il peccato universale, coloro che presumono di non avere bisogno di salvezza, sono ciechi sul proprio conto.

589 - Gesù ha suscitato scandalo soprattutto per aver identificato il pro­prio comportamento misericordioso verso i peccatori con l'atteggiamento di Dio stesso a loro riguardo. È arrivato a lasciar intendere che, sedendo a mensa con i peccatori, li ammetteva al banchetto messianico. Ma è so­prattutto perdonando i peccati, che Gesù ha messo le autorità religiose di Israele di fronte a un dilemma. Costoro non erano nel giusto quando, costernati dicevano: «Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?» (Mc 2,7)? Perdonando i peccati, Gesù o bestemmia perché è un uomo che si fa uguale a Dio, oppure dice il vero e la sua persona rende presente e rivela il nome di Dio.

590 - Soltanto l'identità divina della persona di Gesù può giustificare un'e­sigenza assoluta come questa: «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12,30); altrettanto quando egli dice che in lui c'è «più di Giona, [...] più di Salomone» (Mt 12,41-42), qualcosa più grande del Tempio; quando ri­corda, a proprio riguardo, che Davide ha chiamato il Messia suo Signore, e quando afferma: «Prima che Abramo fosse, Io Sono» (Gv 8,58); e anche: «Io e il Padre siamo una cosa sola» (Gv 10,30).

591 - Gesù ha chiesto alle autorità religiose di Gerusalemme di credere in lui a causa delle opere del Padre che egli compiva. Un tale atto di fede, però, doveva passare attraverso una misteriosa morte a se stessi per una rinascita dall'alto, sotto lo stimolo della grazia divina. Una simile esigenza di conversione di fronte a un così sorprendente compi­mento delle promesse permette di capire il tragico disprezzo del sine­drio che ha stimato Gesù meritevole di morte perché bestemmiatore. I suoi membri agivano così per ignoranza e al tempo stesso per l'indu­rimento dell'incredulità.

In sintesi

592 - Gesù non ha abolito la Legge del Sinai, ma l'ha portala a compi­mento con una tale perfezione da rivelarne il senso ultimo e da riscattarne le trasgressioni.

593 - Gesù ha venerato il Tempio salendovi in occasione delle feste ebrai­che di pellegrinaggio e ha amato di un amore geloso questa dimora di Dio in mezzo agli uomini. Il Tempio prefigura il suo mistero. Se ne predice la distruzione, e' per manifestare la sua propria uccisione e l'inizio di una nuova epoca della storia della salvezza, nella quale il suo corpo sarà il Tempio definitivo.

594 - Gesù ha compiuto azioni, quale il perdono dei peccati, che lo hanno rivelato come il Dio Salvatore. Alcuni Giudei, i quali non riconosce­vano il Disfatto uomo, ma vedevano in lui «un uomo» che si face­va Dio, l'hanno giudicato un bestemmiatore.

Paragrafo 2

GESU MORI’ CROCIFISSO

I. Il processo a Gesù.

DIVISIONI DELLE AUTORITÀ EBRAICHE A RIGUARDO DI GESÙ

595 - Tra le autorità religiose di Gerusalemme non ci sono stati solamente il fa­riseo Nicodemo o il notabile Giuseppe di Arimatea ad essere, di nascosto, di­scepoli di Gesù, ma a proposito di lui sono sorti dissensi per lungo tempo al punto che, alla vigilia stessa della sua passione, san Giovanni può dire: «Tra i capi, molti credettero in lui», anche se in maniera assai imperfetta (Gv 12,42). La cosa non ha nulla di sorprendente se si tiene presente che all'indomani della pentecoste «un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede» (At 6,7) e che «al­cuni della setta dei farisei erano diventati credenti» (At 15,5) al punto che san Giacomo può dire a san Paolo: «Tu vedi, o fratello, quante migliaia di Giudei sono venuti alla fede e tutti sono gelosamente attaccati alla Legge» (At 21,20).

596 - Le autorità religiose di Gerusalemme non sono state unanimi nella con­dotta da tenere nei riguardi di Gesù. I farisei hanno minacciato di scomunica coloro che Io avrebbero seguito. A coloro che temevano; «Tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra na­zione» (Gv 11,48) il sommo sacerdote Caifa propose profetizzando: «[È] meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera» (Gv 11,50). Il Sinedrio, avendo dichiarato Gesù reo di morte in quanto bestem­miatore, ma avendo perduto il diritto di mettere a morte, consegna Gesù ai Romani accusandolo di rivolta politica, cosa che lo metterà alla pari con Ba­rabba accusato di «sommossa» (Lc 23,19). Sono anche minacce politiche quelle che i sommi sacerdoti esercitano su Pilato perché egli condanni a morte Gesù.

GLI EBREI NON SONO COLLETTIVAMENTE RESPONSABILI DELLA MORTE DI GESÙ

597 - Tenendo conto della complessità storica del processo a Gesù espressa nei racconti evangelici, e qualunque possa essere stato il pecca­to personale dei protagonisti del processo (Giuda, il Sinedrio, Pilato), che Dio solo conosce, non si può attribuirne la responsabilità all'insie­me degli Ebrei di Gerusalemme, malgrado le grida di una folla manipo­lata e i rimproveri collettivi contenuti negli appelli alla conversione dopo la pentecoste. Gesù stesso perdonando sulla croce e Pietro sul suo esempio hanno riconosciuto l'«ignoranza» degli Ebrei di Gerusa­lemme ed anche dei loro capi. Ancor meno si può, a partire dal grido del popolo: «Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli» (Mt 27,25) che è una formula di ratificazione, estendere la responsabi­lità agli altri Ebrei nel tempo e nello spazio: Molto bene la Chiesa ha dichiarato nel Concilio Vaticano II: «Quanto è stato commesso durante la passione non può essere imputato né indi­stintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo. [...] Gli Ebrei non devono essere presentati né come rigettati da Dio, né come maledetti, come se ciò scaturisse dalla Sacra Scrittura.

TUTTI I PECCATORI FURONO AUTORI DELLA PASSIONE DI CRISTO

598 - La Chiesa, nel magistero della sua fede e nella testimonianza dei suoi santi, non ha mai dimenticato che «ogni singolo peccatore è real­mente causa e strumento delle […] sofferenze» del divino Redentore. Tenendo conto del fatto che i nostri peccati offendono Cristo stesso, la Chiesa non esita ad imputare ai cristiani la responsabilità più grave nel supplizio di Gesù, responsabilità che troppo spesso essi hanno fatto ricadere unicamente sugli Ebrei: «È chiaro che più gravemente colpevoli sono coloro che più spesso ri­cadono nel peccato. Se infatti le nostre colpe hanno condotto Cristo al supplizio della croce, coloro che si immergono nell'iniquità crocifiggono nuovamente, per quanto sta in loro, il Figlio di Dio e lo scherniscono con un delitto ben più grave in loro che non negli Ebrei. Questi infatti - afferma san Paolo - se lo avessero conosciuto, non avrebbero crocifisso il Signore della gloria (1 Cor 2,8). Noi cristiani, invece, pur confessando di conoscerlo, di fatto lo rinneghiamo con le nostre opere e leviamo contro di lui le nostre mani violente e peccatrici ». «E neppure i demoni lo crocifissero, ma sei stato tu con essi a croci­figgerlo, e ancora lo crocifiggi, quando ti diletti nei vizi e nei peccati»

Il. La morte redentrice di Cristo nel disegno divino della salvezza.

«GESÙ CONSEGNATO SECONDO IL DISEGNO PRESTABILITO DI DIO»

599 - La morte violenta di Gesù non è stata frutto del caso in un con­corso sfavorevole di circostanze. Essa appartiene al mistero del disegno di Dio, come primo discorso di pentecoste: «Egli fu consegnato a voi secondo il pre­stabilito disegno e la prescienza di Dio» (At 2,23). Questo linguaggio biblico non significa che quelli che hanno consegnato Gesù siano stati solo esecutori passivi di una vicenda scritta in precedenza da Dio.

600 - Tutti i momenti del tempo sono presenti a Dio nella loro attuali­tà. Egli stabilì dunque il suo disegno eterno di «predestinazione» inclu­dendovi la risposta libera di ogni uomo alla sua grazia: «Davvero in questa città si radunarono insieme contro il tuo santo servo Gesù, che hai unto come Cristo, Erode e Ponzio Pilato con le genti e i popoli d'I­sraele per compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse» (At 4,27-28). Dio ha permesso gli atti deri­vati dal loro accecamento al fine di compiere il suo disegno di salvezza.

«MORTO PER I NOSTRI PECCATI SECONDO LE SCRITTURE»

601 - Questo disegno divino di salvezza attraverso la messa a morte del «Servo Giusto» era stato anticipatamente annunziato nelle Scritture co­me un mistero di redenzione universale, cioè di riscatto che libera gli uo­mini dalla schiavitù dei peccato. San Paolo professa, in una confessione di fede che egli dice di avere «ricevuto», che «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1 Cor 1 5,3), La morte redentrice di Gesù compie in particolare la profezia del Servo sofferente. Gesù stesso ha pre­sentato il senso della sua vita e della sua morte alla luce del Servo soffe­rente. Dopo la risurrezione, egli ha dato questa interpretazione delle Scrit­ture ai discepoli di Emmaus, poi agli stessi Apostoli.

«Dio l'ha fatto peccato per noi».

602 - San Pietro può, di conseguenza, formulare così la fede apostolica nel disegno divino della salvezza: «Foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai vostri padri [...] con il sangue prezioso di Cristo, come di agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato, già prima della fondazione del mondo, ma si è manifestato negli ultimi tempi per voi» (1 Pt 1,18-20). I peccati degli uomini, conseguenti al peccato originale, sono sanzionati dalla morte. Inviando il suo pro­prio Figlio nella condizione di servo, quella di una umanità decaduta e votata alla morte a causa del peccato, «colui che non aveva cono­sciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore, perché noi potessimo diventare per mezzo di lui giustizia di Dio» (2 Cor 5,21).

603 - Gesù non ha conosciuto la riprovazione come se egli stesso avesse peccato. Ma nell'amore redentore che sempre lo univa al Padre, egli ci ha assunto nella nostra separazione da Dio a causa del peccato al punto da poter dire a nome nostro sulla croce: «Mio Dio, mio Dio, «perché mi hai abbandonato?» (Mc l5,34). Avendolo reso così solidale con noi peccatori, «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32) affinché noi fossimo «riconciliati con lui per mezzo della morte del Figlio suo» (Rm 5,10).

DIO HA L'INIZIATIVA DELL'AMORE REDENTORE UNIVERSALE

604 - Nel consegnare suo Figlio per i nostri peccati, Dio manifesta che il suo disegno su di noi è un disegno di amore benevolo che precede ogni merito da parte nostra: «In questo sta l'amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Fi­glio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,l0). «Dio dimostra il suo amore verso dì noi, perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8).

605 - Questo amore è senza esclusioni; Gesù l'ha richiamato a conclu­sione della parabola della pecorella smarrita: «Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo dì questi piccoli» (Mt 18,14). Egli afferma di «dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,28); quest'ultimo termine non è restrittivo: oppone l'insieme dell'umanità all'unica persona del Redentore che si consegna per salvarla. La Chiesa, seguendo gli Apostoli, insegna che Cristo è morto per tutti senza eccezioni: «Non vi è, non vi è stato, non vi sarà alcun uomo per il quale Cristo non abbia sofferto».

III. Cristo ha offerto se stesso al Padre per i nostri peccati.

TUTTA LA VITA DI CRISTO È OFFERTA AL PADRE

606 - Il Figlio di Dio disceso dal cielo non per fare la sua volontà ma quella di colui che l'ha mandato, «entrando nel mondo dice: […] Ecco, io vengo [...] per fare, o Dio, la tua volontà. [...] Ed è appunto per quella vo­lontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre» (Eb 10,5-10). Dal primo istante della sua incarnazione, il Figlio abbraccia nella sua missione redentrice il disegno divino di salvezza: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34). Il sacrificio di Gesù «per i peccati di tutto il mondo» (1 Gv 2,2) è l'espressione della sua comunione d'amore con il Padre: «Il Padre mi ama perché io offro la mia vita» (Gv 10,17). «Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato» (Gv 14,31).

607 - Questo desiderio di abbracciare il disegno di amore redentore del Pa­dre suo anima tutta la vita di Gesù perché la sua passione redentrice è la ragion d'essere della sua incarnazione: «Padre, salvami da quest'ora? Ma per questo sono giunto a quest'ora!» (Gv 12,27). «Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?» (Gv 18,11). E ancora sulla croce, prima che «tutto [sia] compiuto» (Gv 19,30), egli dice: «Ho sete» (Gv 19,28).

«L'AGNELLO CHE TOGLIE IL PECCATO DEL MONDO»

608 - Dopo aver accettato di dargli il battesimo tra i peccatori, Gio­vanni Battista ha visto e mostrato in Gesù l'Agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo. Egli manifesta così che Gesù è insieme il Servo sofferente che si lascia condurre in silenzio al macello e porta il pec­cato delle moltitudini e l'Agnello pasquale simbolo della redenzione di Israele al tempo della prima pasqua. Tutta la vita di Cristo esprime la sua missione: servire e dare la propria vita in riscatto per molti.

GESÙ LIBERAMENTE FA SUO L'AMORE REDENTORE DEL PADRE

609 - Accogliendo nel suo cuore umano l'amore del Padre per gli uomi­ni, Gesù «li amò sino alla fine» (Gv 13,1), «perché nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita per i propri amici» (Gv 15,13). Così nella sofferenza e nella morte la sua umanità è diven­tata lo strumento libero e perfetto del suo amore divino che vuole la salvezza degli uomini. Infatti, egli ha liberamente accettato la sua passione e la sua morte per amore del Padre suo e degli uomini che il Padre vuole salvare: «Nessuno mi toglie [la vita], ma la offro da me stesso» (Gv 10,18). Di qui la sovrana libertà del Figlio di Dio quando va liberamente verso la morte.

ALLA CENA GESÙ HA ANTICIPATO L'OFFERTA LIBERA DELLA SUA VITA

610 - La libera offerta che Gesù fa di se stesso ha la sua più alta espressione nella Cena consumata con i dodici Apostoli nella «notte in cui veniva tradito» (1 Cor 11,23). La vigilia della sua passione, Gesù, quand'era ancora libero, ha fatto di quest'ultima Cena con i suoi Apostoli il memoriale della volontaria offerta di sé al Padre per la salvezza degli uomini: «Questo è il mio corpo che è dato per voi» (Lc 22,19). «Questo è il mio sangue dell'Alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati » (Mt 26,28).

611 - L'Eucaristia che egli istituisce in questo momento sarà il «memo­riale » del suo sacrificio. Gesù nella sua offerta include gli Apostoli e chiede loro di perpetuarla. Con ciò, Gesù istituisce i suoi Apostoli sa­cerdoti della Nuova Alleanza: «Per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati nella verità» (Gv l7,l9). L’AGONIA DEL GETSEMANI

612 - Il calice della Nuova Alleanza, che Gesù ha anticipato alla Cena offrendo se stesso, in seguito egli lo accoglie dalle mani del Padre nell'agonia al Getsemani facendosi «obbediente fino alla morte» (Fil 2,8). Gesù prega: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo cali­ce!» (Mt 26,39). Egli esprime così l'orrore che la morte rappresenta per la sua natura umana. Questa, infatti, come la nostra, è destinata alla vita eterna; in più, a differenza della nostra, è perfettamente esente dal peccato che causa la morte; ma soprattutto è assunta dalla Persona divina dell'«Autore della vita» del «Vivente». Accettando nella sua volontà umana che sia fatta la volontà del Padre, Gesù accetta la sua morte in quanto redentrice, per «portare i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce» (1 Pt 2,24).

LA MORTE DI CRISTO È IL SACRIFICIO UNICO E DEFINITIVO

613 - La morte di Cristo è contemporaneamente il sacrificio pasquale che compie la redenzione definitiva degli uomini per mezzo del­l’Agnello che toglie il peccato del mondo e il sacrificio della Nuova Alleanza, che di nuovo mette l'uomo in comunione con Dio riconci­liandolo con lui mediante il sangue versato per molti in remissione dei peccati.

614 - Questo sacrificio di Cristo è unico: compie e supera tutti i sacrifi­ci. Esso è innanzitutto un dono dello stesso Dio Padre che consegna il Figlio suo per riconciliare noi con lui. Nel medesimo tempo è offerta del Figlio di Dio fatto uomo che, liberamente e per amore, offre la propria vita al Padre suo nello Spirito Santo per riparare la nostra disobbedienza.

GESÙ SOSTITUISCE LA SUA OBBEDIENZA ALLA NOSTRA DISOBBEDIENZA

615 - «Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costi­tuiti giusti» (Rm 5,19). Con la sua obbedienza fino alla morte, Gesù ha compiuto la sostituzione del Servo sofferente che offre se stesso in espiazione, mentre porta il peccato di molti, e li giustifica addossandosi la loro iniquità. Gesù ha riparato per i nostri errori e dato soddisfa­zione al Padre per i nostri peccati.

SULLA CROCE, GESÙ CONSUMA IL SUO SACRIFICIO

616 - È l'amore sino alla fine che conferisce valore di redenzione e di riparazione, di espiazione e di soddisfazione al sacrificio di Cristo. Egli ci ha tutti conosciuti e amati nell'offerta della sua vita. «L'amore del Cristo ci spinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti so­no morti» (2 Cor 5,14). Nessun uomo, fosse pure il più santo, era in grado di prendere su di sé i peccati di tutti gli uomini e di offrirsi in sacrificio per tutti. L’esistenza in Cristo della Persona divina del Figlio, che supera e nel medesimo tempo abbraccia tutte le persone umane e lo costituisce Capo di tutta l’umanità, rende possibile il suo sacrificio redentore per tutti.

617 - «Sua sanctissima passione in ligno crucis nobis iustificationem meruit - Con la sua Santissima passione sul legno della croce ci meritò la giustificazione», insegna il Concilio di Trento sottolineando il carattere unico del sacrificio di Cristo come causa di salvezza eterna. E la Chiesa venera la Croce cantando: «O crux, ave, spes unica! - Ave, o Croce, unica speranza!».

LA NOSTRA PARTECIPAZIONE AL SACRIFICIO DI CRISTO

618 - La Croce è l’unico sacrificio di Cristo, che è il solo mediatore tra Dio e gli uomini. Ma poiché, nella sua Persona divina incarnata, «si è unito in certo modo ad ogni uomo», egli offre « a tutti la possibilità di venire in contatto, nel modo che Dio conosce, con il mistero pasquale». Egli chiama i suoi discepoli a prendere la loro croce e a se­guirlo, poiché patì per noi, lasciandoci un esempio, perché ne seguiamo le orme. Infatti Egli vuole ­associare al suo sacrificio redentore quelli stessi che ne sono i primi beneficiari. Ciò si compie in maniera eminente per sua Madre associata intimamente più di qualsiasi altro e al mistero della sua sofferenza redentrice. «Al di fuori della Croce non vi è altra scala per salire al cielo».

In sintesi

619 - «Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture» (1 Cor 15,3).

620 - La nostra salvezza proviene dall'iniziativa d'amore di Dio per noi poiché «è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vit­tima di espiazione per i nostri peccati» (1 Gv 4,10). «È stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo» (2 Cor 5,19)

621 - Gesù si è liberamente offerto per la nostra salvezza. Egli significa e realizza questo dono in precedenza durante l'ultima Cena: «Questo è il mio corpo che è dato per voi» (Lc 22,19).

622 - In questo consiste la redenzione di Cristo: egli «è venuto per [...] da­re la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,28), cioè ad amare «i suoi sino alla fine» (Gv 13,1) perché essi siano liberati dalla loro vuota condotta ereditata dai loro padri.

623 - Mediante la sua obbedienza di amore al Padre «fino alla morte di croce» (Fil 2,8), Gesù compie la missione espiatrice del Servo sof­ferente che giustifica molti addossandosi la loro iniquità.

Paragrafo 3

GESU CRISTO FU SEPOLTO

624 - «Per la grazia di Dio, egli» ha provato «la morte a vantaggio di tutti» (Eb 2,9). Nel suo disegno di salvezza, Dio ha disposto che il Fi­glio suo non solamente morisse «per i nostri peccati» (1 Cor 15,3), ma anche «provasse la morte», ossia conoscesse lo stato di morte, lo stato di separazione tra la sua anima e il suo corpo per il tempo compreso tra il momento in cui egli è spirato sulla croce e il momento in cui è ri­suscitato. Questo stato di Cristo morto è il mistero del sepolcro e della discesa agli inferi. È il mistero del Sabato Santo in cui Cristo deposto nel sepolcro manifesta il grande riposo sabbatico di Dio dopo il compimento della salvezza degli uomini che mette in pace l'universo intero.

CRISTO NEL SEPOLCRO CON IL SUO CORPO

625 - La permanenza di Cristo nella tomba costituisce il legame reale tra lo stato di passibilità di Cristo prima della pasqua e il suo stato at­tuale glorioso di risorto. È la medesima persona del «Vivente» che può dire: «Io ero morto, ma ora vivo per sempre» (Ap 1,18). «Ed è questo il mistero del disegno di Dio circa la morte e la risurre­zione dai morti: se pure non ha impedito che con la morte l'anima fos­se separata dal corpo secondo l'ordine necessario della natura, li ha riuniti di nuovo insieme mediante la risurrezione, in modo che egli stes­so divenisse punto d'incontro della morte e della vita, arrestando in se stesso la disgregazione della natura causata dalla morte, e insieme dive­nendo lui stesso principio di riunificazione degli elementi separati.

626 - Poiché l'«Autore della vita» che è stato ucciso è anche il Vi­vente che «è risuscitato», necessariamente la Persona divina del Figlio di Dio ha continuato ad assumere la sua anima e il suo corpo separati tra di loro dalla morte: «La Persona unica non si è trovata divisa in due persone dal fatto che alla morte di Cristo l'anima è stata separata dalla carne; poiché il cor­po e l'anima di Cristo sono esistiti al medesimo titolo fin da principio nella Persona del Verbo; e nella morte, sebbene separati l'uno dall'altra, sono restati ciascuno con la medesima ed unica Persona del Verbo».

«NON LASCERAI CHE IL TUO SANTO VEDA LA CORRUZIONE»

627 - La morte di Cristo è stata una vera morte in quanto ha messo fi­ne alla sua esistenza umana terrena. Ma a causa dell'unione che la per­sona del Figlio ha mantenuto con il suo corpo, non si è trattato di uno spogliamento mortale come gli altri, perché «non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere» (At 2,24) e perciò «la virtù divina ha preservato il corpo di Cristo dalla corruzione». Di Cristo si può dire contemporaneamente: «Fu eliminato dalla terra dei viventi» (Is 53,8) e: «Il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita nel sepolcro, né lascerai che il tuo Santo veda la corruzione» (At 2,26-27). La risurrezione di Gesù «il terzo giorno» (1 Cor 15,4; Lc 24,46) 52 ne era il segno, anche perché si credeva che la corruzione si manifestasse a partire dal quarto giorno.

«SEPOLTI CON CRISTO...»

628 - Il Battesimo, il cui segno originale e plenario è l'immersione, si­gnifica efficacemente la discesa nella tomba del cristiano che muore al peccato con Cristo in vista di una vita nuova: «Per mezzo del Battesi­mo siamo dunque stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, cosi anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4).

In sintesi

629 - A beneficio di ogni uomo Gesù ha provato la morte. Colui che è morto e che è stato sepolto è veramente il Figlio di Dio fatto uomo.

630 - Durante la permanenza di Cristo nella tomba, la sua Persona divina ha continuato ad assumere sia la sua anima che il suo corpo, separati però tra di loro dalla morte. E’ per questo che il corpo di Cristo morto «non ha subito la corruzione» (At 13,37).

Articolo 5

«GESU CRISTO DISCESE AGLI INFERI, IL TERZO GIORNO RISUSCITO DA MORTE»

631 - Gesù «era disceso nelle regioni inferiori della terra. Colui che di­scese è lo stesso che anche ascese» (Ef 4,10). Il Simbolo degli Apostoli professa in uno stesso articolo di fede la discesa di Cristo agli inferi e la sua risurrezione dai morti il terzo giorno, perché nella sua pasqua egli dall'abisso della morte ha fatto scaturire la vita: «Cristo, tuo Figlio, che, risuscitato dai morti, fa risplendere sugli uomini la sua luce serena, e vive e regna nei secoli dei secoli. Amen».

Paragrafo 1

CRISTO DISCESE AGLI INFERI

632 - Le frequenti affermazioni del Nuovo Testamento secondo le quali Gesù «è risuscitato dai morti» (1 Cor 15,20) presuppongono che, preliminarmente alla risurrezione, egli abbia dimorato nel soggiorno dei morti. È il senso primo che la predicazione apostolica ha dato alla di­scesa di Gesù agli inferi: Gesù ha conosciuto la morte come tutti gli uomini e li ha raggiunti con la sua anima nella dimora dei morti. Ma egli vi è disceso come Salvatore, proclamando la Buona Novella agli spiriti che vi si trovavano prigionieri.

633 - La Scrittura chiama inferi, Shèol il soggiorno dei morti dove Cristo morto è disceso, perché quelli che vi si trovano sono privati della visione di Dio. Tale infatti è, nell'attesa del Redentore, la sorte di tutti i morti, cattivi o giusti; il che non vuol dire che la loro sorte sia identica, come dimostra Gesù nella parabola del povero Lazzaro ac­colto nel «seno di Abramo». «Furono appunto le anime di questi giusti in attesa del Cristo a essere liberate da Gesù disceso all'infer­no ». Gesù non è disceso agli inferi per liberare i dannati né per distruggere l'inferno della dannazione, ma per liberare i giusti che l'avevano preceduto.

634 - «La Buona Novella è stata annunciata anche ai morti...» (I Pt 4,6). La discesa agli inferi è il pieno compimento dell'annunzio evange­lico della salvezza. È la fase ultima della missione messianica di Gesù, fase condensata nel tempo ma immensamente ampia nel suo reale signi­ficato di estensione dell'opera redentrice a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, perché tutti coloro i quali sono salvati sono stati resi partecipi della redenzione.

635 - Cristo, dunque, è disceso nella profondità della morte affinché i «morti» udissero «la voce del Figlio di Dio» (Gv 5,25) e, ascoltandola, vivessero. Gesù, «l'Autore della vita » ha ridotto «all'impotenza, mediante la morte, colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo», liberando «così tutti quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita» (Eb 2,14-15). Ormai Cristo risuscitato ha «potere sopra la morte e sopra gli inferi» (Ap 1,18) e «nel nome di Gesù ogni ginocchio» si piega «nei cieli, sulla terra e sotto terra» (FiI 2,10). «Oggi sulla terra c'è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Gran­de silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace per­ché il Dio fatto carne si è addormentato ed ha svegliato coloro che da secoli dormivano. (...) Egli va a cercare il primo padre, come la pecora smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell'ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle soffe­renze Adamo ed Eva, che si trovano in prigione. [...] Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio. [...] Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell'inferno. Risor­gi dai morti. Io sono la Vita dei morti».

In sintesi 636 Con l'espressione « Gesù discese agli inferi» il Simbolo professa che Gesù è morto realmente e che, mediante la sua morte per noi, egli ha vinto la morte e il diavolo «che della morte ha il potere» (Eh 2,14). 637Cristo morto, con l'anima unita alla sua Persona divina, è disceso al­la dimora dei morti. Egli ha aperto le porte del cielo ai giusti che l'avevano preceduto.

Paragrafo 2

IL TERZO GIORNO RISUSCITO DA MORTE

638 - «Noi vi annunziamo la Buona Novella che la promessa fatta ai padri si è compiuta, poiché Dio l'ha attuata per noi, loro figli, risusci­tando Gesù» (At 13,32-33). La risurrezione di Gesù è la verità culminante della nostra fede in Cristo, creduta e vissuta come verità centrale dalla prima comunità cristiana, trasmessa come fondamentale dalla Tra­dizione, stabilita dai documenti del Nuovo Testamento, predicata come parte essenziale del mistero pasquale insieme con la croce: «Cristo è risuscitato dai morti. Con la sua morte ha vinto la morte, ai morti ha dato la vita».

I. L'avvenimento storico e trascendente.

639 - Il mistero della risurrezione di Cristo è un avvenimento reale che ha avuto manifestazioni storicamente constatate, come attesta il Nuovo Testamento. Già verso l'anno 56 san Paolo può scrivere ai cristiani di Corinto: «Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» (1 Cor 15,3-4). L'Apostolo parla qui della tradizione viva della risurrezione che egli aveva appreso dopo la sua conversione alle porte di Damasco.

IL SEPOLCRO VUOTO

640 - «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risusci­tato» (Lc 24,5-6). Nel quadro degli avvenimenti di pasqua, il primo elemento che si incontra è il sepolcro vuoto. Non è in sé una prova di­retta. L'assenza del corpo di Cristo nella tomba potrebbe spiegarsi altri­menti. Malgrado ciò, il sepolcro vuoto ha costituito per tutti un segno essenziale. La sua scoperta da parte dei discepoli è stato il primo passo verso il riconoscimento dell'evento della risurrezione. Dapprima è il ca­so delle pie donne, poi di Pietro. Il discepolo «che Gesù amava» (Gv 20,2) afferma che, entrando nella tomba vuota e scorgendo «le bende per terra» (Gv 20,6), vide e credette. Ciò suppone che egli abbia constatato, dallo stato in cui si trovava il sepolcro vuoto, che l'assenza del corpo di Gesù non poteva essere opera umana e che Gesù non era semplicemente ritornato ad una vita terrena come era avvenuto per Lazzaro.

LE APPARIZIONI DEL RISORTO

641 - Maria di Magdala e le pie donne che andavano a completare l'im­balsamazione del corpo di Gesù, sepolto in fretta la sera del Venerdì Santo a causa del sopraggiungere del Sabato, sono state le prime ad incontrare il Risorto. Le donne furono così le prime messaggere della risurrezione di Cristo per gli stessi Apostoli. A loro Gesù appare in seguito: prima a Pietro, poi ai Dodici Pietro, chiamato a confermare la fede dei suoi fratelli, vede dunque il Risorto prima di loro ed è sulla sua testimonianza che la comunità esclama: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone» (Lc 24,34).

642 - Tutto ciò che è accaduto in quelle giornate pasquali impegna cia­scuno degli Apostoli e Pietro in modo del tutto particolare nella costruzione dell'era nuova che ha inizio con il mattino di pasqua. Co­me testimoni del Risorto essi rimangono le pietre di fondazione della sua Chiesa. La fede della prima comunità dei credenti è fondata sulla testimonianza di uomini concreti, conosciuti dai cristiani e, nella mag­gior parte, ancora vivi in mezzo a loro. Questi «testimoni della risurre­zione di Cristo» sono prima di tutto Pietro e i Dodici, ma non solamente loro: Paolo parla chiaramente di più di cinquecento persone alle quali Gesù è apparso in una sola volta, oltre che a Giacomo e a tutti gli Apostoli.

643 - Davanti a queste testimonianze è impossibile interpretare la risurrezione di Cristo al di fuori dell'ordine fisico e non riconoscerla come un avvenimento storico. Risulta dai fatti che la fede dei discepoli è stata sottoposta alla prova radicale della passione e della morte in croce del loro Maestro da lui stesso preannunziata. Lo sbigottimento provocato dalla passione fu così grande che i discepoli (almeno alcuni di loro) non credettero subito alla notizia della risurre­zione. Lungi dal presentarci una comunità presa da una esaltazione mistica, i Vangeli ci presentano i discepoli smarriti («tristi: Lc 24,17) e spaventati, perché non hanno creduto alle pie donne che tornavano dal sepolcro e «quelle parole parvero loro come un vaneggiamento» (Lc 24,1 1). Quando Gesù si manifesta agli Undici la sera di pasqua, li rimprovera «per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato» (Me 16,14).

644 - Anche messi davanti alla realtà di Gesù risuscitato, i discepoli dubitano ancora, tanto la cosa appare loro impossibile: credono di vedere un fantasma. «Per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti» (Lc 24,41). Tommaso conobbe la medesima prova del dubbio e, quando vi fu l'ultima ap­parizione in Galilea riferita da Matteo, «alcuni (...) dubitavano» (Mi 28,17). Per questo l'ipotesi secondo cui la risurrezione sarebbe stata un «prodotto» della fede (o della credulità) degli Apostoli non ha fondamento. Al contrario, la loro fede nella risurrezione è nata sotto l'azione della grazia divina - dall'e­sperienza diretta della realtà di Gesù risorto.

Lo STATO DELL'UMANITÀ DI CRISTO RISUSCITATA

645 - Gesù risorto stabilisce con i suoi discepoli rapporti diretti, attra­verso il contatto e la condivisione del pasto. Li invita a riconoscere da ciò che egli non è un fantasma, ma soprattutto a constatare che il corpo risuscitato con il quale si presenta a loro è il medesimo che è stato martoriato e crocifisso, poiché porta ancora i segni della passio­ne. Questo corpo autentico e reale possiede però al tempo stesso le proprietà nuove di un corpo glorioso; esso non è più situato nello spa­zio e nel tempo, ma può rendersi presente a suo modo dove e quando vuole, poiché la sua umanità non può più essere trattenuta sulla terra e ormai non appartiene che al dominio divino del Padre. Anche per questa ragione Gesù risorto è sovranamente libero di apparire come vuole: sotto l'aspetto di un giardiniere o «sotto altro aspetto» (Mc 16,12) diverso da quello che era familiare ai discepoli, e ciò per suscita­re la loro fede.

646 - La risurrezione di Cristo non fu un ritorno alla vita terrena, come lo fu per le risurrezioni che egli aveva compiute prima della pasqua: quelle della figlia di Giairo, del giovane di Naim, di Lazzaro. Questi fatti erano avvenimenti miracolosi, ma le persone miracolate ritrovava­no, per il potere di Gesù, una vita terrena «ordinaria». Ad un certo momento esse sarebbero morte di nuovo. La risurrezione di Cristo è es­senzialmente diversa. Nel suo corpo risuscitato egli passa dallo stato di morte ad un'altra vita al di là del tempo e dello spazio. Il corpo di Ge­sù è, nella risurrezione, colmato della potenza dello Spirito Santo; par­tecipa alla vita divina nello stato della sua gloria, sì che san Paolo può dire di Cristo che egli è l'uomo celeste.

LA RISURREZIONE COME EVENTO TRASCENDENTE

647 - «O notte beata - canta l'«Exultet» di Pasqua, tu solo hai me­ritato di conoscere il tempo e l'ora in cui Cristo è risorto dagli infe­ri. Infatti, nessuno è stato testimone oculare dell'avvenimento stesso della risurrezione e nessun Evangelista lo descrive. Nessuno ha potuto dire come essa sia avvenuta fisicamente. Ancor meno fu percettibile ai sensi la sua essenza più intima, il passaggio ad un'altra vita. Avveni­mento storico constatabile attraverso il segno del sepolcro vuoto e la realtà degli incontri degli Apostoli con Cristo risorto, la risurrezione re­sta non di meno, in ciò in cui trascende e supera la storia, nel cuore del mistero della fede. Per questo motivo Cristo risorto non si manife­sta al mondo, ma ai suoi discepoli, «a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme», i quali «ora sono i suoi testimoni davanti al popolo» (At 13,31)

Il. La risurrezione - opera della Santissima Trinità.

648 - La risurrezione di Cristo è oggetto di fede in quanto è un intervento trascendente di Dio stesso nella creazione e nella storia. In essa, le tre Persone divine agiscono insieme e al tempo stesso manifestano la loro propria originalità. Essa si è compiuta per la potenza del Padre che «ha risuscitato» (At 2,24) Cristo, suo Figlio, e in questo modo ha introdotto in maniera perfetta la sua umanità con il suo corpo nella Trinità. Gesù viene definitivamente «costituito Figlio di Dio con poten­za secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti» (Rm 1,4). San Paolo insiste sulla manifestazione della potenza di Dio per opera dello Spirito che ha vivificato l'umanità morta di Gesù e l'ha chiamata allo stato glorioso di Signore.

649 - Quanto al Figlio, egli opera la sua propria risurrezione in virtù della sua potenza divina. Gesù annunzia che il Figlio dell'uomo dovrà molto soffrire, morire ed in seguito risuscitare (senso attivo della paro­la). Altrove afferma esplicitamente: «Io offro la mia vita, per poi ri­prenderla... ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla» (Gv 10,17-18). «Noi crediamo... che Gesù è morto e risuscitato» (1 Ts 4,14).

650 - I Padri contemplano la risurrezione a partire dalla Persona divina di Cristo che è rimasta unita alla sua anima e al suo corpo separati tra loro dalla morte: «Per l'unità della natura divina che permane pre­sente in ciascuna delle due parti dell'uomo, queste si riuniscono di nuovo. Così la morte si è prodotta per la separazione del composto umano e la risurrezione per l'unione delle due parti separate.

III. Senso e portata salvifica della risurrezione.

651 - «Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione e vana anche la vostra fede» (1 Cor 15,14). La risurrezione costituisce anzitutto la conferma di tutto ciò che Cristo stesso ha fatto e insegna­to. Tutte le verità, anche le più inaccessibili allo spirito umano, trovano la loro giustificazione se, risorgendo, Cristo ha dato la prova definitiva, che aveva promesso, della sua autorità divina.

652 - La risurrezione di Cristo è compimento delle promesse dell'Antico Testamento e di Gesù stesso durante la sua vita terrena. L'espressio­ne «secondo le Scritture» indica che la risurrezione di Cristo realizzò queste predizioni.

653 - La verità della divinità di Gesù è confermata dalla sua risurrezio­ne. Egli aveva detto: «Quando avrete innalzato il Figlio dell'uomo, al­lora saprete che Io Sono» (Gv 8,28). La risurrezione del Crocifisso di­mostrò che egli era veramente «Io Sono», il Figlio di Dio e Dio egli stesso. San Paolo ha potuto dichiarare ai Giudei: «La promessa fatta ai nostri padri si è compiuta, poiché Dio l'ha attuata per noi, loro figli, risuscitando Gesù, come anche sta scritto nel salmo secondo: Mio Figlio sei tu, oggi ti ho generato» (At l3,32-33). La risurrezione di Cristo è strettamente legata al mistero dell'incarnazione del Figlio di Dio. Ne è il compimento secondo il disegno eterno di Dio.

654 - Vi è un duplice aspetto nel mistero pasquale: con la sua morte Cristo ci libera dal peccato, con la sua risurrezione ci dà accesso ad una nuova vita. Questa è dapprima la giustificazione che ci mette nuo­vamente nella grazia di Dio «perché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo cammi­nare in una vita nuova» (Rm 6,4). Essa consiste nella vittoria sulla morte del peccato e nella nuova partecipazione alla grazia. Essa com­pie l'adozione filiale poiché gli uomini diventano fratelli di Cristo, come Gesù stesso chiama i suoi discepoli dopo la sua risurrezione: «Andate ad annunziare ai miei fratelli» (Mt 28,l0). Fratelli non per natura, ma per dono della grazia, perché questa filiazione adottiva procura una reale partecipazione alla vita del Figlio unico, la quale si è pienamente rivelata nella sua risurrezione.

655 - Infine, la risurrezione di Cristo e lo stesso Cristo risorto è principio e sorgente della nostra risurrezione futura: «Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti (...); e in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo» (1 Cor 15,20-22). Nell'attesa di questo compimento, Cristo risuscitato vive nel cuore dei suoi fedeli. In lui i cristiani gustano «le meraviglie del mondo futuro» (Eb 6,5) e la loro vita è trasportata da Cristo nel seno della vita divi­na: «Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2 Cor 5,15).

In sintesi

656 - La fede nella risurrezione ha per oggetto un avvenimento che è stori­camente attestato dai discepoli i quali hanno realmente incontrato il Risorto, e che è insieme misteriosamente trascendente in quanto l'umanità di Cristo entra nella gloria di Dio. 657 - La tomba vuota e le bende per terra significano già per se stesse che il corpo di Cristo è sfuggito ai legami della morte e della corruzione, per la potenza di Dio. Esse preparano i discepoli all'incontro con il Risorto.

658 - Cristo, «il primogenito di coloro che risuscitano dai morti» (Col l,18), è il principio della nostra risurrezione, fin d'ora per la giustificazione della nostra anima, più tardi per la vivificazione del nostro corpo.

Articolo 6

«GESU SALI AL CIELO, SIEDE ALLA DESTRA DI DIO PADRE ONNIPOTENTE»

659 - «Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio» (Mc 16,19). Il corpo di Cristo è stato glorificato fin dall'istante della sua risurrezione, come lo provano le pro­prietà nuove e soprannaturali di cui ormai gode in permanenza. Ma durante i quaranta giorni nei quali egli mangia e beve familiarmente con i suoi discepoli e li istruisce sul Regno, la sua gloria resta anco­ra velata sotto i tratti di una umanità ordinaria. L'ultima apparizione di Gesù termina con l'entrata irreversibile della sua umanità nella gloria divina simbolizzata dalla nube e dal cielo ove egli siede ormai alla destra di Dio. In un modo del tutto eccezionale ed unico egli si mo­strerà a Paolo «come a un aborto» (1 Cor 15,8) in un'ultima appari­zione che costituirà Apostolo Paolo stesso.

660 - Il carattere velato della gloria del Risorto durante questo tempo traspare nelle sue misteriose parole a Maria Maddalena: «Non sono ancora salito al Padre: ma và dai miei fratelli e dì loro: lo salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro» (Gv 20,17). Questo indica una differenza di manifestazione tra la gloria di Cristo risorto e quella di Cristo esaltato alla destra del Padre. L'avvenimento ad un tempo storico e trascendente dell'ascensione segna il passaggio dall'una all'altra.

661 - Quest'ultima tappa rimane strettamente unita alla prima, cioè alla discesa dal cielo realizzata nell'incarnazione. Solo colui che è «uscito dal Padre» può far ritorno al Padre: Cristo. «Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell'uomo che è disceso dal cielo» (Gv 3,13). Lasciata alle sue forze naturali, l'umanità non ha accesso alla «casa del Padre» alla vita e alla felicità di Dio. Soltanto Cristo ha potuto aprire all'uomo questo accesso «per darci la serena fiducia che dove è lui, Capo e Primogenito, saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria.

662 - «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). L'elevazione sulla croce significa e annunzia l'elevazione del­l'ascensione al cielo. Essa ne è l'inizio. Gesù Cristo, l'unico Sacerdote della nuova ed eterna Alleanza, «non è entrato in un santuario fatto da mani d'uomo (...), ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore» (Eb 9,24). In cielo Cristo esercita il suo sacer­dozio in permanenza, «essendo egli sempre vivo per intercedere» a favore di «quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio» (Eb 7,25). Come «sommo Sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), egli è il centro e l'attore principale della liturgia che onora il Padre nei cieli.

663 - Cristo, ormai, siede alla destra del Padre: «Per destra del Padre intendiamo la gloria e l'onore della divinità, ove colui che esisteva co­me Figlio di Dio prima di tutti i secoli, come Dio è consostanziale al Padre, s'è assiso corporalmente dopo che si è incarnato e la sua carne è stata glorificata.

664 - L'essere assiso alla destra del Padre significa l'inaugurazione del regno del Messia, compimento della visione del profeta Daniele riguar­dante il Figlio dell'uomo: «(Il Vegliardo) gli diede potere, gloria e re­gno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un po­tere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto» (Dn 7,14). A partire da questo momento, gli Apostoli sono divenuti i testimoni del «regno che non avrà fine».

In sintesi

665 - L'ascensione di Cristo segna l'entrata definitiva dell'umanità di Gesù nel dominio celeste di Dio, da dove ritornerà, ma che nel frattempo lo cela agli occhi degli uomini.

666 - Gesù Cristo, Capo della Chiesa, ci precede nel regno glorioso del Padre perché noi, membra del suo corpo, viviamo nella speranza di essere un giorno eternamente con lui.

667 - Gesù Cristo, essendo entrato una volta per tutte nel santuario del cielo, intercede incessantemente per noi come il Mediatore che ci assicura la perenne effusione dello Spirito Santo.

Articolo 7

«DI LÀ VERRÀ A GIUDICARE I VIVI E I MORTI».

I. «Di nuovo verrà, nella gloria».

CRISTO REGNA GIÀ ATTRAVERSO LA CHIESA

668 - «Per questo Cristo è morto e ritornato alla vita: per essere il Si­gnore dei morti e dei vivi» (Rm 14,9). L'ascensione di Cristo al cielo significa la sua partecipazione, nella sua umanità, alla potenza e all'au­torità di Dio stesso. Gesù Cristo è Signore: egli detiene tutto il potere nei cieli e sulla terra. Egli è «al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione» perché il Padre «tutto ha sottomesso ai suoi piedi» (Ef 1,21-22). Cristo è il Signore del cosmo e della sto­ria. In lui la storia dell'uomo come pure tutta la creazione trovano la loro «ricapitolazione», il loro compimento trascendente.

669 - Come Signore, Cristo è anche il Capo della Chiesa che è il suo corpo. Elevato al cielo e glorificato, avendo così compiuto pienamente la sua missione, egli permane sulla terra, nella sua Chiesa. La redenzio­ne è la sorgente dell'autorità che Cristo, in virtù dello Spirito Santo, esercita sulla Chiesa, la quale è «il regno di Cristo già presente in mistero. La Chiesa «di questo regno costituisce in terra il germe e l'inizio».

670 - Dopo l'ascensione, il disegno di Dio è entrato nel suo compimen­to. Noi siamo già nell'«ultima ora» (1 Gv 2,18). «Già dunque è arri­vata a noi l'ultima fase dei tempi e la rinnovazione del mondo è stata irrevocabilmente fissata e in un certo modo è realmente anticipata in questo mondo; difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di una santità vera, anche se imperfetta». Il regno di Cristo manifesta già la sua presenza attraverso i segni miracolosi che ne accompagnano l'annun­zio da parte della Chiesa.

NELL ATTESA CHE TUTTO SIA A LUI SOTTOMESSO

671 - Già presente nella sua Chiesa, il regno di Cristo non è tuttavia ancora compiuto «con potenza e gloria grande» (Lc 21,27) mediante la venuta del Re sulla terra. Questo regno è ancora insidiato dalle potenze inique, anche se esse sono già state vinte radicalmente dalla pasqua di Cristo. Fino al momento in cui tutto sarà a lui sottomesso, «fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora, la Chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istitu­zioni, che appartengono all'età presente, porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e attendono la manifestazione dei figli di Dio». Per questa ragione i cristiani pregano, soprattutto nell'Eucaristia, per affrettare il ritorno di Cristo dicendogli: «Vieni, Signore» (Ap 22,20).

672 - Prima dell'ascensione Cristo ha affermato che non era ancora giunto il momento del costituirsi glorioso del regno messianico atteso da Israele, regno che doveva portare a tutti gli uomini, secondo i pro­feti, l'ordine definitivo della giustizia, dell'amore e della pace. Il tempo presente è, secondo il Signore, il tempo dello Spirito e della testimo­nianza, - ma anche un tempo ancora segnato dalla necessità e dalla prova del male, che non risparmia la Chiesa e inaugura i combattimenti degli ultimi tempi. É un tempo di attesa e di vigilanza.

LA VENUTA GLORIOSA DI CRISTO, SPERANZA DI ISRAELE

673 - Dopo l'ascensione, la venuta di Cristo nella gloria è imminente, anche se non spetta a noi «conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta» (At l,7). Questa venuta escatologica può compiersi in qualsiasi momento. La venuta del Messia glorioso è sospesa in ogni momento della storia al riconoscimento di lui da parte di «tutto Israele» (Rm 11,26) a causa dell'indurimento di una parte nella «mancanza di fe­de» (Rm 11,20) verso Gesù. San Pietro dice agli Ebrei di Gerusalemme dopo la pentecoste: «Pentitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consola­zione da parte del Signore ed egli mandi quello che vi aveva destinato come Messia, cioè Gesù. Egli dev'essere accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose, come ha detto Dio fin dall'antichità, per bocca dei suoi santi profeti» (At 3,19-21). E san Paolo gli fa eco: «Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione se non una risurrezione dai mor­ti?» (Rm 11,15). La partecipazione totale degli Ebrei alla salvezza messianica a seguito della partecipazione totale dei pagani permetterà al popolo di Dio di arrivare «alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13) nella quale «Dio sarà tutto in tutti» (I Cor 15,28).

L'ULTIMA PROVA DELLA CHIESA

675 - Prima della venuta di Cristo, la Chiesa deve passare attraverso una prova finale che scuoterà la fede di molti credenti. La persecuzio­ne che accompagna il suo pellegrinaggio sulla terra svelerà il «mistero di iniquità» sotto la forma di una impostura religiosa che offre agli uo­mini una soluzione apparente ai loro problemi, al prezzo dell'apostasia dalla verità. La massima impostura religiosa è quella dell'Anti-Cristo, cioè di uno pseudo-messianismo in cui l'uomo glorifica se stesso al po­sto di Dio e del suo Messia venuto nella carne.

676 - Questa impostura anti-cristica si delinea già nel mondo ogniqualvolta si pretende di realizzare nella storia la speranza messianica che non può essere portata a compimento se non al di là di essa, attraverso il giudizio escatologico; anche sotto la sua forma mitigata, la Chiesa ha rigettato questa falsificazione del regno futuro sotto il nome di millenarismo, soprattutto sotto la forma politica di un messianismo secolarizzato «intrinsecamente perverso».

677 - La Chiesa non entrerà nella gloria del Regno che attraverso que­st’ultima pasqua, nella quale seguirà il suo Signore nella sua morte e re­surrezione. Il Regno non si compirà dunque attraverso un trionfo sto­rico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male che farà discende­re dal cielo la sua Sposa. Il trionfo di Dio sulla rivolta del male pren­derà la forma dell'ultimo giudizio dopo l'ultimo sommovimento cosmico di questo mondo che passa.

Il. Per giudicare i vivi e i morti.

678 - In linea con i profeti e con Giovanni Battista Gesù ha annun­ziato nella sua predicazione il giudizio dell'ultimo giorno. Allora saran­no messi in luce la condotta di ciascuno e il segreto dei cuori. Allora verrà condannata l'incredulità colpevole che non ha tenuto in alcun Credo in Gesù Cristo, unico Figlio di Dio conto la grazia offerta da Dio. L'atteggiamento verso il prossimo rive­lerà l'accoglienza o il rifiuto della grazia e dell'amore divino. Gesù di­rà nell'ultimo giorno: «Ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Mt 25,40).

679 - Cristo è Signore della vita eterna. Il pieno diritto di giudicare de­finitivamente le opere e i cuori degli uomini appartiene a lui in quanto Redentore del mondo. Egli ha «acquisito» questo diritto con la sua croce. Anche il Padre «ha rimesso ogni giudizio al Figlio» (Gv 5,22). Ora, il Figlio non è venuto per giudicare, ma per salvare e per donare la vita che è in lui. È per il rifiuto della grazia nella vita presente che ognuno si giudica già da se stesso, riceve secondo le sue opere e può anche condannarsi per l'eternità rifiutando lo Spirito d'amore.

In sintesi

680 - Cristo Signore regna già attraverso la Chiesa, ma tutte le cose di questo mondo non gli sono ancora sottomesse. Il trionfo del regno di Cristo non avverrà senza un ultimo assalto delle potenze del male.

681 - Nel giorno del giudizio, alla fine del mondo, Cristo verrà nella gloria per dare compimento al trionfo definitivo del bene sul male che, come il grano e la zizzania, saranno cresciuti insieme nel corso della storia.

682 - Cristo glorioso, venendo alla fine dei tempi a giudicare i vivi e i mor­ti, rivelerà la disposizione segreta dei cuori e renderà a ciascun uomo secondo le sue opere e secondo l'accoglienza o il rifiuto della grazia.

CAPITOLO TERZO

CREDO NELLO SPIRITO SANTO

683 - «Nessuno può dire:”Gesù è Signore” se non sotto l'azione dello Spirito Santo» (I Cor 12,3). «Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!» (Gal 4,6). Questa conoscenza di fede è possibile solo nello Spirito Santo. Per essere in contatto con Cristo, bisogna dapprima essere stati toccati dallo Spirito Santo. E’ lui che ci precede e suscita in noi la fede. In forza del nostro Battesimo, primo sacramento della fede, la vita, che ha la sua sorgente nel Padre e ci è offerta nel Figlio, ci viene comunicata intimamente e personalmente dallo Spirito Santo nella Chiesa: Il Battesimo «ci accorda la grazia della nuova nascita in Dio Padre per mezzo del Figlio suo nello Spirito Santo. Infatti coloro che hanno lo Spirito di Dio sono condotti al Verbo, ossia al Figlio; ma il Figlio li presenta al Padre, e il Padre procura loro l'incorruttibilità. Dunque, senza lo Spirito, non è possibile vedere il Figlio di Dio, e, senza il Fi­glio, nessuno può avvicinarsi al Padre, perché la conoscenza del Padre è il Figlio. e la conoscenza del Figlio di Dio avviene per mezzo dello Spirito Santo».

684 - Lo Spirito Santo con la sua grazia è il primo nel destare la nostra fede e nel suscitare la vita nuova che consiste nel conoscere il Padre e colui che ha mandato, Gesù Cristo. Tuttavia è l'ultimo nella rivelazio­ne delle Persone della Santa Trinità. San Gregorio Nazianzeno, «il Teologo», spiega questa progressione con la pedagogia della «condi­scendenza» divina: «L'Antico Testamento proclamava chiaramente il Padre, più oscura­mente il Figlio. Il Nuovo ha manifestato il Figlio, ha fatto intravvedere la divinità dello Spirito. Ora lo Spirito ha diritto di cittadinanza in mezzo a noi e ci accorda una visione più chiara di se stesso. Infatti non era prudente. quando non si professava ancora la divinità del Padre, proclamare apertamente il Figlio e, quando non era ancora ammessa la divinità del Figlio, aggiungere lo Spirito Santo come un fardello supplementare, per usare un'espressione un po' ardita. [...] Solo attraverso un cammino di avanzamento e di progresso “di gloria in gloria”, la luce della Trinità sfolgorerà in più brillante trasparenza».

685 - Credere nello Spirito Santo significa dunque professare che lo Spirito Santo è una delle Persone della Santa Trinità, consostanziale al Padre e al Figlio, «con il Padre e il Figlio adorato e glorificato». Per questo motivo si è trattato del mistero divino dello Spirito Santo nella «teologia» trinitaria. Qui, dunque, si considererà lo Spirito Santo solo nell'«economia» divina.

686 - Lo Spirito Santo è all'opera con il Padre e il Figlio dall'inizio al compimento del disegno della nostra salvezza. Tuttavia è solo negli «ultimi tempi», inaugurati con l'incarnazione redentrice del Figlio, che egli viene rivelato e donato, riconosciuto e accolto come Persona. Allo­ra questo disegno divino, compiuto in Cristo, «Primogenito» e Capo della nuova creazione, potrà realizzarsi nell'umanità con l'effusione del­lo Spirito: la Chiesa, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la risurrezione della carne, la vita eterna.

Articolo 8

«CREDO NELLO SPIRITO SANTO»

687 - «I segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio» (1 Cor 2,11). Ora, il suo Spirito, che lo rivela, ci fa co­noscere Cristo, suo Verbo, sua Parola vivente, ma non manifesta se stesso. Colui che «ha parlato per mezzo dei profeti» ci fa udire la parola del Padre. Lui, però, non lo sentiamo. Non lo conosciamo che nel movimento in cui ci rivela il Verbo e ci dispone ad accoglierlo nella fede. Lo Spirito di verità che ci svela Cristo non parla da sé. Un tale annientamento, propriamente divino, spiega il motivo per cui «il mon­do non può ricevere» lo Spirito, «perché non lo vede e non lo cono­sce» (Gv 14,l7), mentre coloro che credono in Cristo lo conoscono per­ché dimora presso di loro.

688 - La Chiesa, comunione vivente nella fede degli Apostoli che essa trasmette, è il luogo della nostra conoscenza dello Spirito Santo: nelle Scritture, che egli ha ispirato; nella Tradizione, di cui i Padri della Chiesa sono i testimoni sempre attuali; nel Magistero della Chiesa, che egli assiste; nella liturgia sacramentale, attraverso le sue parole e i suoi sim­boli, in cui lo Spirito Santo ci mette in comunione con Cristo; nella preghiera, nella quale intercede per noi; nei carismi e nei ministeri per mezzo dei quali si edifica la Chiesa; nei segni di vita apostolica e missionaria; nella testimonianza dei santi, in cui egli manifesta la sua santità e continua l'opera della salvezza.

I. La missione congiunta del Figlio e dello Spirito.

689 - Colui che il Padre ha mandato nei nostri cuori, lo Spirito del suo Figlio, è realmente Dio. Consostanziale al Padre e al Figlio, ne è inse­parabile, tanto nella vita intima della Trinità quanto nel suo dono d'a­more per il mondo. Ma adorando la Santissima Trinità, vivificante, consostanziale e indivisibile, la fede della Chiesa professa anche la distinzione delle Persone. Quando il Padre invia il suo Verbo, invia sem­pre il suo Soffio: missione congiunta in cui il Figlio e lo Spirito Santo sono distinti ma inseparabili. Certo, è Cristo che appare, egli, l'immagi­ne visibile del Dio invisibile, ma è lo Spirito Santo che lo rivela.

690 - Gesù è Cristo, «unto», perché lo Spirito ne è l'unzione, e tutto ciò che avviene a partire dall'incarnazione sgorga da questa pienezza. Infine, quando Cristo è glorificato, può, a sua volta, dal Padre, invia­re lo Spirito a coloro che credono in lui: comunica loro la sua gloria, cioè lo Spirito Santo che lo glorifica. La missione congiunta si dispie­gherà da allora in poi nei figli adottati dal Padre nel corpo del suo Figlio: la missione dello Spirito di adozione sarà di unirli a Cristo e di farli vivere in lui: «La nozione di unzione suggerisce […] che non c'è alcuna distanza tra il Figlio e lo Spirito. Infatti, come tra la superficie del corpo e l'unzio­ne dell'olio né la ragione né la sensazione conoscono intermediari, così è immediato il contatto del Figlio con lo Spirito; di conseguenza colui che sta per entrare in contatto con il Figlio mediante la fede, deve ne­cessariamente dapprima entrare in contatto con l'olio. Nessuna parte infatti è priva dello Spirito Santo. Ecco perché la confessione della signoria del Figlio avviene nello Spirito Santo per coloro che la ricevo­no, dato che lo Spirito Santo viene da ogni parte incontro a coloro che si approssimano per la fede.

l. Il nome, gli appellativi e i simboli dello Spirito Santo.

IL NOME PROPRIO DELLO SPIRITO SANTO

691 - «Spirito Santo», tale è il nome proprio di colui che noi adoria­mo e glorifichiamo con il Padre e il Figlio. La Chiesa lo ha ricevuto dal Signore e lo professa nel Battesimo dei suoi nuovi figli. Il termine «Spirito» traduce il termine ebraico Ruah, che nel suo senso primario significa soffio, aria, vento. Gesù utilizza proprio l'immagine sensibile del vento per suggerire a Nicodemo la novità trascendente di colui che è il Soffio di Dio, lo Spirito divino in persona. D’altra parte, Spirito e Santo sono attri­buti divini comuni alle tre Persone divine. Ma, congiungendo i due termini, la Scrittura, la liturgia e il linguaggio teologico designano la Persona ineffabile dello Spirito Santo, senza possibilità di equivoci con gli altri usi dei termini «spirito e «santo».

GLI APPELLATIVI DELLO SPIRITO SANTO

692 - Gesù, quando annunzia e promette la venuta dello Spirito Santo, lo chiama letteralmente: «Colui che è chiamato vicino», «ad-vocatus» (Gv 14,16.26; 15,26; 16,7). Viene abitualmente tradotto «Consolatore», essendo Gesù il primo consolatore. Il Signore stesso chiama lo Spirito Santo «Spirito di verità» (Gv 16,13).

693 - Oltre al suo nome proprio, che è il più usato negli Atti degli Apostoli e nelle Lettere, in san Paolo troviamo gli appellativi: «Spirito promesso (Ef 1,13; GaI 3,14), «Spirito da figli adottivi» (Rm 8,15; Gai 4,6), «Spirito di Cristo» (Rm 8,9), «Spirito del Signore» (2 Cor 3,17), «Spirito di Dio» (Rm 8,9.14; 15,19;] Cor 6,11; 7,40) e, in san Pietro, «Spirito della gloria» (1 Pt 4,14).

I SIMBOLI DELLO SPIRITO SANTO

694 - L'acqua. Il simbolismo dell'acqua significa l'azione dello Spirito Santo nel Battesimo, poiché dopo l'invocazione dello Spirito Santo essa diviene il segno sacramentale efficace della nuova nascita: come la gestazione della nostra prima nascita si è operata nell'acqua, allo stesso modo l'acqua battesimale significa realmente che la nostra nascita alla vita divina ci è donata nello Spirito Santo. Ma, «battezzati in un solo Spirito», noi «ci siamo» anche «abbeverati a un solo Spirito» (1 Cor 12,13): lo Spirito, dunque, è anche personalmente l'Acqua viva che scaturisce da Cristo crocifisso come dalla sua sorgente e che in noi zampilla per la vita eterna.

695 - L'unzione. Il simbolismo dell'unzione con l'olio è talmente significativo dello Spirito Santo da divenirne il sinonimo. Nell'iniziazione cristiana essa è il segno sacramentale della Confermazione, chiamata giustamente nelle Chiese d'Oriente «Crismazione». Ma per coglierne tutta la forza, bisogna tornare alla prima unzione compiuta dallo Spirito Santo: quella di Gesù. Cristo («Messia» in ebraico) significa «unto» dallo Spirito di Dio. Nell'Antica Alleanza ci sono stati alcuni « unti» del Signore, primo fra tutti il re Davide. Ma Gesù è l'un­to di Dio in una maniera unica: l'umanità che il Figlio assume è totalmente «unta di Spirito Santo». Gesù è costituito «Cristo» dallo Spirito Santo. La Vergine Maria concepisce Cristo per opera dello Spirito Santo, il quale, attra­verso l'angelo, lo annunzia come Cristo fin dalla nascita e spinge Simeone ad andare al Tempio per vedere il Cristo del Signore; è lui che ricolma Cristo, è sua la forza che esce da Cristo negli atti di guarigione e di risanamento. E’ lui, infine, che risuscita Cristo dai morti. Allora, costituito pienamente «Cristo o nella sua umanità vittoriosa della morte, Gesù effonde a profusione lo Spirito Santo, finché «i santi» costituiranno, nella loro unione all'umanità del Figlio di Dio, l'«uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13): «il Cristo totale», secondo l'espressione di sant'Agostino.

696 - Il fuoco. Mentre l'acqua significava la nascita e la fecondità della vita do­nata nello Spirito Santo, il fuoco simbolizza l'energia trasformante degli atti dello Spirito Santo. Il profeta Elia, che «sorse simile al fuoco» e la cui «paro­la bruciava come fiaccola» (Sir 48,1), con la sua preghiera attira il fuoco del cielo sul sacrificio del monte Carmelo, figura del fuoco dello Spirito Santo che trasforma ciò che tocca. Giovanni Battista, che cammina innanzi al Signore «con lo spirito e la forza di Elia» (Lc 1,17), annunzia Cristo come colui che «battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (Lc 3,16), quello Spirito di cui Gesù di­rà: «Sono venuto a portare il fuoco sulla terra; e come vorrei che fosse già ac­ceso!» (Lc 12,49). É sotto la forma di «lingue come di fuoco» che lo Spirito Santo si posa sui discepoli il mattino di pentecoste e li riempie di sé. La tradi­zione spirituale riterrà il simbolismo del fuoco come uno dei più espressivi del­l'azione dello Spirito Santo: «Non spegnete lo Spirito» (1 Ts 5,19).

697 - La nube e la luce. Questi due simboli sono inseparabili nelle manifestazio­ni dello Spirito Santo. Fin dalle teofanie dell'Antico Testamento, la nube, ora oscura, ora luminosa, rivela il Dio vivente e salvatore, velando la trascendenza della sua gloria: con Mosé sul monte Sinai, presso la tenda del convegno e durante il cammino nel deserto; con Salomone al momento della dedicazione del Tempio. Ora, queste figure sono portate a compimento da Cristo nello Spirito Santo. É questi che scende sulla Vergine Maria e su di lei stende la «sua ombra», affinché ella concepisca e dia alla luce Gesù. Sulla montagna della trasfigurazione è lui che viene nella nube che avvolge Gesù, Mosè e Elia, Pietro, Giacomo e Giovanni, e «dalla nube» esce una voce che dice: «Questi è il mio Figlio, l'eletto; ascoltatelo» (Lc 9,35). Infine, è la stessa nube che sottrae Gesù allo sguardo dei discepoli il giorno dell'ascensione e che lo rivelerà Figlio dell'uomo nella sua gloria il giorno della sua venuta.

698 - Il sigillo è un simbolo vicino a quello dell'unzione. Infatti su Cristo «Dio ha messo il suo sigillo» (Gv 6,27), e in lui il Padre segna anche noi con il suo sigillo. Poiché indica l'effetto indelebile dell'unzione dello Spirito Santo nei sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell'Ordine, l'immagine del sigil­lo è stata utilizzata in certe tradizioni teologiche per esprimere il «carattere» indelebile impresso da questi tre sacramenti che non possono essere ripetuti.

699 - La mano. Imponendo le mani Gesù guarisce i malati e benedice i bambi­ni. Nel suo nome, gli Apostoli compiranno gli stessi gesti. Ancor di più, è mediante l'imposizione delle mani da parte degli Apostoli che viene donato lo Spirito Santo. La lettera agli Ebrei mette l'imposizione delle mani tra gli «ar­ticoli fondamentali» del suo insegnamento. La Chiesa ha conservato questo segno dell'effusione onnipotente dello Spirito Santo nelle epiclesi sacramentali.

700 - Il dito. «Con il dito di Dio» Gesù scaccia «i demoni». Se la Legge di Dio è stata scritta su tavole di pietra «dal dito di Dio» (Es 31,18), «la lettera di Cristo», affidata alle cure degli Apostoli, è «scritta con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei [...] cuori» (2 Cor 3,3). L'inno «Veni, Creator Spirituso invoca lo Spirito Santo come «dexterae Dei tu digitus - dito della mano di Dio».

701 - La colomba. Alla fine del diluvio (il cui simbolismo riguarda il Battesimo), la colomba fatta uscire da Noé torna, portando nel becco un freschissimo ra­moscello d'ulivo, segno che la terra è di nuovo abitabile. Quando Cristo risale dall'acqua del suo battesimo, lo Spirito Santo, sotto forma di colomba, scende su di lui e in lui rimane. Lo Spirito scende e prende dimora nel cuore purifi­cato dei battezzati. In alcune chiese, la santa Riserva eucaristica è conservata in una custodia metallica a forma di colomba (il columbarium) appesa al di sopra dell'altare. Il simbolo della colomba per indicare lo Spirito Santo è tradizionale nell'iconografia cristiana.

III. Lo Spirito e la Parola di Dio nel tempo delle promesse.

702 - Dalle origini fino alla «pienezza del tempo », la missione con­giunta del Verbo e dello Spirito del Padre rimane nascosta, ma è al­l'opera. Lo Spirito di Dio va preparando il tempo del Messia, e l'uno e l'altro, pur non essendo ancora pienamente rivelati, vi sono già promes­si, affinché siano attesi e accolti al momento della loro manifestazione. Per questo, quando la Chiesa legge l'Antico Testamento, vi cerca ciò che lo Spirito, «che ha parlato per mezzo dei profeti» vuole dirci di Cristo. Con il termine «profeti» la fede della Chiesa intende in questo caso tutti colo­ro che furono ispirati dallo Spirito Santo nel vivo annuncio e nella redazione dei Libri Sacri, sia dell'Antico sia del Nuovo Testamento. La tradizione ebraica distingue la Legge (i primi cinque libri o Pentateuco), i Profeti (corrispondenti ai nostri libri detti storici e profetici) e gli Scritti (soprattutto sapienziali, in particolare i Salmi).

NELLA CREAZIONE

703 - La Parola di Dio e il suo Soffio sono all'origine dell'essere e della vita di ogni creatura: «È proprio dello Spirito Santo governare, santificare e animare la crea­zione, perché egli e Dio consostanziale al Padre e al Figlio [...]. Egli ha potere sulla vita, perché, essendo Dio, custodisce la creazione nel Padre per mezzo del Figlio.

704 - «Quanto all'uomo, Dio l'ha plasmato con le sue proprie mani (cioè il Figlio e lo Spirito Santo) (...) e sulla carne plasmata disegnò la sua propria forma, in modo che anche ciò che era visibile portasse la forma divina».

LO SPIRITO DELLA PROMESSA

705 - Sfigurato dal peccato e dalla morte, l'uomo rimane «a immagine di Dio», a immagine del Figlio, ma è privo «della gloria di Dio, della «somiglianza». La Promessa fatta ad Abramo inaugura l'Econo­mia della salvezza, al termine della quale il Figlio stesso assumerà «l'immagine» e la restaurerà nella «somiglianza o con il Padre, ridonandole la gloria, lo Spirito «che dà la vita».

706 - Contro ogni speranza umana, Dio promette ad Abramo una discen­denza, come frutto della fede e della potenza dello Spirito Santo. In essa saranno benedetti tutti i popoli della terra. Questa discendenza sarà Cri­sto, nel quale l'effusione dello Spirito Santo riunirà insieme i figli di Dio che erano dispersi. Impegnandosi con giuramento, Dio si impegna già al dono del suo Figlio Prediletto e al dono dello Spirito della Promessa che prepara la redenzione del popolo che Dio si è acquistato».

NELLE TEOFANIE E NELLA LEGGE

707 - Le teofanie (manifestazioni di Dio) illuminano il cammino della Pro­messa, dai patriarchi a Mosè e da Giosuè fino alle visioni che inaugurano la missione dei grandi profeti. La tradizione cristiana ha sempre ricono­sciuto che in queste teofanie si lasciava vedere e udire il Verbo di Dio, ad un tempo rivelato e «adombrato» nella nube dello Spirito Santo.

708 - Questa pedagogia di Dio appare specialmente nel dono della Leg­ge, la quale è stata donata come un «pedagogo» per condurre il popolo a Cristo. Tuttavia, la sua impotenza a salvare l'uomo, privo della «somiglianza» divina, e l'accresciuta conoscenza del peccato che da es­sa deriva suscitano il desiderio dello Spirito Santo. I gemiti dei salmi lo testimoniano.

NEL REGNO E NELL'ESILIO

709 - La Legge, segno della Promessa e dell'Alleanza, avrebbe dovuto reggere il cuore e le istituzioni del popolo nato dalla fede di Abramo. «Se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia alleanza, sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es l9,5~6). Ma, dopo Davide, Israele cede alla tentazione di divenire un regno come le altre nazioni. Ora il regno, oggetto della promessa fatta a Davide, sarà opera dello Spirito Santo e apparterrà ai poveri secondo lo Spirito.

710 - La dimenticanza della Legge e l'infedeltà all'Alleanza conducono alla morte: è l'esilio, apparente smentita delle promesse, di fatto miste­riosa fedeltà del Dio salvatore e inizio della restaurazione promessa, ma secondo lo Spirito. Era necessario che il popolo di Dio subisse questa purificazione; l'esilio immette già l'ombra della croce nel disegno di Dio, e il resto dei poveri che ritorna dall'esilio è una delle figure più trasparenti della Chiesa.

L'ATTESA DEL MESSIA E DEL SUO SPIRITO

711 - «Ecco, faccio una cosa nuova» (Is 43,19). Cominciano a deli­nearsi due linee profetiche, fondate l'una sull'attesa del Messia, l'altra sull'annunzio di uno Spirito nuovo; esse convergono sul piccolo «resto», il popolo dei poveri, che attende nella speranza il «conforto d'Israele» e la «redenzione di Gerusalemme» (Lc 2,25.38). Si è visto precedentemente come Gesù compia le profezie che lo riguardano. Qui ci si limita a quelle in cui è più evidente la relazione fra il Messia e il suo Spinto.

712 - I tratti del volto del Messia atteso cominciano a emergere nel Libro dell'Emmanuele (quando «Isaia [...] vide la gloria» di Cristo: Gv 12,41), in particolare in Is 11,1-2: «Un germoglio spunterà dal tronco di lesse, un virgulto germoglierà dalle sue radici. Su di lui si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e di timore del Signore».

713 - I tratti del Messia sono rivelati soprattutto nei canti del Servo. Questi canti annunziano il significato della passione di Gesù, e indicano così in quale modo egli avrebbe effuso lo Spirito Santo per vivificare la moltitudine: non dall'esterno, ma assumendo la nostra «condizione di servi» (Fil 2,7). Prendendo su di sé la nostra morte, può comunicarci il suo Spirito di vita.

714 - Per questo Cristo inaugura l'annunzio della Buona Novella facen­do suo questo testo di Isaia (Lc 4,18-19): «Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato con l'unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore».

715 - I testi profetici concernenti direttamente l'invio dello Spirito Santo sono oracoli in cui Dio parla al cuore del suo popolo nel linguaggio della Promessa, con gli accenti dell'amore e della fedeltà, il cui compi­mento san Pietro proclamò il mattino di pentecoste. Secondo queste promesse, negli «ultimi tempi», lo Spirito del Signore rinnoverà il cuore degli uomini scrivendo in essi una Legge nuova; radunerà e riconci­lierà i popoli dispersi e divisi; trasformerà la primitiva creazione e Dio vi abiterà con gli uomini nella pace.

716 - Il popolo dei «poveri », gli umili e i miti, totalmente abbandonati ai disegni misteriosi del loro Dio, coloro che attendono la giustizia, non degli uomini ma del Messia, è alla fine la grande opera della mis­sione nascosta dello Spirito Santo durante il tempo delle promesse per preparare la venuta di Cristo. E’ il loro cuore, purificato e illuminato dallo Spirito, che si esprime nei salmi. In questi poveri, lo Spirito pre­para al Signore «un popolo ben disposto» (Lc 1,17).

IV. Lo Spirito di Cristo nella pienezza del tempo.

GIOVANNI, PRECURSORE, PROFETA E BATTISTA

717 - «Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni» (Gv 1,6). Giovanni è riempito «di Spirito Santo fin dal seno di sua ma­dre» (Le l,l5) da Cristo stesso che la Vergine Maria aveva da poco concepito per opera dello Spirito Santo. La «visitazione» di Maria ad Elisabetta diventa così visita di Dio al suo popolo.

718 - Giovanni è «quell'Elia che deve venire»: il fuoco dello Spirito abita in lui e lo fa «correre avanti » (come «precursore») al Signore che viene. In Giovanni il Precursore, lo Spirito Santo termina di «pre­parare al Signore un popolo ben disposto» (Lc 1,17).

719 - Giovanni è «più che un profeta». In lui lo Spirito Santo termi­na di «parlare per mezzo dei profeti». Giovanni chiude il ciclo dei profeti inaugurato da Elia. Egli annunzia che la consolazione di Israe­le è prossima; è la «voce» del Consolatore che viene. Come farà lo Spirito di verità, egli viene «come testimone per rendere testimonianza alla Luce» (Gv 1,7). In Giovanni, lo Spirito compie così le «indagini dei profeti» e il «desiderio» degli angeli: «L'uomo sul quale vedrai scendere e rimanere lo Spirito è colui che battezza in Spirito Santo. E io ho visto e ho reso testimonianza che questi è il Figlio di Dio. [...] Ecco l'Agnello di Dio» (Gv 1,33-36).

720 - Infine, con Giovanni Battista lo Spirito Santo inaugura, prefigu­randolo, ciò che realizzerà con Cristo e in Cristo: ridonare all'uomo «la somiglianza» divina. Il battesimo di Giovanni era per la conversio­ne, quello nell'acqua e nello Spirito sarà una nuova nascita.

«GIOISCI, PIENA DI GRAZIA»

721 - Maria, la santissima Madre di Dio, sempre Vergine, è il capolavo­ro della missione del Figlio e dello Spirito nella pienezza del tempo. Per la prima volta nel disegno della salvezza e perché il suo Spirito l'ha preparata, il Padre trova la Dimora dove il suo Figlio e il suo Spirito possono abitare tra gli uomini. In questo senso la Tradizione della Chiesa ha spesso letto riferendoli a Maria i più bei testi sulla Sapien­za: Maria è cantata e rappresentata nella liturgia come «Sede della Sapienza». In lei cominciano a manifestarsi le «meraviglie di Dio», che lo Spirito compirà in Cristo e nella Chiesa.

722 - Lo Spirito Santo ha preparato Maria con la sua grazia. Era con­veniente che fosse «piena di grazia» la Madre di colui nel quale «abi­ta corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9). Per pura grazia ella è stata concepita senza peccato come la creatura più umile e più capace di accogliere il Dono ineffabile dell'Onnipotente. A giusto titolo l'angelo Gabriele la saluta come la «Figlia di Sion»: «Gioisci». È il rendimento di grazie di tutto il popolo di Dio, e quindi della Chie­sa, che Maria eleva al Padre, nello Spirito, nel suo cantico, quando ella porta in sé il Figlio eterno.

723 - In Maria, lo Spirito Santo realizza il disegno misericordioso del Padre. E per opera dello Spirito che la Vergine concepisce e dà alla luce il Figlio di Dio. La sua verginità diventa fecondità unica in virtù della potenza dello Spirito e della fede.

724 - In Maria, lo Spirito Santo manifesta il Figlio del Padre divenuto Figlio della Vergine. Ella è il roveto ardente della teofania definitiva: ricolma di Spirito Santo, mostra il Verbo nell'umiltà della sua carne ed è ai poveri e alle primizie dei popoli che lo fa conoscere.

725 - Infine, per mezzo di Maria, lo Spirito Santo comincia a mettere in comunione con Cristo gli uomini, oggetto dell'amore misericordioso di Dio. Gli umili sono sempre i primi a riceverlo: i pastori, i magi, Simeone e Anna, gli sposi di Cana e i primi discepoli.

726 - Al termine di questa missione dello Spirito, Maria diventa la «Donna», nuova Eva, «Madre dei viventi», Madre del «Cristo tota­le». In quanto tale, ella è presente con i Dodici, «assidui e concordi nella preghiera» (At 1,14), all'alba degli «ultimi tempi» che lo Spirito inaugura il mattino di pentecoste manifestando la Chiesa.

GESÙ CRISTO

727 - Tutta la missione del Figlio e dello Spirito Santo nella pienezza del tempo è racchiusa nel fatto che il Figlio è l'Unto dello Spirito del Padre dal momento dell'incarnazione: Gesù è Cristo, il Messia. Tutto il secondo articolo del Simbolo della fede deve essere letto in questa luce. L'intera opera di Cristo è missione congiunta del Figlio e dello Spirito Santo. Qui si menzionerà soltanto ciò che concerne la pro­messa dello Spirito Santo da parte di Gesù e il dono dello Spirito da parte del Signore glorificato.

728 - Gesù rivela in pienezza lo Spirito Santo solo dopo che è stato egli stesso glorificato con la sua morte e risurrezione. Tuttavia, lo lascia gradualmente intravvedere anche nel suo insegnamento alle folle, quan­do rivela che la sua carne sarà cibo per la vita del mondo. Inoltre lo lascia intuire a Nicodemo, alla Samaritana e a coloro che partecipano alla festa delle Capanne. Ai suoi discepoli ne parla apertamente a proposito della preghiera e della testimonianza che dovranno dare.

729 - Solo quando giunge l'Ora in cui sarà glorificato, Gesù promette la venuta dello Spirito Santo, poiché la sua morte e la sua risurrezione sa­ranno il compimento della Promessa fatta ai Padri: lo Spirito di veri­tà, sarà donato dal Padre per la preghiera di Gesù; sarà mandato dal Padre nel nome di Gesù; Gesù lo invierà quando sarà presso il Padre, perché è uscito dal Padre. Lo Spirito Santo verrà, noi lo conosceremo, sarà con noi per sempre, dimorerà con noi; ci insegne­rà ogni cosa e ci ricorderà tutto ciò che Cristo ci ha detto e gli renderà testimonianza; ci condurrà alla verità tutta intera e glorificherà Cristo; convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio.

730 - Infine viene l'Ora di Gesù: Gesù consegna il suo spirito nelle mani del Padre nel momento in cui con la sua morte vince la morte, in modo che, «risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre» (Rm 6,4), egli dona subito lo Spirito Santo «alitando» sui suoi discepoli. A partire da questa Ora, la missione di Cristo e dello Spirito divie­ne la missione della Chiesa: «Come il Padre ha mandato me, anch'io mando voi» (Gv 20,21).

V. Lo Spirito e la Chiesa negli ultimi tempi.

LA PENTECOSTE

731 - Il giorno di pentecoste (al termine delle sette settimane pasquali), la pasqua di Cristo si compie nell'effusione dello Spirito Santo, che è manifestato, donato e comunicato come Persona divina: dalla sua pienezza Cristo Signore effonde a profusione lo Spirito.

732 - In questo giorno è pienamente rivelata la Santissima Trinità. Da questo giorno, il Regno annunziato da Cristo è aperto a coloro che credono in lui: nell'umiltà della carne e nella fede, essi partecipano già alla comunione della Santissima Trinità. Con la sua venuta, che non ha fi­ne, lo Spirito Santo introduce il mondo negli «ultimi tempi», il tempo della Chiesa, il Regno già ereditato, ma non ancora compiuto: «Abbiamo visto la vera Luce, abbiamo ricevuto lo Spirito celeste, ab­biamo trovato la vera fede: adoriamo la Trinità indivisibile, perché ci ha salvati».

LO SPIRITO SANTO IL DONO DI DIO

733 - «Dio è amore» (1 Gv 4,8.16) e l'amore è il primo dono, quello che contiene tutti gli altri. Questo amore, Dio l'ha «riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato donato» (Rm 5,5).

734 - Poiché noi siamo morti, o, almeno, feriti per il peccato, il primo effetto del dono dell'amore è la remissione dei nostri peccati. È «la co­munione dello Spirito Santo» (2 Cor 13,13) che nella Chiesa ridona ai battezzati la somiglianza divina perduta a causa del peccato.

735 - Egli dona allora la «caparra» o le «primizie» della nostra eredi­tà; la vita stessa della Santissima Trinità che consiste nell'amare come egli ci ha amati. Questo amore (la carità di 1 Cor 13) è il principio della vita nuova in Cristo, resa possibile dal fatto che abbiamo «forza dallo Spirito Santo» (At 1,8).

736 - È per questa potenza dello Spirito che i figli di Dio possono portare frutto. Colui che ci ha innestati sulla vera Vite, farà sì che portiamo il frutto dello Spirito che «è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sè» (Gal 5,22-23). Lo Spirito è la nostra vita; quanto più rinunciamo a noi stessi, tanto più lo Spirito fa che anche operiamo. «Con lo Spirito Santo, che rende spirituali, c'è la riammissione al paradiso, il ritorno alla condizione di figlio, il coraggio di chiamare Dio Padre, il diventare partecipe della grazia di Cristo, l'essere chiamato figlio della luce, il condividere la gloria eterna.

LO SPIRITO SANTO E LA CHIESA

737 - La missione di Cristo e dello Spirito Santo si compie nella Chie­sa, corpo di Cristo e tempio dello Spirito Santo. Questa missione congiunta associa ormai i seguaci di Cristo alla sua comunione con il Padre nello Spirito Santo: lo Spirito prepara gli uomini, li previene con la sua grazia per attirarli a Cristo. Manifesta loro il Signore risorto, ri­corda loro la sua parola, apre il loro spirito all'intelligenza della sua morte e risurrezione. Rende loro presente il mistero di Cristo, soprattut­to nell'Eucaristia, al fine di riconciliarli e di metterli in comunione con Dio perché portino «molto frutto».

738 - In questo modo la missione della Chiesa non si aggiunge a quella di Cristo e dello Spirito Santo, ma ne è il sacramento: con tutto il suo essere e in tutte le sue membra essa è inviata ad annunziare e testimo­niare, attualizzare e diffondere il mistero della comunione della Santa Trinità (sarà questo l'argomento del prossimo articolo): «Noi tutti che abbiamo ricevuto l'unico e medesimo spirito, cioè lo Spirito Santo, siamo uniti tra di noi e con Dio. Infatti, sebbene, presi separatamente, siamo in molti e in ciascuno di noi Cristo faccia abitare lo Spirito del Padre e suo, tuttavia unico e indivisibile è lo Spirito. Egli riunisce nel­l'unità spiriti che tra loro sono distinti [...] e fa di tutti in se stesso un'uni­ca e medesima cosa. Come la potenza della santa umanità di Cristo rende concorporei coloro nei quali si trova, allo stesso modo l'unico e indivisibile Spirito di Dio che abita in tutti conduce tutti all'unità spirituale.

739 - Poiché lo Spirito Santo è l'unzione di Cristo, è Cristo, Capo del corpo, a diffonderlo nelle sue membra per nutrirle, guarirle, organizzar­le nelle loro mutue funzioni, vivificarle, inviare per la testimonianza, associarle alla sua offerta al Padre e alla sua intercessione per il mondo intero. È per mezzo dei sacramenti della Chiesa che Cristo comunica al­le membra del suo corpo il suo Spirito Santo e santificatore (questo sa­rà l'argomento della seconda parte del Catechismo).

740 - Queste «meraviglie di Dio», offerte ai credenti nei sacramenti della Chiesa, portano i loro frutti nella vita nuova, in Cristo, secondo lo Spirito (questo sarà l'argomento della terza parte del Catechismo).

741 - «Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede per noi, con gemiti inesprimibili» (Rm 8,26). Lo Spirito Santo, artefice delle opere di Dio, è il maestro della preghiera (questo sarà l'argomento della quarta parte del Catechismo).

In sintesi

742 - «E che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei no­stri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre» (Gal 4,6).

743 - Dall'inizio alla fine dei tempi, quando Dio invia suo Figlio, invia sem­pre il suo Spirito: la loro missione é congiunta e inseparabile.

744 - Nella pienezza del tempo, lo Spirito Santo porta a compimento in Maria tutte le preparazioni alla venuta di Cristo nel popolo di Dio. Mediante l'opera dello Spirito Santo in lei, il Padre dona al mondo l'Emmanuele, «Dio-con-noi» (Mt 1,23).

745 - Il Figlio di Dio é consacrato Cristo (Messia) attraverso l'unzione del­lo Spirito Santo nell’incarnazione.

746 - Per la sua morte e risurrezione, Gesù é costituito Signore e Cristo nella gloria. Dalla sua pienezza, egli effonde lo Spirito Santo sugli Apostoli e sulla Chiesa.

747 - Lo Spirito Santo, che Cristo, Capo, diffonde nelle sue membra, edifi­ca, anima e santifica la Chiesa, sacramento della comunione della Santissima Trinità e degli uomini.

Articolo 9

«CREDO LA SANTA CHIESA CATTOLICA»

748 - «Cristo è la luce delle genti, e questo sacro Concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini, annunziando il Vangelo a ogni creatura». Con queste parole si apre la «Costituzione dogmati­ca sulla Chiesa» del Concilio Vaticano Il. Con ciò il Concilio indica che l'articolo di fede sulla Chiesa dipende interamente dagli articoli concernenti Gesù Cristo. La Chiesa non ha altra luce che quella di Cri­sto. Secondo un'immagine cara ai Padri della Chiesa, essa è simile alla luna, la cui luce è tutta riflesso del sole.

749 - L'articolo sulla Chiesa dipende anche interamente da quello sullo Spirito Santo, che lo precede. «In quello, infatti, lo Spirito Santo ci appare come la fonte totale di ogni santità; in questo, il divino Spirito ci appare come la sorgente della santità della Chiesa». Secondo l'e­spressione dei Padri, la Chiesa è il luogo «dove fiorisce lo Spirito».

750 - Credere che la Chiesa è «Santa» e «Cattolica» e che è «Una» e «Apostolica» (come aggiunge il Simbolo niceno-costantinopolitano) è inseparabile dalla fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo. Nel Simbo­lo degli Apostoli professiamo di credere la santa Chiesa («Credo [...] Ecclesiam»), e non nella Chiesa, per non confondere Dio con le sue opere e per attribuire chiaramente alla bontà di Dio tutti i doni che egli ha riversato nella sua Chiesa.

Paragrafo 1

LA CHIESA NEL DISEGNO DI DIO

I. I nomi e le immagini della Chiesa.

751 - La parola «Chiesa» significa «convocazione». Designa assemblee del popolo, generalmente di carattere religioso. È il termine frequentemente usato nell'Antico Testamento greco per indicare l'assemblea del popolo eletto riunita davanti a Dio, soprattutto l'assemblea del Sinai, dove Israele ricevette la Legge e fu costituito da Dio come suo popolo santo. Definendosi «Chiesa», la prima comunità di coloro che credevano in Cristo si riconosce erede di quell'assemblea. In essa, Dio «convoca» il suo popolo da tutti i confini della terra. I termini da cui sono derivati Church, Kirche, significa «colei che appartiene al Si­gnore».

752 - Nel linguaggio cristiano, il termine «Chiesa» designa l'assemblea liturgica, ma anche la comunità locale tutta la comunità universale dei credenti. Di fatto questi tre significati sono inseparabili. La «Chie­sa» è il popolo che Dio raduna nel mondo intero. Essa esiste nelle co­munità locali e si realizza come assemblea liturgica, soprattutto eucari­stica. Essa vive della Parola e del Corpo di Cristo, divenendo così essa stessa corpo di Cristo.

I SIMBOLI DELLA CHIESA

753 - Nella Sacra Scrittura troviamo moltissime immagini e figure tra loro connesse mediante le quali la Rivelazione parla del mistero inson­dabile della Chiesa. Le immagini dell'Antico Testamento sono variazio­ni di un'idea di fondo, quella del «popolo di Dio». Nel Nuovo Testa­mento tutte queste immagini trovano un nuovo centro, per il fatto che Cristo diventa il «Capo» di questo popolo, che è quindi il suo corpo. Attorno a questo centro si sono raggruppate immagini «desunte sia dalla pastorizia o dall'agricoltura, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla famiglia e dagli sponsali».

754 - «Così la Chiesa è l'ovile, la cui porta unica e necessaria é Cristo. È pure il gregge, di cui Dio stesso ha preannunziato che sarebbe il pastore e le cui pecore, anche se governate da pastori umani, sono però incessantemente condotte al pascolo e nutrite dallo stesso Cristo, il Pastore buono e il Principe dei pastori, il quale ha dato la sua vita per le pecore.

755 - «La Chiesa é il podere o campo di Dio. In quel campo cresce l'antico olivo, la cui santa radice sono stati i patriarchi e nel quale è avvenuta e avverrà la riconciliazione dei Giudei e delle genti. Essa è stata piantata dal celeste Agricoltore come vigna scelta. Cristo è la vera Vite, che dà vita e fecondità ai tralci, cioè a noi, che per mezzo della Chiesa rimaniamo in lui e senza di lui nulla possiamo fare.

756 - «Più spesso ancora la Chiesa è detta l'edificio di Dio. Il Signore stesso si è paragonato alla pietra che i costruttori hanno rigettata, ma che è divenuta la pietra angolare (Mt 21,42 par.; At 4,11; I Pt 2,7; Sal 118,22). Sopra quel fon­damento la Chiesa è stata costruita dagli Apostoli e da esso riceve stabilità e coesione. Questa costruzione viene chiamata in varie maniere: casa di Dio, nel­la quale abita la sua famiglia, la dimora di Dio nello Spirito, la dimora di Dio con gli uomini, e soprattutto tempio santo, rappresentato da santuari di pietra, che è lodato dai santi Padri e che la liturgia giustamente paragona alla Città santa, la nuova Gerusalemme. In essa, infatti, quali pietre viventi, veniamo a formare su questa terra un tempio spirituale. E questa Città santa Giovanni la contempla mentre nel finale rinnovamento del mondo essa scende dal cielo, da presso Dio, "preparata come una sposa che si è ornata per il suo sposo" (Ap 21,1-2)».

757 - «La Chiesa, che è chiamata "Gerusalemme che è in alto" e "Madre nostra" (Gal 4,26)147 viene pure descritta come l'immacolata Sposa dell'Agnello immacolato, 149 Sposa che Cristo "ha amato (…) e per la quale ha dato se stesso, al fine di renderla santa" (Ef 5,25-26), che si è associata con patto indissolubile e che incessantemente nutre e […] cura" (Ef 5,29).

II. Origine, fondazione e missione della Chiesa.

758 - Per scrutare il mistero della Chiesa, è bene considerare innanzi tutto la sua origine nel disegno della Santissima Trinità e la sua pro­gressiva realizzazione nella storia.

UN DISEGNO NATO NEL CUORE DEL PADRE

759 - «L'eterno Padre, con liberissimo e arcano disegno di sapienza e di bontà, ha creato l'universo, ha decretato di elevare gli uomini alla partecipazione della sua vita divina», alla quale chiama tutti gli uomini nel suo Figlio: «I credenti in Cristo li ha voluti convocare nella santa Chiesa». Questa «famiglia di Dio» si costituisce e si realizza gradual­mente lungo le tappe della storia umana, secondo le disposizioni del Padre: la Chiesa, infatti, «prefigurata sino dal principio del mondo, mi­rabilmente preparata nella storia del popolo d'Israele e nell'Antica Al­leanza, e istituita “negli ultimi tempi”, é stata manifestata dall'effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli».

LA CHIESA PREFIGURATA FIN DALL'ORIGINE DEL MONDO

760 - «Il mondo fu creato in vista della Chiesa », dicevano i cristiani dei primi tempi. Dio ha creato il mondo in vista della comunione alla sua vita divina, comunione che si realizza mediante la «convocazione» degli uomini in Cristo, e questa «convocazione» è la Chiesa. La Chie­sa è il fine di tutte le cose e le stesse vicissitudini dolorose, come la caduta degli angeli e il peccato dell'uomo, furono permesse da Dio solo in quanto occasione e mezzo per dispiegare tutta la potenza del suo braccio, tutta l'immensità d'amore che voleva donare al mondo: «Come la volontà di Dio è un atto, e questo atto si chiama mondo così la sua intenzione è la salvezza dell'uomo, ed essa si chiama Chiesa».

LA CHIESA PREPARATA NELL'ANTICA ALLEANZA

761 - La convocazione del popolo di Dio ha inizio nel momento in cui il peccato distrugge la comunione degli uomini con Dio e quella degli uomini tra di loro. La convocazione della Chiesa é, per così dire, la reazione di Dio di fronte al caos provocato dal peccato. Questa riunifi­cazione si realizza segretamente in seno a tutti i popoli: «Chi teme [...] [Dio] e pratica la giustizia, a qualunque popolo appartenga, è a lui accetto» (At 10,35).

762 - La preparazione remota della riunione del popolo di Dio comincia con la vocazione di Abramo, al quale Dio promette che diverrà padre di un grande popolo. La preparazione immediata comincia con l'ele­zione di Israele come popolo di Dio. Con la sua elezione, Israele deve essere il segno della riunione futura di tutte le nazioni. Ma già i profe­ti accusano Israele di aver rotto l'Alleanza e di essersi comportato co­me una prostituta. Essi annunziano un'Alleanza nuova ed eterna. «Cristo istituì questo nuovo Patto».

LA CHIESA - ISTITUITA DA GESÙ CRISTO

763 - É compito del Figlio realizzare, nella pienezza dei tempi, il piano di salvezza del Padre; è questo il motivo della sua «missione». «Il Signore Gesù diede inizio alla sua Chiesa predicando la Buona Novella, cioè la venuta del regno di Dio da secoli promesso nelle Scritture». Per compiere la volontà del Padre, Cristo inaugurò il regno dei cieli sulla terra. La Chiesa è «il regno di Cristo già presente in mistero».

764 - «Questo regno si manifesta chiaramente agli uomini nelle parole, nelle opere e nella presenza di Cristo. Accogliere la parola di Gesù significa accogliere «il regno stesso di Dio. Il germe e l'inizio del re­gno sono il «piccolo gregge» (Lc 12,32) di coloro che Gesù è venuto a convocare attorno a sé e di cui egli stesso è il pastore. Essi costi­tuiscono la vera famiglia di Gesù. A coloro che ha così radunati attor­no a sé, ha insegnato un modo «nuovo di comportarsi», ma anche una preghiera loro propria.

765 - Il Signore Gesù ha dotato la sua comunità di una struttura che rimarrà fino al pieno compimento del Regno. Innanzi tutto vi è la scel­ta dei Dodici con Pietro come loro capo. Rappresentando le dodici tribù d'Israele, essi sono i basamenti della nuova Gerusalemme. I Dodici e gli altri discepoli partecipano alla missione di Cristo, al suo potere, ma anche alla sua sorte. Attraverso tutte queste azioni Cristo prepara ed edifica la sua Chiesa.

766 - Ma la Chiesa è nata principalmente dal dono totale di Cristo per la nostra salvezza, anticipato nell'istituzione dell'Eucaristia e realizzato sulla croce. L'inizio e la crescita della Chiesa «sono simboleggiati dal sangue e dall'acqua che uscirono dal costato aperto di Gesù crocifissso». «Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla dal costato di Adamo addormentato, così la Chiesa è nata dal cuore trafitto di Cristo morto sulla croce.

LA CHIESA MANIFESTATA DALLO SPIRITO SANTO

767 - «Compiuta l'opera che il Padre aveva affidato al Figlio sulla ter­ra, il giorno di pentecoste fu inviato lo Spirito Santo per santificare continuamente la Chiesa. Allora «la Chiesa fu manifestata pubblica­mente alla moltitudine [ed] ebbe inizio attraverso la predicazione la dif­fusione del Vangelo». Essendo «convocazione» di tutti gli uomini alla salvezza, la Chiesa è missionaria per sua natura, inviata da Cristo a tutti i popoli, per farli discepoli.

768 - Perché la Chiesa possa realizzare la sua missione, lo Spirito Santo «la provvede di diversi doni gerarchici e carismatici, con i quali la diri­ge». «La Chiesa perciò, fornita dei doni del suo Fondatore e osser­vando fedelmente i suoi precetti di carità, di umiltà e di abnegazione, riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il regno di Cristo e di Dio, e di questo regno costituisce in terra il germe e l'inizio».

LA CHIESA PIENAMENTE COMPIUTA NELLA GLORIA

769 - «La Chiesa [...] non avrà il suo compimento se non nella gloria del cielo al momento del ritorno glorioso di Cristo. Fino a quel giorno, «la Chiesa prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio». Quaggiù si sente in esilio, lontana dal Signore; «anela al regno perfetto e con tutte le sue forze spera e brama di unirsi al suo Re nella gloria». Il compimento della Chiesa e per suo mezzo del mondo - nella gloria non avverrà se non attra­verso molte prove. Allora soltanto, «tutti i giusti, a partire da Adamo, "dal giusto Abele fino all'ultimo eletto", saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale».

III. Il mistero della Chiesa.

770 - La Chiesa è nella storia, ma nello stesso tempo la trascende. E unicamente «con gli occhi della fede» che si può scorgere nella sua realtà visibile una realtà contemporaneamente spirituale, portatrice di vita divina.

LA CHIESA INSIEME VISIBILE E SPIRITUALE

771 - «Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità, come un organismo vi­sibile; incessantemente la sostenta e per essa diffonde su tutti la verità e la grazia». La Chiesa è ad un tempo: «la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo»; - «l'assemblea visibile e la comunità spirituale»; «la Chiesa della terra e la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti». Queste dimensioni «formano una sola complessa realtà risultante di un elemento umano e di un elemento divino La Chiesa «ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e di­vina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell'azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina; tutto questo in modo che quanto in lei è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all'invisibile, l'azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura verso la quale siamo incamminati». «O umiltà! O sublimità! Tabernacolo di Cedar, santuario di Dio; abitazione terrena, celeste reggia; dimora di fango, sala regale; corpo di morte, tempio di luce; infine, rifiuto per i superbi, ma sposa di Cristo! Bruna sei, ma bella, o figlia di Gerusalemme: se anche la fatica e il do­lore del lungo esilio ti sfigura, ti adorna tuttavia la bellezza celeste».

LA CHIESA MISTERO DELL' UNIONE DEGLI UOMINI CON DIO

772 - È nella Chiesa che Cristo compie e rivela il suo proprio mistero come il fine del disegno di Dio: «ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). San Paolo chiama «mistero grande» (Ef 5,32) l'unione sponsale di Cristo con la Chiesa. Poiché la Chiesa è unita a Cristo come allo Sposo, diventa essa stessa a sua volta mistero. Contemplando in essa il mistero, san Paolo scrive: «Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1,27).

773 - Nella Chiesa questa comunione degli uomini con Dio mediante la parità che «non avrà mai fine» (1 Cor 13,8) è lo scopo cui tende tutto ciò che in essa è mezzo sacramentale, legato a questo mondo destinato a passare. «La sua struttura è completamente ordinata alla santità delle membra di Cristo. E la santità si misura secondo il "grande miste­ro", nel quale la Sposa risponde col dono dell'amore al dono dello Sposo. Maria precede tutti noi sulla via verso la santità che è il mistero della Chiesa in quanto Sposa senza macchia né ruga. Per questo motivo «la dimensione mariana della Chiesa precede la sua dimensione petrina».

LA CHIESA SACRAMENTO UNIVERSALE DI SALVEZZA

774 - La parola greca (…) è stata tradotta in latino con due termini: mysterium e sacramentum. Nell'interpretazione ulteriore, il termine sacramentum esprime più precisamente il segno visibile della realtà nascosta della salvezza, indicata dal termine mysterium. In questo senso, Cristo stesso è il mistero della salvezza: «Non est enim aliud Dei mysterium, nisi Christus - Non v'è altro mistero di Dio, se non Cristo. L'opera salvifica della sua umanità santa e santi­ficante è il sacramento della salvezza che si manifesta e agisce nei sacramenti della Chiesa (che le Chiese d'Oriente chiamano anche («i santi misteri»). I sette sacramenti sono i segni e gli strumenti mediante i quali lo Spirito Santo diffon­de la grazia di Cristo, che è il Capo, nella Chiesa, che è il suo corpo. La Chie­sa, dunque, contiene e comunica la grazia invisibile che essa significa. È in que­sto senso analogico che viene chiamata «sacramento».

775 - «La Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano. Es­sere il sacramento dell'intima unione degli uomini con Dio: ecco il primo fine della Chiesa. Poiché la comunione tra gli uomini si radica nell'u­nione con Dio, la Chiesa è anche il sacramento dell'unità del genere umano. In essa, tale unità è già iniziata poiché essa raduna uomini «di ogni nazione, razza, popolo e lingua» (Ap 7,9); nello stesso tempo, la Chiesa è «segno e strumento» della piena realizzazione di questa unità che deve ancora compiersi.

776 - In quanto sacramento, la Chiesa è strumento di Cristo. Nelle sue mani essa è lo «strumento della redenzione di tutti», «il sacramento universale della salvezza», attraverso il quale Cristo «svela e insieme realizza il mistero dell'amore di Dio verso l'uomo». Essa «è il proget­to visibile dell'amore di Dio per l'umanità», progetto che vuole «la costituzione di tutto il genere umano nell'unico popolo di Dio, la sua riunione nell'unico corpo di Cristo, la sua edificazione nell'unico tem­pio dello Spirito Santo».

In sintesi

777 - La parola «Chiesa» significa «convocazione». Designa l'assemblea di coloro che la Parola di Dio convoca per formare il popolo di Dio e che, nutriti dal Corpo di Cristo, diventano essi stessi corpo di Cristo.

778 - La Chiesa è ad un tempo via e fine del disegno di Dio: prefigurata nella creazione, preparata nell’Antica Alleanza, fondata dalle parole e dalle azioni di Gesù Cristo, realizzata mediante la sua croce redentrice e la sua risurrezione, essa è manifestata come mistero di salvezza con l'effusione dello Spirito Santo. Avrà il suo compimen­to nella gloria del cielo come assemblea di tutti i redenti della terra.

779 - La Chiesa é ad un tempo visibile e spirituale, società gerarchica e corpo mistico di Cristo. È una, formata di un elemento umano e di un elemento divino. Questo è il suo mistero, che solo la fede può accogliere.

780 - La Chiesa è in questo mondo il sacramento della salvezza, il segno e lo strumento della comunione di Dio e degli uomini.

Paragrafo 2

LA CHIESA - POPOLO DI DIO, CORPO DI CRISTO, TEMPIO DELLO SPIRITO SANTO

I. La Chiesa - popolo di Dio.

781 - «In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo te­me e opera la sua giustizia. Tuttavia piacque a Dio di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse nella verità e san­tamente lo servisse. Si scelse quindi per sé il popolo israelita, stabilì con lui un'alleanza e lo formò progressivamente. Tutto questo però av­venne in preparazione e in figura di quella nuova e perfetta Alleanza che doveva concludersi in Cristo [...] cioè la Nuova Alleanza nel suo sangue, chiamando gente dai Giudei e dalle nazioni, perché si fondesse in unità non secondo la carne, ma nello Spirito ».

LE CARATTERISTICHE DEL POPOLO DI DIO

782 - Il popolo di Dio presenta caratteristiche che lo distinguono netta­mente da tutti i aggruppamenti religiosi, etnici, politici o culturali della storia: È il popolo di Dio: Dio non appartiene in proprio ad alcun po­polo. Ma egli si è acquistato un popolo da coloro che un tem­po erano non-popolo: «la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa» (1 Pt 2,9). Si diviene membri di questo popolo non per la nascita fisica, ma per la «nascita dall'alto», «dall'acqua e dallo Spirito» (Gv 3,3-5), cioè mediante la fede in Cristo e il Battesimo. - Questo popolo ha per Capo Gesù Cristo (Unto, Messia): poiché la medesima unzione, lo Spirito Santo, scorre dal Capo al cor­po, esso è «il popolo messianico». - «Questo popolo ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come nel suo tempio» - «Ha per legge il nuovo precetto di amare come lo stesso Cristo ci ha amati». È la legge «nuova» dello Spirito Santo. - Ha per missione di essere il sale della terra e la luce del mon­do. «Costituisce per tutta l'umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza». - «E, da ultimo, ha per fine il regno di Dio, incominciato in ter­ra dallo stesso Dio, e che deve essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento.

UN POPOLO SACERDOTALE, PROFETICO E REGALE

783 - Gesù Cristo è colui che il Padre ha unto con lo Spirito Santo e ha costituito «Sacerdote, Profeta e Re». L'intero popolo di Dio partecipa a queste tre funzioni di Cristo e porta le responsabilità di missione e di servizio che ne derivano.

784 - Entrando nel popolo di Dio mediante la fede e il Battesimo, si è resi partecipi della vocazione unica di questo popolo, la vocazione sa­cerdotale: «Cristo Signore, Pontefice assunto di mezzo agli uomini, fece del nuovo popolo un regno e dei sacerdoti per Dio, suo Padre. Infat­ti, per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo i battezzati ven­gono consacrati a formare una dimora spirituale e un sacerdozio santo.

785 - «Il popolo santo di Dio partecipa pure alla funzione profetica di Cristo». Ciò soprattutto per il senso soprannaturale della fede che è di tutto il popolo, laici e gerarchia, quando «aderisce indefettibilmente al­ la fede una volta per tutte trasmessa ai santi » e ne approfondisce la comprensione e diventa testimone di Cristo in mezzo a questo mondo.

786 - Il popolo di Dio partecipa infine alla funzione regale di Cristo. Cristo esercita la sua regalità attirando a sé tutti gli uomini mediante la sua morte e la sua risurrezione. Cristo, Re e Signore dell'universo, si è fatto il servo di tutti, non essendo «venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mt 20,28). Per il cristiano «regnare» è «servire» Cristo, soprattutto «nei poveri e nei sofferenti», nei quali la Chiesa riconosce «l'immagine del suo Fondatore, povero e sofferente». Il popolo di Dio realizza la sua «dignità re­gale» vivendo conformemente a questa vocazione di servire con Cristo. «Tutti quelli che sono rinati in Cristo conseguono dignità regale per il segno della croce. Con l'unzione dello Spirito Santo sono consacrati sa­cerdoti. Non c'é quindi solo quel servizio specifico proprio del nostro ministero, perché tutti i cristiani, rivestiti di un carisma spirituale e usando della loro ragione, si riconoscono membra di questa stirpe rega­le e partecipi della funzione sacerdotale. Non è forse funzione regale il fatto che un'anima governi il suo corpo in sottomissione a Dio? Non è forse funzione sacerdotale consacrare al Signore una coscienza pura e offrirgli sull'altare del proprio cuore i sacrifici immacolati del nostro culto?».

II. La Chiesa - corpo di Cristo.

LA CHIESA È COMUNIONE CON GESÙ

787- Fin dall'inizio Gesù ha associato i suoi discepoli alla sua vita; ha loro rivelato il mistero del Regno; li ha resi partecipi della sua missione, della sua gioia e delle sue sofferenze. Gesù parla di una comunione ancora più intima tra sé e coloro che lo seguiranno: «Rima­nete in me e io in voi (...) Io sono la vite, voi i tralci» (Gv 15,4-5). Annunzia inoltre una comunione misteriosa e reale tra il suo proprio corpo e il nostro: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue di­mora in me e io in lui» (Gv 6,56).

788 - Quando la sua presenza visibile è stata tolta ai discepoli, Gesù non li ha lasciati orfani. Ha promesso di restare con loro sino alla fine dei tempi, ha mandato loro il suo Spirito. In un certo senso, la comunione con Gesù è diventata più intensa: «Comunicando infatti il suo Spirito, costituisce misticamente come suo corpo i suoi fratelli, chiamati da tutte le genti».

789 - Il paragone della Chiesa con il corpo illumina l'intimo legame tra la Chiesa e Cristo. Essa non è soltanto radunata attorno a lui; è uni­ficata in lui, nel suo corpo. Tre aspetti della Chiesa-corpo di Cristo vanno sottolineati in modo particolare: l'unità di tutte le membra tra di loro in forza della loro unione a Cristo; Cristo Capo del corpo; la Chiesa, Sposa di Cristo.

«UN SOLO CORPO»

790 - I credenti che rispondono alla Parola di Dio e diventano membra del corpo di Cristo, vengono strettamente uniti a Cristo: «in quel cor­po la vita di Cristo si diffonde nei credenti che attraverso i Sacramenti vengono uniti in modo arcano ma reale a Cristo che ha sofferto ed è stato glorificato», Ciò è particolarmente vero del Battesimo, in virtù del quale siamo uniti alla morte e alla risurrezione di Cristo, e dell'Eucaristia, mediante la quale «partecipando realmente al Corpo del Signore, siamo elevati alla comunione con lui e tra di noi».

791 - L'unità del corpo non elimina la diversità delle membra: «Nell'edificazione del corpo di Cristo vige la diversità delle membra e delle funzioni. Uno è lo Spirito, il quale per l'utilità della Chiesa distribuisce i suoi vari doni con magnificenza proporzionata alla sua ricchezza e al­le necessità dei servizi». L'unità del corpo mistico genera e stimola tra i fedeli la carità: «E quindi se un membro soffre, soffrono con esso tutte le altre membra; se un membro è onorato, ne gioiscono con esso tutte le altre membra». Infine, l'unità del corpo mistico vince tutte le divisioni umane: «Quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo. Non c'è più né giudeo né greco; non c'è più schiavo né libe­ro; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Ge­sù» (Gal 3,27-28).

CAPO DI QUESTO CORPO È CRISTO

792 - Cristo «è il Capo del corpo, cioè della Chiesa» (Col 1,18). È il Principio della creazione e della redenzione. Elevato alla gloria del Padre, ha «il primato su tutte le cose» (Col 1,18), principalmente sulla Chiesa, per mezzo della quale estende il suo regno su tutte le cose.

793 - Egli ci unisce alla sua pasqua. Tutte le membra devono sforzarsi di conformarsi a lui finché in esse «non sia formato Cristo» (Gal 4,19). «Per questo siamo assunti ai misteri della sua vita. [...] Come il corpo al Capo veniamo associati alle sue sofferenze e soffriamo con lui per essere con lui glorificati».

794 - Egli provvede alla nostra crescita. Per farci crescere verso di lui, nostrom Capo, Cristo dispone nel suo corpo, la Chiesa, i doni e i misteri attraverso i quali noi ci aiutiamo reciprocamente lungo il cammino della salvezza.

795 - Cristo e la Chiesa formano, dunque, il «Cristo totale» [«Christus totus»]. La Chiesa è una con Cristo. I santi hanno una coscienza vivis­sima di tale unità: «Rallegriamoci, rendiamo grazie a Dio, non soltanto perché ci ha fatti diventare cristiani, ma perché ci ha fatto diventare Cristo stesso. Vi rendete conto, fratelli, di quale grazia ci ha fatto Dio, donandoci Cristo come Capo? Esultate, gioite, siamo divenuti Cristo. Se egli è il Capo, noi siamo le membra: siamo un uomo completo, egli e noi. (…) Pienez­za di Cristo: il Capo e le membra. Qual è la Testa, e quali sono le membra? Cristo e la Chiesa». «Redemptor noster unam se personam cum sancta Ecclesia, quam assumpsit, exhibuit - Il nostro Redentore presentò se stesso come unica persona unita alla santa Chiesa, da lui assunta» «Caput et membra, quasi una persona mystica - Capo e membra sono, per così dire, una sola persona mistica». Una parola di santa Giovanna d'Arco ai suoi giudici riassume la fede dei santi dottori ed esprime il giusto sentire del credente: «A mio avviso, Gesù Cristo e la Chiesa sono un tutt’uno, e non bisogna solle­vare difficoltà».

LA CHIESA È LA SPOSA DI CRISTO

796 - L'unità di Cristo e della Chiesa, Capo e membra del corpo, impli­ca anche la distinzione dei due in una relazione personale. Questo aspetto spesso viene espresso con l'immagine dello sposo e della sposa. Il tema di Cristo Sposo della Chiesa è stato preparato dai profeti e an­nunziato da Giovanni Battista. Il Signore stesso si è definito come lo «Sposo» (Mc 2,19). L'Apostolo presenta la Chiesa e ogni fedele, membro del suo corpo, come una Sposa «fidanzata» a Cristo Signore, per formare con lui un solo Spirito. Essa è la Sposa senza macchia dell'Agnello immacolato, che Cristo ha amato e per la quale ha dato se stesso, «per renderla santa» (Ef 5,26), che ha unito a sé con una Alleanza eterna e di cui non cessa di prendersi cura come del suo proprio corpo. «Ecco il Cristo totale, capo e corpo, uno solo formato da molti. [...] Sia il capo a parlare, o siano le membra, è sempre Cristo che parla: parla nella persona del capo [«ex persona capitis»], parla nella persona del corpo ["ex persona corporis"]. Che cosa, infatti, sta scritto? "Saran­no due in una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferi­mento a Cristo e alla Chiesa" (Ef 5,31-32). E Cristo Stesso nel Vangelo: “Non sono più due, ma una carne sola” (Mt 19,6). Difatti, come ben sapete, queste persone sono sì due, ma poi diventano una sola nell'u­nione sponsale. (...) Dice di essere "sposo" in quanto capo, e "sposa" in quanto corpo».

III. La Chiesa - tempio dello Spirito Santo.

797 - «Quod est spiritus noster, id est anima nostra, ad membra nostra, hoc est Spiritus Sanctus ad membra Christi, ad corpus Christi, quod est Ecclesia - Quello che il nostro spirito, ossia la nostra anima, è per le nostre membra, lo stesso è lo Spirito Santo per le membra di Cristo, per il corpo di Cristo, che è la Chiesa», «Bisogna attribuire allo Spi­rito di Cristo, come ad un principio nascosto, il fatto che tutte le parti del corpo siano unite tanto fra loro quanto col loro sommo Capo, poi­ché egli risiede tutto intero nel Capo, tutto intero nel corpo, tutto inte­ro in ciascuna delle sue membra». Lo Spirito Santo fa della Chiesa «il tempio del Dio vivente» (2 Cor 6,16). «È alla Chiesa che è stato affidato il dono di Dio. (...) In essa è stata posta la comunione con Cristo, cioè lo Spirito Santo, caparra dell'in­corruttibilità, confermazione della nostra fede, scala per ascendere a Dio. [...] Infatti, dove è la Chiesa, ivi è anche lo Spirito di Dio e dove è lo Spirito di Dio, ivi è la Chiesa e ogni grazia».

798 - Lo Spirito Santo è «il principio di ogni azione vitale e veramente salvifica in ciascuna delle diverse membra del corpo». Egli opera in molti modi l'edificazione dell'intero corpo nella carità: mediante la Parola di Dio «che ha il potere di edificare» (At 20,32); mediante il Battesimo con il quale forma il corpo di Cristo; mediante i sacramenti che fanno crescere e guariscono le membra di Cristo; mediante la grazia degli Apostoli che fra i vari doni viene al primo posto; median­te le virtù che fanno agire secondo il bene, e infine mediante le molteplici grazie speciali (chiamate «carismi»), con le quali rende i fedeli «adatti e pronti ad assumersi varie opere o uffici, utili al rinno­vamento della Chiesa e allo sviluppo della sua costruzione».

I CARISMI

799 - Straordinari o semplici e umili, i carismi sono grazie dello Spirito Santo che, direttamente o indirettamente, hanno un'utilità ecclesiale, or­dinati come sono all'edificazione della Chiesa, al bene degli uomini e alle necessità del mondo.

800 - I carismi devono essere accolti con riconoscenza non soltanto da chi li riceve, ma anche da tutti i membri della Chiesa. Infatti sono una meravigliosa ricchezza di grazia per la vitalità apostolica e per la santità di tutto il corpo di Cristo, purché si tratti di doni che provengono ve­ramente dallo Spirito Santo e siano esercitati in modo pienamente con­forme agli autentici impulsi dello stesso Spirito, cioè secondo la carità, vera misura dei carismi.

801 - E in questo senso che si dimostra sempre necessario il discerni­mento dei carismi. Nessun carisma dispensa dal riferirsi e sottomettersi ai Pastori della Chiesa, «ai quali spetta specialmente, non di estinguere lo Spirito, ma di esaminare tutto e ritenere ciò che è buono», affinché tutti i carismi, nella loro diversità e complementarità, cooperino all'«utilità comune (1 Cor 12,7).

In sintesi

802 - Gesù Cristo «ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni ini­quità e formarsi un popolo puro che gli appartenga» (Tt 2,14).

803 - «Voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato» (1 Pt 2,9).

804 - Si entra nel popolo di Dio mediante la fede e il Battesimo. «Tutti gli uomini sono chiamati a formare il nuovo popolo di Dio», affin­ché, in Cristo, «gli uomini costituiscano una sola famiglia e un solo popolo di Dio».

805 - La Chiesa è il corpo di Cristo. Per mezzo dello Spirito e della sua azione nei sacramenti, soprattutto l'Eucaristia, Cristo, morto e risor­to, costituisce la comunità dei credenti come suo corpo.

806 - Nell’unità di questo corpo c'è diversità di membra e di funzioni. Tut­te le membra sono legate le une alle altre, particolarmente a quelle che soffrono, che sono povere e perseguitate.

807 - La Chiesa è questo corpo, di cui Cristo è il Capo: essa vive di lui, in lui e per lui; egli vive con essa e in essa.

808 - La Chiesa è la Sposa di Cristo: egli l'ha amata e ha dato se stesso per lei. L'ha purificata con il suo sangue. Ha fatto di lei la Madre feconda di tutti i figli di Dio.

809 - La Chiesa è il tempio dello Spirito Santo. Lo Spirito è come l'anima del corpo mistico, principio della sua vita, dell'unità nella diversità e della ricchezza dei suoi doni e carismi.

810 - «Così la Chiesa universale si presenta come "un popolo adunato dall'unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo"»,

Paragrafo 3

LA CHIESA E’ UNA, SANTA, CATTOLICA E APOSTOLICA

811 - «Questa è l'unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica». Questi quattro attributi, legati inseparabilmente tra di loro, indicano tratti essenziali della Chiesa e del­la sua missione. La Chiesa non se li conferisce da se stessa; è Cristo che, per mezzo dello Spirito Santo, concede alla sua Chiesa di essere una, santa, cattolica e apostolica, ed è ancora lui che la chiama a rea­lizzare ciascuna di queste caratteristiche.

812 - Soltanto la fede può riconoscere che la Chiesa trae tali caratteri­stiche dalla sua origine divina. Tuttavia le loro manifestazioni storiche sono segni che parlano chiaramente alla ragione umana. «La Chiesa - ricorda il Concilio Vaticano -, a causa della sua eminente santità [...], della sua cattolica unità, della sua incrollabile stabilità, è per se stessa un grande e perenne motivo di credibilità e una irrefragabile testimo­nianza della sua missione divina».

I. La Chiesa è una.

«IL SACRO MISTERO DELL'UNITÀ DELLA CHIESA»

813 - La Chiesa è una per la sua origine: «Il supremo modello e il prin­cipio di questo mistero è l'unità nella Trinità delle Persone di un solo Dio Padre e Figlio nello Spirito Santo». La Chiesa è una per il suo Fondatore: «Il Figlio incarnato, infatti, [...] per mezzo della sua croce ha riconciliato tutti gli uomini con Dio, [...] ristabilendo l'unità di tutti i popoli in un solo popolo e in un solo corpo». La Chiesa è una per la sua «anima»: «Lo Spirito Santo, che abita nei credenti e tutta riem­pie e regge la Chiesa, produce quella meravigliosa comunione dei fedeli e tanto intimamente tutti unisce in Cristo, da essere il principio dell'u­nità della Chiesa». È dunque proprio dell'essenza stessa della Chiesa di essere una: «Che stupendo mistero! Vi è un solo Padre dell'universo, un solo Lo­gos dell'universo e anche un solo Spirito Santo, ovunque identico; vi è anche una sola Vergine divenuta Madre, e io amo chiamarla Chiesa».

814 - Fin dal principio, questa Chiesa «una» si presenta tuttavia con una grande diversità, che proviene sia dalla varietà dei doni di Dio sia dalla molteplicità delle persone che li ricevono. Nell'unità del popolo di Dio si radunano le diversità dei popoli e delle culture. Tra i membri della Chiesa esiste una diversità di doni, di funzioni, di condizioni e modi di vita; «nella comunione ecclesiastica vi sono legittimamente delle Chiese particolari, che godono di proprie tradizioni». La grande ricchezza di tale diversità non si oppone all'unità della Chiesa. Tutta­via, il peccato e il peso delle sue conseguenze minacciano continuamen­te il dono dell'unità. Anche l'Apostolo deve esortare a «conservare l'unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3).

815 - Quali sono i vincoli dell'unità? Al di sopra di tutto la carità, che «è il vincolo di perfezione» (Col 3,14). Ma l'unità della Chiesa nel tempo è assicurata anche da legami visibili di comunione: la professione di una sola fede ricevuta dagli Apostoli; la celebrazione comune del culto divino, soprattutto dei sacra­menti; la successione apostolica mediante il sacramento dell'Ordine, che custodisce la concordia fraterna della famiglia di Dio.

816 - «L'unica Chiesa di Cristo...» è quella «che il Salvatore nostro, dopo la sua risurrezione, diede da pascere a Pietro, affidandone a lui e agli altri Apostoli la diffusione e la guida [...]. Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come una società, sussiste ["subsistit in"] nella Chiesa cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comunione con lui». Il decreto sull'ecumenismo del Concilio Vaticano Il esplicita: «Solo per mezzo della cattolica Chiesa di Cristo, che é lo strumento generale della salvezza, si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. In real­tà al solo collegio apostolico con a capo Pietro crediamo che il Signore ha affidato tutti i beni della Nuova Alleanza, per costituire l'unico cor­po di Cristo sulla terra, al quale bisogna che siano pienamente incorporati tutti quelli che già in qualche modo appartengono al popolo di Dio».

LE FERITE DELL'UNITÀ

817 - Di fatto, «in questa Chiesa di Dio una e unica sono sorte fino dai primissimi tempi alcune scissioni, che l'Apostolo riprova con gravi parole come degne di condanna; ma nei secoli posteriori sono nati dissensi più ampi e comunità non piccole si sono staccate dalla piena comunione della Chiesa cattolica, talora non senza colpa di uomini d'entrambe le parti». Le scissioni che feriscono l'unità del corpo di Cristo (cioè l'eresia, l'apostasia e lo scisma) non avvengono senza i peccati degli uomini: «Ubi peccata sunt, ibi est multitudo, ibi schismata, ibi haereses, ibi di­scussiones. Ubi autem virtus, ibi singularitas, ibi unio, ex quo omnium credentium erai cor unum et anima una - Dove c'è il peccato, lì trovia­mo la molteplicità, lì gli scismi, lì le eresie, lì le controversie. Dove, in­vece, regna la virtù, lì c'è unità, lì comunione, grazie alle quali tutti i credenti erano un cuor solo e un'anima sola.

818 - Coloro che oggi nascono in comunità sorte da tali scissioni «e sono istruiti nella fede di Cristo [...] non possono essere accusati del peccato di separazione, e la Chiesa cattolica li abbraccia con fraterno rispetto e amore. [...] Giustificati nel Battesimo dalla fede, sono incorporati a Cristo e perciò sono a ragione insigniti del nome di cristiani e dai figli della Chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti come fra­telli nel Signore.

819 - Inoltre, «parecchi elementi di santificazione e di verità» tro­vano fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica, come la Parola di Dio scritta, la vita della grazia, la fede, la speranza e la carità, e altri doni interiori dello Spirito Santo ed elementi visibili. Lo Spirito di Cristo si serve di queste Chiese e comunità ecclesiali come di strumenti di salvezza, la cui forza deriva dalla pienezza di grazia e di verità che Cristo ha dato alla Chiesa cattolica. Tutti questi beni provengono da Cristo e a lui conducono e «spingono verso l'unità cattolica».

VERSO L'UNITÀ

820 - L'unità, «che Cristo ha donato alla sua Chiesa fin dall'inizio, [...] noi crediamo che sussista, senza possibilità di essere perduta, nella Chiesa cattolica e speriamo che crescerà ogni giorno di più sino alla fi­ne dei secoli». Cristo fa sempre alla sua Chiesa il dono dell'unità, ma la Chiesa deve sempre pregare e impegnarsi per custodire, rafforzare e perfezionare l'unità che Cristo vuole per lei. Per questo Gesù stesso ha pregato nell'ora della sua passione e non cessa di pregare il Padre per l'unità dei suoi discepoli: «…Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21). Il desiderio di ritrovare l'unità di tutti i cristiani è un dono di Cristo e un appello dello Spirito Santo.

821 - Per rispondervi adeguatamente sono necessari: - un rinnovamento permanente della Chiesa in una accresciuta fedeltà alla sua vocazione. Tale rinnovamento è la forza del movimento verso l'unità la conversione nel cuore per «condurre una vita più conforme al Vangelo», «poiché è l'infedeltà delle membra al dono di Cristo a causare le divisioni; la preghiera in comune; infatti la «conversione del cuore» e la «santità della vita, insieme con le preghiere private e pubbliche per l'unità dei cristiani, si devono ritenere come l'anima di tutto il movimento ecume­nico e si possono giustamente chiamare ecumenismo spirituale»; - la reciproca conoscenza fraterna; la formazione ecumenica dei fedeli e specialmente dei sacerdoti; - il dialogo tra i teologi e gli incontri tra i cristiani delle differenti Chiese e comunità; la cooperazione tra cristiani nei diversi ambiti del servizio agli uomini.

822 - «La cura di ristabilire l'unione riguarda tutta la Chiesa, sia i fe­deli che i Pastori». Ma bisogna anche essere consapevoli «che questo santo proposito di riconciliare tutti i cristiani nell'unità della Chiesa di Cristo, una e unica, supera le forze e le doti umane». Perciò riponiamo tutta la nostra speranza «nell'orazione di Cristo per la Chiesa, nel­l'amore del Padre per noi e nella forza dello Spirito Santo».

Il. La Chiesa è santa.

823 - «Noi crediamo che la Chiesa [...] è indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito è proclamato “il solo Santo”, ha amato la Chiesa come sua Sposa e ha dato se stesso per essa, al fine di santificarla, e l'ha unita a sé come suo corpo e l'ha riempita col dono dello Spirito Santo, per la gloria di Dio». La Chie­sa è dunque «il popolo santo di Dio», e i suoi membri sono chiamati «santi».

824 - La Chiesa, unita a Cristo, da lui è santificata; per mezzo di lui e in lui diventa anche santificante. Tutte le attività della Chiesa convergo­no, come a loro fine, «verso la santificazione degli uomini e la glorifi­cazione di Dio in Cristo». È nella Chiesa che si trova «tutta la pie­nezza dei mezzi di salvezza». È in essa che «per mezzo della grazia di Dio acquistiamo la santità».

825 - «La Chiesa già sulla terra è adornata di una santità vera, anche se imperfetta». Nei suoi membri, la santità perfetta deve ancora essere raggiunta. «Muniti di tanti e così mirabili mezzi di salvezza, tutti i fedeli d'ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a quella perfezione di santità di cui è perfetto il Padre celeste».

826 - La carità è l'anima della santità alla quale tutti sono chiamati: essa «dirige tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine»: Capii che se la Chiesa aveva un corpo, composto da diverse membra, il più necessario, il più nobile di tutti non le mancava: capii che la Chiesa aveva un Cuore e che questo Cuore era acceso d'Amore. Capii che solo l'Amore faceva agire le membra della Chiesa: che se l'Amore si dovesse spegnere, gli Apostoli non annuncerebbero più il Vangelo, i Martiri rifiuterebbero di versare il loro sangue... Capii che l'Amore rac­chiudeva tutte le Vocazioni, che l'Amore era tutto, che abbracciava tut­ti i tempi e tutti i luoghi!... Insomma che é Eterno!...».

827 - «Mentre Cristo “santo, innocente, immacolato”, non conobbe il peccato, ma venne allo scopo di espiare i soli peccati del popolo, la Chiesa che comprende nel suo seno i peccatori, santa e insieme sempre bisognosa di purificazione, incessantemente si applica alla penitenza e al suo rinnovamento». Tutti i membri della Chiesa, compresi i suoi mini­stri, devono riconoscersi peccatori. In tutti, sino alla fine dei tempi, la zizzania del peccato si trova ancora mescolata al buon grano del Van­gelo. La Chiesa raduna dunque peccatori raggiunti dalla salvezza di Cristo, ma sempre in via di santificazione: «La Chiesa è santa, pur comprendendo nel suo seno dei peccatori, giacché essa non possiede altra vita se non quella della grazia: appunto vivendo della sua vita, i suoi membri si santificano, come, sottraendosi alla sua vita, cadono nei peccati e nei disordini, che impediscono l'irra­diazione della sua santità. Perciò la Chiesa soffre e fa penitenza per tali peccati, da cui peraltro ha il potere di guarire i suoi figli con il sangue di Cristo e il dono dello Spirito Santo.

828 - Canonizzando alcuni fedeli, ossia proclamando solennemente che tali fedeli hanno praticato in modo eroico le virtù e sono vissuti nella fedeltà alla grazia di Dio, la Chiesa riconosce la potenza dello Spirito di santità che è in lei, e sostiene la speranza dei fedeli offrendo loro i santi quali modelli e intercessori. «I santi e le sante sono sempre stati sorgente e origine di rinnovamento nei momenti più difficili della storia della Chiesa. Infatti, «la santità è la sorgente segreta e la misura in­fallibile della sua attività apostolica e del suo slancio missionario».

829 - «Mentre la Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine la perfezione che la rende senza macchia e senza ruga, i fedeli si sforzano ancora di crescere nella santità debellando il peccato; e per questo innalzano gli occhi a Maria»: in lei la Chiesa è già tutta santa.

III. La Chiesa è cattolica.

CHE COSA VUOL DIRE «CATTOLICA»

830 - La parola «cattolica» significa «universale» nel senso di «secon­do la totalità» o «secondo l'integralità». La Chiesa è cattolica in un duplice senso. È cattolica perché in essa è presente Cristo. «Là dove è Cristo Ge­sù, ivi è la Chiesa cattolica». In essa sussiste la pienezza del corpo di Cristo unito al suo Capo, e questo implica che essa riceve da lui «in forma piena e totale i mezzi di salvezza» che egli ha voluto: confes­sione di fede retta e completa, vita sacramentale integrale e ministero ordinato nella successione apostolica. La Chiesa, in questo senso fonda­mentale, era cattolica il giorno di pentecoste e lo sarà sempre fino al giorno della Parusia.

831 - Essa è cattolica perché è inviata in missione da Cristo alla totalità del genere umano: «Tutti gli uomini sono chiamati a formare il nuovo popolo di Dio. Perciò questo popolo, restando uno e unico, si deve estendere a tutto il mondo e a tutti i secoli, affinché si adempia l'intenzione della volontà di Dio, il quale in principio ha creato la natura umana una, e vuole ra­dunare insieme infine i suoi figli, che si erano dispersi. [...] Questo ca­rattere di universalità che adorna il popolo di Dio, è un dono dello stesso Signore, e con esso la Chiesa cattolica efficacemente e senza so­ste tende a ricapitolare tutta l'umanità, con tutti i suoi beni, in Cristo Capo nell'unità del suo Spirito.

OGNI CHIESA PARTICOLARE È «CATTOLICA»

832 - La «Chiesa di Cristo è veramente presente in tutte le legittime as­semblee locali di fedeli, le quali, aderendo ai loro Pastori, sono anche esse chiamate Chiese nel Nuovo Testamento. [...] In esse con la predica­zione del Vangelo di Cristo vengono radunati i fedeli e si celebra il mi­stero della Cena del Signore [...]. In queste comunità, sebbene spesso piccole e povere o che vivono nella dispersione, è presente Cristo, per virtù del quale si raccoglie la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica.

833 - Per Chiesa particolare, che è in primo luogo la diocesi (o l'epar­chia), si intende una comunità di fedeli cristiani in comunione nella fede e nei sacramenti con il loro Vescovo ordinato nella successione apo­stolica. Queste Chiese particolari sono «formate a immagine della Chiesa universale»; in esse e a partire da esse «esiste la sola e unica Chiesa cattolica.

834 - Le Chiese particolari sono pienamente cattoliche per la comunio­ne con una di loro: la Chiesa di Roma, «che presiede alla carità». «È sempre stato necessario che ogni Chiesa, cioè i fedeli di ogni luogo, si volgesse alla Chiesa romana in forza del suo sacro primato». «In­fatti, dalla discesa del Verbo Incarnato verso di noi, tutte le Chiese cri­stiane sparse in ogni luogo hanno ritenuto e ritengono la grande Chiesa che è qui [a Roma] come unica base e fondamento perché, secondo le promesse del Salvatore, le porte degli inferi non hanno mai prevalso su di essa».

835 - «Ma dobbiamo ben guardarci dal concepire la Chiesa universale come la somma o, per così dire, la federazione [...] di Chiese particolari […] È la stessa Chiesa che, essendo universale per vocazione e per missione, quando getta le sue radici nella varietà dei terreni culturali, sociali, umani, assume in ogni parte del mondo fisionomie ed espressioni esteriori diverse». La ricca varietà di di­scipline ecclesiastiche, di riti liturgici, di patrimoni teologici e spirituali propri alle «Chiese locali tra loro concordi dimostra con maggior evidenza la cattolici­tà della Chiesa indivisa».

CHI APPARTIENE ALLA CHIESA CATTOLICA?

836 - «Tutti gli uomini sono chiamati a questa cattolica unità del po­polo di Dio [...], alla quale in vario modo appartengono o sono ordina­ti sia i fedeli cattolici, sia gli altri credenti in Cristo, sia, infine, tutti gli uomini, che dalla grazia di Dio sono chiamati alla salvezza».

837 - «Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano integra la sua struttura e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e nel suo organismo visibile sono uniti con Cristo - che la dirige mediante il Sommo Pontefice e i Vescovi - dai vincoli della professione di fede, dei sacramenti, del governo ecclesiastico e della comunione. Non si salva, però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando nella carità, rima­ne sì in seno alla Chiesa col “corpo” ma non col "cuore"».

838 - «Con coloro che, battezzati, sono sì insigniti del nome cristiano, ma non professano la fede integrale o non conservano l'unità della co­munione sotto il successore di Pietro, la Chiesa sa di essere per più ra­gioni unita». «Quelli infatti che credono in Cristo e hanno ricevuto debitamente il Battesimo sono costituiti in una certa comunione, sebbe­ne imperfetta, con la Chiesa cattolica». Con le Chiese ortodosse, que­sta comunione è così profonda «che le manca ben poco per raggiungere la pienezza che autorizzi una celebrazione comune della Eucaristia del Signore».

LA CHIESA E I NON CRISTIANI

839 - «Quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, in vari modi sono ordinati al popolo di Dio». Il rapporto della Chiesa con il popolo ebraico. La Chiesa, popolo dì Dio nella Nuova Alleanza, scrutando il suo proprio mistero, scopre il proprio legame con il popolo ebraico, che Dio «scelse primi fra tutti gli uomini ad accogliere la sua parola». A differenza delle altre reli­gioni non cristiane, la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio nell'Antica Alleanza. E’ al popolo ebraico che appartengono «l'adozio­ne a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5) perché «i doni e la chiamata dì Dio sono irrevocabili!» (Rm 11,29).

840 - Del resto, quando si considera il futuro, il popolo di Dio dell'Antica Al­leanza e il nuovo popolo di Dio tendono a fini analoghi: l'attesa della venuta (o del ritorno) del Messia. Ma tale attesa é, da una parte, rivolta al ritorno del Messia, morto e risorto, riconosciuto come Signore e Figlio di Dio, dall'altra è rivolta alla venuta del Messia, i cui tratti rimangono velati, alla fine dei tempi: si ha un'attesa accompagnata dall'ignoranza o dal misconoscimento dì Gesù Cristo.

841 - Le relazioni della Chiesa con i musulmani. «Il disegno della salvez­za abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in primo luogo i musulmani, i quali, professando di tenere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel giorno finale.

842 - Il legame della Chiesa con le religioni non cristiane è anzitutto quello della comune origine e del comune fine del genere umano: «Infatti tutti i popoli costituiscono una sola comunità. Essi hanno una sola origine poiché Dio ha fatto abitare l’intero genere umano su tutta la faccia della terra; essi hanno anche un solo fine ultimo, Dio, del quale la provvidenza, la testimonianza di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti, finché gli eletti si riuniscano nella città santa.

843 - La Chiesa riconosce nelle altre religioni la ricerca, ancora «nelle ombre e nelle immagini», di un Dio ignoto ma vicino, poiché è lui che dà a tutti vita, respiro e ogni cosa, e vuole che tutti gli uomini siano salvi. Pertanto la Chiesa considera tutto ciò che di buono e di vero si trova nelle religioni come una preparazione al Vangelo, «e come dato da colui che illumina ogni uomo, affinché abbia finalmente la vita.

844 - Ma nel loro comportamento religioso, gli uomini mostrano anche limiti ed errori che sfigurano in loro l'immagine di Dio: «Molto spesso gli uomini, ingannati dal maligno, hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e hanno scambiato la verità divina con la menzogna, servendo la creatura piuttosto che il Creatore, oppure vivendo e moren­do senza Dio in questo mondo sono esposti alla disperazione finale.

845 - Proprio per riunire di nuovo tutti i suoi figli, dispersi e sviati dal peccato, il Padre ha voluto convocare l'intera umanità nella Chiesa del Figlio suo. La Chiesa è il luogo in cui l'umanità deve ritrovare l'unità e la salvezza. È il «mondo riconciliato. È la nave che, «pleno domini­cae crucis velo Saneti Spiritus flatu in hoc bene navigat mundo - spie­gate le vele della croce del Signore al soffio dello Spirito Santo, naviga sicura in questo mondo»; secondo un'altra immagine, cara ai Padri della Chiesa, è l'arca di Noè che, sola, salva dal diluvio.

«FUORI DELLA CHIESA NON C'È SALVEZZA»

846 - Come bisogna intendere questa affermazione spesso ripetuta dai Padri della Chiesa? Formulata in modo positivo, significa che ogni sal­vezza viene da Cristo-Capo per mezzo della Chiesa che è il suo corpo: Il santo Concilio «insegna, appoggiandosi sulla Sacra Scrittura e sulla Tradizione, che questa Chiesa peregrinante è necessaria alla salvezza. Infatti solo Cristo, presente per noi nel suo corpo, che è la Chiesa, è il Mediatore e la Via della salvezza; ora egli, inculcando espressamente la necessità della fede e del Battesimo, ha insieme confermato la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano mediante il Battesimo come per la porta. Perciò non potrebbero salvarsi quegli uomini, i quali, non ignorando che la Chiesa cattolica è stata da Dio per mezzo di Gesù Cristo fondata come necessaria, non avessero tuttavia voluto entrare in essa o in essa perseverare».

847 - Questa affermazione non si riferisce a coloro che, senza loro col­pa, ignorano Cristo e la Chiesa: «Infatti, quelli che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, e tuttavia cercano sinceramente Dio, e sotto l'influsso della gra­zia si sforzano di compiere con le opere la volontà di Dio, conosciuta attraverso il dettame della coscienza, possono conseguire la salvezza eterna».

848 - «Benché Dio, attraverso vie a lui note, possa portare gli uomini, che senza loro colpa ignorano il Vangelo, alla fede, senza la quale è impossibile piacergli, è tuttavia compito imprescindibile della Chiesa, ed insieme sacro diritto, evangelizzare» tutti gli uomini.

LA MISSIONE - UN'ESIGENZA DELLA CATTOLICITÀ DELLA CIIIESA

849 - Il mandato missionario. «Inviata da Dio alle genti per essere “sacramento universale di salvezza”, la Chiesa, per le esigenze più profon­de della sua cattolicità e obbedendo all'ordine del suo Fondatore, si sforza di annunciare il Vangelo a tutti gli uomini»: «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,19-20).

850 - L’origine e lo scopo della missione. Il mandato missionario del Signore ha la sua ultima sorgente nell’amore eterno della Santissima Trinità: «La Chiesa pellegrinante per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre». E’ il fine ultimo della missio­ne altro non è che di rendere partecipi gli uomini della comunione che esiste tra il Padre e il Figlio nel loro Spirito d'amore.

851 - Il motivo della missione. Da sempre la Chiesa ha tratto l'obbligo e la forza del suo slancio missionario dall’amore di Dio per tutti gli uo­mini: «poiché l'amore di Cristo ci spinge...» (2 Cor 5,14). Infatti Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza del­la verità» (1 Tm 2,4). Dio vuole la salvezza di tutti attraverso la cono­scenza della verità. La salvezza si trova nella verità. Coloro che obbedi­scono alla mozione dello Spirito di verità sono già sul cammino della salvezza; ma la Chiesa, alla quale questa verità è stata affidata, deve andare incontro al loro desiderio offrendola loro. Proprio perché crede al disegno universale di salvezza, la Chiesa deve essere missionaria.

852 - Le vie della missione. «Lo Spirito Santo è il protagonista di tutta la missione ecclesiale. E’ lui che conduce la Chiesa sulle vie della mis­sione. Essa continua e sviluppa nel corso della storia la missione del Cristo stesso, inviato a portare la Buona Novella ai poveri; «sotto l'in­flusso dello Spirito di Cristo, la Chiesa deve procedere per la stessa strada seguita da Cristo, la strada cioè della povertà, dell'obbedienza, del servizio e del sacrificio di se stesso, fino alla morte, da cui uscì vin­citore con la sua risurrezione».E così che «il sangue dei martiri è seme di cristiani.

853 - Ma anche in questo nostro tempo sa bene la Chiesa «quanto distanti sia­no tra loro il messaggio ch'essa reca e l'umana debolezza di coloro cui è affida­to il Vangelo. Solo applicandosi incessantemente «alla penitenza e al rinno­vamento» e «camminando per l'angusta via della croce», il popolo di Dio può estendere il regno di Cristo. infatti, «come Cristo ha compiuto la sua opera di redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la Chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della sal­vezza.

854 - Per mezzo della sua stessa missione, la Chiesa «cammina insieme con l'u­manità tutta e sperimenta assieme al mondo la medesima sorte terrena, ed è co­me il fermenta e quasi l'anima della società umana, destinata a rinnovarsi in Cristo e a trasformarsi in famiglia di Dio. L'impegno missionario esige dun­que la pazienza. Incomincia con l'annunzio del Vangelo ai popoli e ai gruppi che ancora non credono a Cristo; prosegue con la costituzione di comunità cristiane che siano segni della presenza di Dio nel mondo, e con la fondazione di Chiese locali; avvia un processo di inculturazione per incarnare il Vangelo nelle culture dei popoli; non mancherà di conoscere anche gli insuccessi. «Per quanto riguarda gli uomini, i gruppi e i popoli solo gradatamente la Chiesa li raggiunge e li penetra, e li assume così nella pienezza cattolica».

855 - La missione della Chiesa richiede lo sforzo verso l'unità dei cristiani. In­fatti, «le divisioni dei cristiani impediscono che la Chiesa stessa attui la pienez­za della cattolicità ad essa propria in quei figli, che le sono bensì uniti col Bat­tesimo, ma sono separati dalla sua piena comunione. Anzi, alla Chiesa stessa diventa più difficile esprimere sotto ogni aspetto la pienezza della cattolicità proprio nella realtà della vita».

856 - L'attività missionaria implica un dialogo rispettoso con coloro che non ac­cettano ancora il Vangelo. I credenti possono trarre profitto per se stessi da questo dialogo, imparando a conoscere meglio «tutto ciò che di verità e di gra­zia era già riscontrabile, per una nascosta presenza dì Dio, in mezzo alle gen­ti». Se infatti essi annunziano la Buona Novella a coloro che la ignorano, è per consolidare, completare ed elevare la verità e il bene che Dio ha diffuso tra gli uomini e i popoli, e per purificarli dall'errore e dal male «per la gloria di Dio, la confusione del demonio e la felicità dell'uomo».

IV. La Chiesa è apostolica.

857 - La Chiesa è apostolica, perché è fondata sugli Apostoli, e ciò in un triplice senso: essa è stata e rimane costruita sul «fondamento degli Aposto­li» (Ef 2,20 366), testimoni scelti e mandati in missione da Cristo stesso; custodisce e trasmette, con l'aiuto dello Spirito che abita in es­sa, l'insegnamento, il buon deposito, le sane parole udite dagli Apostoli; fino al ritorno di Cristo, continua ad essere istruita, santificata e guidata dagli Apostoli grazie ai loro successori nella missione pastorale: il Collegio dei Vescovi, «coadiuvato dai sacerdoti ed unito al Successore di Pietro e Supremo Pastore della Chiesa». «Pastore eterno, tu non abbandoni il tuo gregge, ma lo custodisci e proteggi sempre per mezzo dei tuoi santi Apostoli, e lo conduci attra­verso i tempi, sotto la guida dì coloro che tu stesso hai eletto vicari del tuo Figlio e hai costituito Pastori.

LA MISSIONE DEGLI APOSTOLI

858 - Gesù è l'inviato del Padre. Fin dall'inizio del suo ministero, «chiamò a sé quelli che egli volle (…) Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare» (Mc 3,13-14). Da quel mo­mento, essi saranno i suoi «inviati» (…). In loro Gesù continua la sua missione: «Come il Pa­dre ha mandato me, anch'io mando voi» (Gv 20,2l). Il loro ministero è quindi la continuazione della sua missione: «Chi accoglie voi, acco­glie me», dice ai Dodici (Mt l0,40).

859 - Gesù li unisce alla missione che ha ricevuto dal Padre. Come «il Figlio da sé non può fare nulla» (Gv 5,19.30), ma riceve tutto dal Pa­dre che lo ha inviato, così coloro che Gesù invia non possono fare nul­la senza di lui, dal quale ricevono il mandato della missione e il pote­re di compierla. Gli Apostoli di Cristo sanno di essere resi da Dio «ministri adatti di una Nuova Alleanza» (2 Cor 3,6), «ministri di Dio» (2 Cor 6,4), «ambasciatori per Cristo» (2 Cor 5,20), «ministri di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (1 Cor 4,1).

860 - Nella missione degli Apostoli c'è un aspetto che non può essere trasmesso: essere i testimoni scelti della risurrezione del Signore e le fondamenta della Chiesa. Ma vi è anche un aspetto permanente della loro missione. Cristo ha promesso di rimanere con loro sino alla fine del mondo. La «missione divina, affidata da Cristo agli Apostoli, do­vrà durare sino alla fine dei secoli, poiché il Vangelo, che essi devono trasmettere, è per la Chiesa principio di tutta la sua vita in ogni tempo. Per questo gli Apostoli (...) ebbero cura di costituirsi dei successori».

I VESCOVI SUCCESSORI DEGLI APOSTOLI

861 - «Perché la missione loro affidata venisse continuata dopo la loro morte, (gli Apostoli) lasciarono quasi in testamento ai loro immediati cooperatori l'incarico di completare e consolidare l'opera da essi inco­minciata, raccomandando loro di attendere a tutto il gregge, nel quale lo Spirito Santo li aveva posti per pascere la Chiesa di Dio. Essi stabili­rono dunque questi uomini e in seguito diedero disposizione che, quan­do essi fossero morti, altri uomini provati prendessero la successione del loro ministero.

862 - «Come quindi permane l'ufficio dal Signore concesso singolarmente a Pietro, il primo degli Apostoli, e da trasmettersi ai suoi succes­sori, così permane l'ufficio degli Apostoli di pascere la Chiesa, da eser­citarsi ininterrottamente dal sacro ordine dei Vescovi». Perciò la Chiesa insegna che «i Vescovi per divina istituzione sono succeduti al posto degli Apostoli, quali Pastori della Chiesa: chi li ascolta, ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e colui che Cristo ha mandato».

L'APOSTOLATO

863 - Tutta la Chiesa è apostolica in quanto rimane in comunione di fede e di vita con la sua origine attraverso i successori di san Pietro e degli Apostoli. Tutta la Chiesa è apostolica, in quanto è «inviata» in tutto il mondo; tutti i membri della Chiesa, sia pure in modi diversi, partecipano a questa missione. «La vocazione cristiana infatti è per sua natura anche vocazione all'apostolato». Si chiama «apostolato» «tutta l'attività del corpo mistico» ordinata alla «diffusione del regno di Cristo su tutta la terra.

864 - «Siccome la fonte e l'origine di tutto l'apostolato della Chiesa è Cristo, mandato dal Padre, è evidente che la fecondità dell'apostolato», sia quello dei ministri ordinati sia quello «dei laici, dipende dalla loro unione vitale con Cristo». «Secondo le vocazioni, le esigenze dei tempi, i vari doni dello Spirito Santo, l'apostolato assume le forme più diver­se. Ma la carità, attinta soprattutto nell'Eucaristia, rimane sempre «come l'anima di tutto l'apostolato».

865 - La Chiesa è una, santa, cattolica e apostolica nella sua identità profonda e ultima, perché in essa già esiste e si compirà alla fine dei tempi «il regno dei cieli», «il regno di Dio», che è venuto nella per­sona di Cristo e che misteriosamente cresce nel cuore di coloro che a lui sono incorporati, fino alla sua piena manifestazione escatologica. Allora tutti gli uomini da lui redenti, in lui resi «santi e immacolati al cospetto» di Dio «nella carità» , saranno riuniti come l'unico popolo di Dio, «la Sposa dell'Agnello» «la Città santa» che scende «dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio»; e «le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello» (Ap 21,2 4).

In sintesi

866 - La Chiesa e' una: essa ha un solo Signore, professa una sola fede, nasce da un solo Battesimo, forma un solo corpo, vivificato da un solo Spirito, in vista di un'unica speranza, al compimento della qua­le saranno superate tutte le divisioni.

867 - La Chiesa é santa: il Dio Santissimo é il suo autore; Cristo, suo Sposo, ha dato se stesso per lei, per santificarla; lo Spirito di santità la vivifica. Benché comprenda in sé uomini peccatori è senza pecca­to fatta di peccatori. Nei santi risplende la sua santità; in Maria è già tutta santa.

868 - La Chiesa è cattolica: essa annunzia la totalità della fède; porta in sé e amministra la pienezza dei mezzi di salvezza; è mandata a tutti i popoli; si rivolge a tutti gli uomini; abbraccia tutti i tempi; «per sua natura è missionaria».

869 - La Chiesa è apostolica: è costruita su basamenti duraturi: i dodici Apostoli dell'Agnello; è indistruttibile; è infallibilmente conservata nella verità; Cristo la governa per mezzo di Pietro e degli altri Apo­stoli, presenti nei loro successori, nel Sommo Pontefice e nel Collegio dei Vescovi.

870 - «Questa è l'unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica». [...] Essa «sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal Successore di Pietro e dai Vescovi in comu­nione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo visibile si trovi­no parecchi elementi di santificazione e di verità».

Paragrafo 4

I FEDELI: GERARCHIA, LAICI, VITA CONSACRATA

871 - «I fedeli sono coloro che, essendo stati incorporati a Cristo me­diante il Battesimo, sono costituiti popolo di Dio e perciò, resi parteci­pi nel modo loro proprio della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, sono chiamati ad attuare, secondo la condizione propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo».

872 - «Fra tutti i fedeli, in forza della loro rigenerazione in Cristo, sus­siste una vera uguaglianza nella dignità e nell'agire, e per tale ugua­glianza tutti cooperano all'edificazione del corpo di Cristo, secondo la condizione e i compiti propri di ciascuno».

873 - Le differenze stesse che il Signore ha voluto stabilire fra le mem­bra del suo corpo sono in funzione della sua unità e della sua missione. Infatti «c'è nella Chiesa diversità di ministeri, ma unità di missione. Gli Apostoli e i loro successori hanno avuto da Cristo l'ufficio di inse­gnare, santificare, reggere in suo nome e con la sua autorità. Ma i laici, resi partecipi dell'ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, nella missione di tutto il popolo di Dio assolvono compiti propri nella Chie­sa e nel mondo. Infine dai ministri sacri e dai laici «provengono fe­deli i quali, con la professione dei consigli evangelici [...], in modo spe­ciale sono consacrati a Dio e danno incremento alla missione salvifica della Chiesa».

I. La costituzione gerarchica della Chiesa.

PERCHE IL MINISTERO ECCLESIALE?

874 - È Cristo stesso l'origine del ministero nella Chiesa. Egli l'ha isti­tuita, le ha dato autorità e missione, orientamento e fine: «Cristo Signore, per pascere e sempre può accrescere il popolo di Dio. ha istituito nella sua Chiesa vari ministeri, che tendono al bene di tutto il corpo. I ministri infatti, che sono dotati di sacra potestà, sono a ser­vizio dei loro fratelli, perché tutti coloro che appartengono al popolo di Dio [...] arrivino alla salvezza.

875 - «E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi? E come lo annun­zieranno, senza essere prima inviati?» (Rm 10,l4-l5). Nessuno, né individuo né comunità, può annunziare a se stesso il Vangelo. «La fede di pende [...] dalla predicazione» (Rm 10,l7). Nessuno può darsi da sé il mandato e la missione di annunziare il Vangelo. L'inviato del Signore parla e agisce non per autorità propria, ma in forza dell'autorità di Cri­sto; non come membro della comunità, ma parlando ad essa in nome di Cristo. Nessuno può conferire a se stesso la grazia, essa deve essere data e offerta. Ciò suppone che vi siano ministri della grazia, autorizzati e abilitati da Cristo. Da lui i Vescovi e i presbiteri ricevono la missione e la facoltà (la «sacra potestà») di agire in persona di Cristo Capo, i diaconi la forza di servire il popolo di Dio nella «diaconia» della li­turgia, della parola e della carità, in comunione con il Vescovo e il suo presbiterio. La tradizione della Chiesa chiama «sacramento» questo ministero, attraverso il quale gli inviati di Cristo compiono e danno per dono di Dio quello che da se stessi non possono né compiere né dare. Il ministero della Chiesa viene conferito mediante uno specifico sacra­mento.

876 - Alla natura sacramentale del ministero ecclesiale è intrinsecamente legato il carattere di servizio. I ministri, infatti, in quanto dipendono in­teramente da Cristo, il quale conferisce missione e autorità, sono vera­mente «servi di Cristo» (Rm 1,1), ad immagine di lui che ha assunto liberamente per noi «la condizione di servo» (Fil 2,7). Poiché la pa­rola e la grazia di cui sono i ministri non sono loro, ma di Cristo che le ha loro affidate per gli altri, essi si faranno liberamente servi di tutti.

877 - Allo stesso modo, è proprio della natura sacramentale del ministero ecclesiale avere un carattere collegiale. Infatti il Signore Gesù, fin dall'inizio del suo ministero, istituì i Dodici, che «furono ad un tempo il seme del nuovo Israele e l'origine della sacra gerarchia. Scelti in­sieme, sono anche mandati insieme, e la loro unione fraterna sarà al servizio della comunione fraterna di tutti i fedeli; essa sarà come un ri­flesso e una testimonianza della comunione delle Persone divine. Per questo ogni Vescovo esercita il suo ministero in seno al Collegio episco­pale, in comunione col Vescovo di Roma, Successore di san Pietro e capo del Collegio; i sacerdoti esercitano il loro ministero in seno al pre­sbiterio della diocesi, sotto la direzione del loro Vescovo.

878 - Infine è proprio della natura sacramentale del ministero ecclesiale avere un carattere personale. Se i ministri di Cristo agiscono in comu­nione, agiscono però sempre anche in maniera personale. Ognuno è chiamato personalmente: «Tu seguimi» (Gv 21,22) per essere, nella missione comune, testimone personale, personalmente responsabile da­vanti a colui che conferisce la missione, agendo «in sua persona» e per delle persone: «Io ti battezzo nel nome del Padre... ; «Io ti assolvo…».

879 - Pertanto il ministero sacramentale nella Chiesa è un servizio eser­citato in nome di Cristo. Esso ha un carattere personale e una forma collegiale. Ciò si verifica sia nei legami tra il Collegio episcopale e il suo capo, il Successore di san Pietro, sia nel rapporto tra la responsabi­lità pastorale del Vescovo per la sua Chiesa particolare e la sollecitudi­ne di tutto il Collegio episcopale per la Chiesa universale.

IL COLLEGIO EPISCOPALE E IL SUO CAPO, Il. PAPA

880 - Cristo istituì i Dodici «sotto la forma di un collegio o di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro». «Come san Pietro e gli altri Apostoli costituirono, per istituzione del Signore, un unico collegio apostolico, similmente il Romano Pontefice, Successore di Pietro, e i Vescovi, successori degli Apostoli, sono tra loro uniti».

881 - Del solo Simone, al quale diede il nome di Pietro, il Signore ha fatto la pietra della sua Chiesa. A lui ne ha affidato le chiavi; l'ha co­stituito pastore di tutto il gregge. «Ma l'incarico di legare e di scio­gliere, che è stato dato a Pietro, risulta essere stato pure concesso al collegio degli Apostoli, unito col suo capo. Questo ufficio pastorale di Pietro e degli altri Apostoli costituisce uno dei fondamenti della Chiesa; è continuato dai Vescovi sotto il primato del Papa.

882 - Il Papa, Vescovo di Roma e Successore di san Pietro, «è il perpe­tuo e visibile principio e fondamento dell'unità sia dei Vescovi sia della moltitudine dei fedeli. «Infatti il Romano Pontefice, in virtù del suo ufficio di Vicario di Cristo e di Pastore di tutta la Chiesa, ha sulla Chiesa la potestà piena, suprema e universale, che può sempre esercita­re liberamente.

883 - «Il Collegio o Corpo dei Vescovi non ha autorità, se non lo si concepisce insieme con il Romano Pontefice, [...] quale suo capo». Co­me tale, questo Collegio «è pure soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa: potestà che non può essere esercitata se non con il consenso del Romano Pontefice.

884 - «Il Collegio dei Vescovi esercita in modo solenne la potestà sulla Chiesa universale nel Concilio Ecumenico». «Mai si ha Concilio Ecu­menico, che come tale non sia confermato o almeno accettato dal Suc­cessore di Pietro».

885 - «Il Collegio episcopale, in quanto composto da molti, esprime la varietà e l'universalità del popolo di Dio; in quanto raccolto sotto un solo capo, esprime l'unità del gregge di Cristo».

886 - «I Vescovi, singolarmente presi, sono il principio visibile e il fon­damento dell'unità nelle loro Chiese particolari». In quanto tali «eser­citano il loro pastorale governo sopra la porzione del popolo di Dio che è stata loro affidata», coadiuvati dai presbiteri e dai diaconi. Ma, in quanto membri del Collegio episcopale, ognuno di loro è partecipe della sollecitudine per tutte le Chiese, e la esercita innanzi tutto «reg­gendo bene la propria Chiesa come porzione della Chiesa universale», contribuendo cosi «al bene di tutto il corpo mistico che è pure il cor­po delle Chiese». Tale sollecitudine si estenderà particolarmente ai po­veri ai perseguitati per la fede, come anche ai missionari che operano in tutta la terra. Le Chiese particolari vicine e di cultura omogenea formano pro­vince ecclesiastiche o realtà più vaste chiamate patriarcati o regioni. I Vescovi di questi raggruppamenti possono riunirsi in Sinodi o in Conci­lii provinciali. «Così pure, le Conferenze Episcopali possono, oggi, con­tribuire in modo molteplice e fecondo a che lo spirito collegiale si attui concretamente».

L'UFFICIO DI INSEGNARE

888 - I Vescovi, con i presbiteri, loro cooperatori, «hanno anzitutto il dovere di annunziare a tutti il Vangelo di Dio», secondo il comando del Signore. Essi sono «gli araldi della fede, che portano a Cristo nuovi discepoli, sono i dottori autentici» della fede apostolica, «rivesti­ti dell'autorità di Cristo».

889 - Per mantenere la Chiesa nella purezza della fede trasmessa dagli Apostoli, Cristo, che è la verità, ha voluto rendere la sua Chiesa parte­cipe della propria infallibilità. Mediante il «senso soprannaturale della fede», il popolo di Dio «aderisce indefettibilmente alla fede», sotto la guida del Magistero vivente della Chiesa.

890 - La missione del Magistero è legata al carattere definitivo dell'Al­leanza che Dio in Cristo ha stretto con il suo popolo; deve salvaguar­darlo dalle deviazioni e dai cedimenti, e garantirgli la possibilità ogget­tiva di professare senza errore l'autentica fede. Il compito pastorale del Magistero è quindi ordinato a vigilare affinché il popolo di Dio riman­ga nella verità che libera. Per compiere questo servizio, Cristo ha dota­to i Pastori del carisma dell'infallibilità in materia di fede e di costumi. L'esercizio di questo carisma può avere parecchie modalità.

891 - «Di questa infallibilità il Romano Pontefice, capo del Collegio dei Vescovi, fruisce in virtù del suo ufficio, quando, quale supremo Pastore e Dottore di tutti i fedeli, che conferma nella fede i suoi fratelli, proclama con un atto definitivo una dottrina riguardante la fede o la morale. (...) L'infallibilità promessa alla Chiesa risiede pure nel Corpo episcopale, quando questi esercita il supremo Magistero col Successore di Pietro» soprattutto in un Concilio Ecumenico. Quando la Chiesa, mediante il suo Magistero supremo, propone qualche cosa «da credere come rivelato da Dio» e come insegnamento di Cristo, «a tali definizioni si deve aderire con l'ossequio della fede». Tale infallibilità abbraccia l'intero deposito della rivelazione divina.

892 - L'assistenza divina è inoltre data ai successori degli Apostoli, che insegnano in comunione con il Successore di Pietro, e, in modo specia­le, al Vescovo di Roma, Pastore di tutta la Chiesa, quando, pur senza arrivare ad una definizione infallibile e senza pronunciarsi in «maniera definitiva», propongono, nell'esercizio del Magistero ordinario, un inse­gnamento che porta ad una migliore intelligenza della Rivelazione in materia di fede e di costumi. A questo insegnamento ordinario i fedeli devono «aderire col religioso ossequio dello spirito» che, pur distin­guendosi dall'ossequio della fede, tuttavia ne è il prolungamento.

L'UFFICIO DI SANTIFICARE

893 - Il Vescovo «è il dispensatore della grazia del supremo sacerdozio», specialmente nell'Eucaristia che egli stesso offre o di cui assicura l'offerta mediante i presbiteri, suoi cooperatori. L'Eucaristia, infatti, è il centro della vita della Chiesa particolare. Il Vescovo e i presbiteri santi­ficano la Chiesa con la loro preghiera e il loro lavoro, con il ministero della parola e dei sacramenti. La santificano con il loro esempio, «non spadroneggiando sulle persone» loro «affidate», ma facendosi «model­li del gregge» (1 Pt 5,3), in modo che «possano, insieme col gregge loro affidato, giungere alla vita eterna».

L'UFFICIO DI GOVERNARE

894 - «I Vescovi reggono le Chiese particolari, come vicari e delegati di Cristo, col consiglio, la persuasione, l'esempio, ma anche con l'autorità e la sacra potestà», che però dev'essere da loro esercitata allo scopo di edificare, nello spirito di servizio che è proprio del loro Maestro.

895 - «Questa potestà, che personalmente esercitano in nome di Cristo, è propria, ordinaria e immediata, quantunque il suo esercizio sia in de­finitiva regolato dalla suprema autorità della Chiesa. Ma i Vescovi non devono essere considerati come dei vicari del Papa, la cui autorità ordinaria e immediata su tutta la Chiesa non annulla quella dei Vesco­vi, ma anzi la conferma e la difende. Tale autorità deve esercitarsi in comunione con tutta la Chiesa sotto la guida del Papa.

896 - Il Buon Pastore sarà il modello e la «forma» dell'ufficio pastorale del Vescovo. Cosciente delle proprie debolezze, «il Vescovo può compatire quelli che sono nell'ignoranza o nell'errore. Non rifugga dall'ascoltare i sudditi che cura come veri figli suoi. [...] I fedeli poi devono aderire al Vescovo come la Chiesa a Gesù Cristo e come Gesù Cristo al Padre»: «Obbedite tutti al Vescovo, come Gesù Cristo al Padre, e al presbiterio come agli Apostoli; quanto ai diaconi, rispettateli come la Legge di Dio. Nessuno compia qualche azione riguardante la Chiesa, senza il Vescovo.

Il. I fedeli laici.

897 - «Col nome di laici si intendono qui tutti i fedeli a esclusione dei membri dell'ordine sacro e dello stato religioso riconosciuto dalla Chiesa, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati a Cristo col Battesimo e co­stituiti popolo di Dio, e nella loro misura resi partecipi della funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano.

LA VOCAZIONE DEI LAICI

898 - «Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. [...] A loro quindi particolarmente spetta illuminare e ordinare tutte le realtà temporali, alle quali essi sono strettamente legati, in modo che sempre sia­no fatte secondo Cristo, e crescano e siano di lode al Creatore e al Redentore».

899 - L'iniziativa dei cristiani laici è particolarmente necessaria quando si tratta di scoprire, di ideare mezzi per permeare delle esigenze della dottrina e della vita cristiana le realtà sociali, politiche ed economiche. Questa iniziativa è un elemento normale della vita della Chiesa: «I fedeli laici si trovano sulla linea più avanzata della vita della Chiesa; grazie a loro, la Chiesa è il principio vitale della società. Per questo essi soprattutto devono avere una coscienza sempre più chiara non soltanto di appartenere alla Chiesa, ma di essere la Chiesa, cioè la comunità dei fedeli sulla terra sotto la guida dell'unico capo, il Papa, e dei Vescovi in comunione con lui. Essi sono la Chiesa.

900 - I laici, come tutti i fedeli, in virtù del Battesimo e della Confer­mazione, ricevono da Dio l'incarico dell'apostolato; pertanto hanno l'obbligo e godono del diritto, individualmente o riuniti in associazioni, di impegnarsi affinché il messaggio divino della salvezza sia conosciuto e accolto da tutti gli uomini e su tutta la terra; tale obbligo è ancora più pressante nei casi in cui solo per mezzo loro gli uomini possono ascoltare il Vangelo e conoscere Cristo. Nelle comunità ecclesiali, la lo­ro azione è così necessaria che, senza di essa, l'apostolato dei Pastori, la maggior parte delle volte, non può raggiungere il suo pieno effetto.

LA PARTECIPAZIONE DEI LAICI ALL'UFFICIO SACERDOTALE DI CRISTO

901 - «I laici, essendo dedicati a Cristo e consacrati dallo Spirito San­to, sono in modo mirabile chiamati e istruiti perché lo Spirito produca in essi frutti sempre più copiosi. Tutte infatti le opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persi­no le molestie della vita, se sono sopportate con pazienza, diventano sacrifici spirituali graditi a Dio per mezzo di Gesù Cristo; e queste cose nella celebrazione dell'Eucaristia sono piissimamente offerte al Padre insieme all'oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, operando santamente dappertutto come adoratori, consacrano a Dio il mondo stesso.

902 - In modo particolare i genitori partecipano all'ufficio di santificazione conducendo la vita coniugale secondo lo spirito cristiano e attendendo all'educazione cristiana dei figli».

903 - I laici, se hanno le doti richieste, possono essere assunti stabilmente ai mi­nisteri di lettori e di accoliti. «Ove lo suggerisca la necessità della Chiesa, in mancanza di ministri. anche i laici, pur senza essere lettori o accoliti, possono supplire alcuni dei loro uffici, cioè esercitare il ministero della parola, presiede­re alle preghiere liturgiche, amministrare il Battesimo e distribuire la sacra Comunione, secondo le disposizioni del diritto.

LA LORO PARTECIPAZIONE ALL UFFICIO PROFETICO DI CRISTO

904 - «Cristo [...] adempie la sua funzione profetica... non solo per mezzo della gerarchia, (...) ma anche per mezzo dei laici, che perciò costituisce suoi testimoni e forma nel senso della fede e nella grazia del­la parola»: «Istruire qualcuno per condurlo alla fede è il compito di ogni predica­tore e anche di ogni credente.

905 - I laici compiono la loro missione profetica anche mediante l'evan­gelizzazione, cioè «con l'annunzio di Cristo fatto con la testimonianza della vita e con la parola». Questa azione evangelizzatrice ad opera dei laici «acquista una certa nota specifica e una particolare efficacia dal fatto che viene compiuta nelle comuni condizioni del secolo»: «Tale apostolato non consiste nella sola testimonianza della vita: il vero apostolo cerca le occasioni per annunziare Cristo con la parola, sia ai credenti (…), sia agli infedeli».

906 - Tra i fedeli laici coloro che ne sono capaci e che vi si preparano possono anche prestare la loro collaborazione alla formazione catechistica, all'insegnamento delle scienze sacre, ai mezzi di comunicazione sociale.

907 - «In rapporto alla scienza, alla competenza e al prestigio di cui godono, essi hanno il diritto, e anzi talvolta anche il dovere, di manifestare ai sacri Pa­stori il loro pensiero su ciò che riguarda il bene della Chiesa e di renderlo noto agli altri fedeli, salva restando l'integrità della fede e dei costumi e il rispetto verso i Pastori, tenendo inoltre presente l'utilità comune e la dignità della persona.

LA LORO PARTECIPAZIONE ALL' UFFICIO REGALE DI CRISTO

908 - Mediante la sua obbedienza fino alla morte, Cristo ha comunica­to ai suoi discepoli il dono della libertà regale, (perché con l'abnega­zione di sé e la vita santa vincano in se stessi il regno del peccato «Colui che sottomette il proprio corpo e governa la sua anima senza lasciarsi sommergere dalle passioni è padrone di sé: può essere chiama­to re perché è capace di governare la propria persona; è libero e indi­pendente e non si lascia imprigionare da una colpevole schiavitù.

909 - «Inoltre i laici, anche mettendo in comune la loro forza, risanino le istituzioni e le condizioni di vita del mondo, se ve ne sono che spin­gano i costumi al peccato, così che tutte siano rese conformi alle norme della giustizia e, anziché ostacolare, favoriscano l'esercizio delle virtù. Così agendo impregneranno di valore morale la cultura e i lavori del­l'uomo.

910 - «I laici [...] possono anche sentirsi chiamati o essere chiamati a collaborare con i loro Pastori nel servizio della comunità ecclesiale, per la crescita e la vitalità della medesima, esercitando ministeri diversissi­mi, secondo la grazia e i carismi che il Signore vorrà loro dispensare».

911 - Nella Chiesa, nell'esercizio della medesima potestà di governo, «i fedeli laici possono cooperare a norma del diritto. E questo mediante la loro pre­senza nei Concili particolari, nei Sinodi diocesani, nei Consigli pastorali; nell'esercizio della cura pastorale di una parrocchia; nella collaborazione ai Consigli degli affari economici; nella partecipazione ai tribunali ecclesiastici, ecc.

912 - I fedeli devono «distinguere accuratamente tra i diritti e i doveri che loro incombono in quanto sono aggregati alla Chiesa, e quelli che loro competono in quanto membri della società umana. Cerchino di metterli in armonia, ricordandosi che in ogni cosa temporale devono es­sere guidati dalla coscienza cristiana, poiché nessuna attività umana, neanche in materia temporale, può essere sottratta al dominio di Dio.

913 - «Così ogni laico, in ragione degli stessi doni ricevuti, è un testi­mone e insieme uno strumento vivo della missione della Chiesa stessa "secondo la misura del dono di Cristo" (Ef 4,7).

III. La vita consacrata.

914 - «Lo stato [di vita] che è costituito dalla professione dei consigli evangelici, pur non appartenendo alla struttura gerarchica della Chiesa, interessa tuttavia indiscutibilmente la sua vita e la sua santità.

CONSIGLI EVANGEUCI, VITA CONSACRATA

915 - I consigli evangelici, nella loro molteplicità, sono proposti ad ogni discepolo di Cristo. La perfezione della carità, alla quale tutti i fedeli sono chiamati, comporta per coloro che liberamente accolgono la voca­zione alla vita consacrata l'obbligo di praticare la castità nel celibato per il Regno, la povertà e l'obbedienza. È la professione ditali consigli, in uno stato di vita stabile riconosciuto dalla Chiesa, che caratterizza la «vita consacrata» a Dio.

916 - Lo stato di vita consacrata appare quindi come uno dei modi di conoscere una consacrazione «più intima», che si radica nel Battesimo e si dedica totalmente a Dio. Nella vita consacrata, i fedeli di Cristo si propongono, sotto la mozione dello Spirito Santo, di seguire Cristo più da vicino, di donarsi a Dio amato sopra ogni cosa e, tendendo alla perfezione della carità a servizio del Regno, di significare e annunziare nella Chiesa la gloria del mondo futuro.

UN GRANDE ALBERO DAI MOLTI RAMI

917 - «Come in un albero piantato da Dio e in un modo mirabile e molteplice ramificatosi nel campo del Signore, sono cresciute varie for­me di vita solitaria o comune e varie Famiglie, che si sviluppano sia per il profitto dei loro membri, sia per il bene di tutto il corpo di Cristo.

918 - «Fin dai primi tempi della Chiesa vi furono uomini e donne che per mez­zo della pratica dei consigli evangelici intesero seguire Cristo con maggiore li­bertà e imitarlo più da vicino e condussero, ciascuno a loro modo, una vita consacrata a Dio Molti di essi, dietro l'impulso dello Spirito Santo, o vissero una vita solitaria o fondarono Famiglie religiose, che la Chiesa con la sua auto­rità volentieri accolse e approvò».

919 - I Vescovi si premureranno sempre di discernere i nuovi doni della vita consacrata affidati dallo Spirito Santo alla sua Chiesa; l'approva­zione di nuove forme di vita consacrata è riservata alla Sede Apostolica.

LA VITA EREMITICA

920 - Senza professare sempre pubblicamente i tre consigli evangelici, gli eremiti, «in una più rigorosa separazione dal mondo, nel silenzio della solitudine e nell'assidua preghiera e nella penitenza, dedicano la propria vita alla lode di Dio e alla salvezza del mondo».

921 - Essi indicano a ogni uomo quell'aspetto interiore del mistero della Chiesa che è l'intimità personale con Cristo. Nascosta agli occhi degli uomini, la vita dell'eremita è predicazione silenziosa di colui al quale ha consegnato la sua vita, poiché egli è tutto per lui. È una chiamata particolare a trovare nel deserto, proprio nel combattimento spirituale, la gloria del Crocifisso.

LE VERGINI E LE VEDOVE CONSACRATE

922 - Fin dai tempi apostolici, ci furono vergini e vedove cristiane che, chiamate dal Signore a dedicarsi esclusivamente a lui in una mag­giore libertà di cuore, di corpo e di spirito, hanno preso la decisione, approvata dalla Chiesa, di vivere nello stato rispettivamente di verginità o di castità perpetua «per il regno dei cieli» (Mt l9,12).

923 - «Emettendo il santo proposito di seguire Cristo più da vicino, [le vergini] dal Vescovo diocesano sono consacrate a Dio secondo il rito li­turgico approvato e, unite in mistiche nozze a Cristo Figlio di Dio, si dedicano al servizio della Chiesa. Mediante questo rito solenne (Con­sacratio virginum), «la vergine è costituita persona consacrata» quale «segno trascendente dell'amore della Chiesa verso Cristo, immagine escatologica della Sposa celeste e della vita futura».

924 - Aggiungendosi alle altre forme di vita consacrata, l'ordine delle vergini stabilisce la donna che vive nel mondo (o la monaca) nella pre­ghiera, nella penitenza, nel servizio dei fratelli e nel lavoro apostolico, secondo lo stato e i rispettivi carismi offerti ad ognuna. Le vergini consacrate possono associarsi al fine di mantenere più fedelmente il loro proposito.

LA VITA RELIGIOSA

925 - Nata in Oriente nei primi secoli del cristianesimo e continuata negli istituti canonicamente eretti dalla Chiesa, la vita religiosa si distingue dalle altre forme di vita consacrata per l'aspetto cultuale, la professione pubblica dei consigli evangelici, la vita fraterna condotta in comune, la testimonianza resa all'unione di Cristo e della Chiesa.

926 - La vita religiosa sgorga dal mistero della Chiesa. E’ un dono che la Chiesa riceve dal suo Signore e che essa offre come uno stato di vita stabile al fedele chiamato da Dio nella professione dei consigli. Così la Chiesa può manifestare Cristo e insieme riconoscersi Sposa del Salvato­re. Alla vita religiosa, nelle sue molteplici forme, è chiesto di esprimere la carità stessa di Dio, nel linguaggio del nostro tempo.

927 - Tutti i religiosi, esenti o non esenti, sono annoverati fra i coope­ratori del Vescovo diocesano nel suo ufficio pastorale. La fondazione e l'espansione missionaria della Chiesa richiedono la presenza della vita religiosa in tutte le sue forme fin dagli inizi dell'evangelizzazione. «La storia attesta i grandi meriti delle Famiglie religiose nella propagazione della fede e nella formazione di nuove Chiese, dalle antiche istituzioni monastiche e dagli Ordini medievali fino alle moderne Congregazioni».

GLI ISTITUTI SECOLARI

928 - «L'istituto secolare è un istituto di vita consacrata in cui i fedeli, vivendo nel mondo, tendono alla perfezione della carità e si impegnano per la santificazione del mondo, soprattutto operando all'interno di esso.

929 - Mediante una «vita perfettamente e interamente consacrata a [ta­le] santificazione», i membri di questi istituti «partecipano della fun­zione evangelizzatrice della Chiesa», «nel mondo e dal mondo», in cui la loro presenza agisce come un fermento. La loro testimonianza di vita cristiana mira a ordinare secondo Dio le realtà temporali e vivi­ficare il mondo con la forza del Vangelo. Essi assumono con vincoli sa­cri i consigli evangelici e custodiscono tra loro la comunione e la frater­nità che sono proprie al loro modo di vita secolare.

LE SOCIETÀ DI VITA APOSTOLICA

930 - Alle diverse forme di vita consacrata o si aggiungono le società di vita apostolica i cui membri, senza voti religiosi, perseguono il fine apostolico pro­prio della società e, conducendo vita fraterna in comunità secondo un proprio stile, tendono alla perfezione della carità mediante l'osservanza delle costituzio­ni. Fra queste vi sono società i cui membri assumono i consigli evangelici», secondo le loro costituzioni.

CONSACRAZIONE E MISSIONE: ANNUNZIARE IL RE CHE VIENE

931 - Consegnato a Dio sommamente amato, colui che già era stato vo­tato a lui dal Battesimo, si trova in tal modo più intimamente consa­crato al servizio divino e dedito al bene della Chiesa. Con lo stato di consacrazione a Dio, la Chiesa manifesta Cristo e mostra come lo Spi­rito Santo agisca in essa in modo mirabile. Coloro che professano i consigli evangelici hanno, dunque, come prima missione, quella di vive­re la loro consacrazione. Ma «dal momento che in forza della stessa consacrazione si dedicano al servizio della Chiesa, sono tenuti all'obbli­go di prestare l'opera loro in modo speciale nell'azione missionaria, con lo stile proprio dell'Istituto».

932 - Nella Chiesa che è come il sacramento, cioè il segno e lo strumen­to della vita di Dio, la vita consacrata appare come un segno particola­re del mistero della redenzione. Seguire e imitare Cristo «più da vici­no», manifestare «più chiaramente» il suo annientamento, significa trovarsi «più profondamente» presenti, nel cuore di Cristo, ai propri contemporanei. Coloro, infatti, che camminano in questa via «più stretta» stimolano con il proprio esempio i loro fratelli e «testimoniano in modo splendido che il mondo non può essere trasfigurato e offer­to a Dio senza lo spirito delle beatitudini.

933 - Che tale testimonianza, sia pubblica, come nello stato religioso, oppure più discreta, o addirittura segreta, la venuta di Cristo rimane per tutti i consacrati l'origine e l'orientamento della loro vita: Poiché il popolo di Dio non ha qui città permanente. [...1 (lo stato re­ligioso) rende visibile per tutti i credenti la presenza, già in questo mondo, dei beni celesti; meglio testimonia la vita nuova ed eterna acquistata dalla redenzione di Cristo, e meglio preannunzia la futura ri­surrezione e la gloria del regno celeste».

In sintesi

934 - «Per istituzione divina vi sono nella Chiesa tra i fedeli i ministri sa­cri, che nel diritto sono chiamati anche chierici; gli altri poi sono chiamati anche laici». Dagli uni e dagli altri provengono fedeli, i quali, con la professione dei consigli evangelici, sono consacrati a Dio e così danno incremento alla missione della Chiesa.

935 - Per annunziare la fede e instaurare il suo regno, Cristo invia i suoi Apostoli e i loro successori. Li rende partecipi della sua missione. Da lui ricevono il potere di agire in sua persona.

936 - Il Signore ha fatto di san Pietro il fondamento visibile della sua Chiesa. A lui ne ha affidato le chiavi. Il Vescovo della Chiesa di Ro­ma, Successore di san Pietro, e «Capo del Collegio dei Vescovi, Vicario di Cristo e Pastore qui in terra della Chiesa universale».

937 - Il Papa «e per divina istituzione rivestito di un potere supremo, pieno, immediato e universale per il bene delle anime».

938 - I Vescovi, costituiti per mezzo dello Spirito Santo, succedono agli Apostoli. «Singolarmente presi, sono il principio visibile e il fondamento dell'unità nelle loro Chiese particolari».

939 - Aiutati dai presbiteri, loro cooperatori, e dai diaconi, i Vescovi han­no l'ufficio di insegnare autenticamente la fede, di celebrare il culto divino, soprattutto l'Eucaristia, e di guidare la loro Chiesa da veri Pastori. E inerente al loro ufficio anche la sollecitudine per tutte le Chiese, con il Papa e sotto di lui.

940 - «I laici, essendo proprio del loro stato che vivano nel mondo e in mezzo agli affari secolari, sono chiamati da Dio affinché, ripieni di spirito cristiano, a modo di fermenta esercitino nel mondo il loro apostolato».

941 - I laici partecipano al sacerdozio di Cristo: sempre più uniti a lui, di­spiegano la grazia del Battesimo e della Confermaziane in tutte le dimensioni della vita personale, familiare, sociale ed ecclesiale, e rea­lizzano casì la chiamata alla santità rivolta a tutti i battezzati.

942 - Grazie alla loro missione profetica, «i laici sana chiamati anche ad essere testimoni di Cristo in mezzo a tutti, e cioè pure in mezza alla società umana».

943 - Grazie alla loro missione regale, i laici hanno il potere di vincere in se stessi e nel manda il regna del peccata con l'abnegazione di sé e la santità della loro vita.

944 - La vita consacrata a Dio si caratterizza mediante la professione pub­blica dei consigli evangelici di povertà, castità e obbedienza in uno stato di vita stabile riconosciuta dalla Chiesa.

945 - Consegnato a Dio sommamente amata, colui che era già stata desti­nato a lui dal Battesimo si trova, nella stata di vita consacrata, più intimamente votato al servizio divina e dedita al bene di tutta la Chiesa.

Paragrafo 5

LA COMUNIONE DEI SANTI

946 - Dopo aver confessato «la santa Chiesa cattolica», il Simbolo de­gli Apostoli aggiunge «la comunione dei santi». Questo articolo è, per certi aspetti, una esplicitazione del precedente: «Che cosa è la Chiesa se non l'assemblea di tutti i santi? La comunione dei santi è precisa­mente la Chiesa.

947 - «Poiché tutti i credenti formano un solo corpo, il bene degli uni è comunicato agli altri. […] Allo stesso modo bisogna credere che esista una comunione di beni nella Chiesa. Ma il membro più importante è Cristo, poiché è il Capo. [...] Pertanto, il bene di Cristo è comunicato a tutte le membra; ciò avviene mediante i sacramenti della Chiesa». «L'unità dello Spirito, da cui la Chiesa è animata e retta, fa sì che tut­to quanto essa possiede sia comune a tutti coloro che vi appartengono.

948 - Il termine «comunione dei santi» ha pertanto due significati, strettamente legati: «comunione alle cose sante (sancta) e «comunione tra le persone sante (sancti)». «Soncta sanctis!» - le cose sante ai santi - viene proclamato dal cele­brante nella maggior parte delle liturgie orientali, al momento dell'ele­vazione dei santi Doni, prima della distribuzione della Comunione. I fe­deli “sancti” vengono nutriti del Corpo e del Sangue di Cristo (sancta) per crescere nella comunione dello Spirito Santo e comuni­carla al mondo.

I. La comunione dei beni spirituali.

949 - Nella prima comunità di Gerusalemme, i discepoli «erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli Apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42). La comunione nella fede. La fede dei fedeli è la fede della Chiesa ri­cevuta dagli Apostoli, tesoro di vita che si accresce mentre viene condiviso.

950 - La comunione dei sacramenti. «Il frutto di tutti i sacramenti appartiene cosi a tutti i fedeli, i quali per mezzo dei sacramenti stessi, come altrettante arterie misteriose, sono uniti e incorporati in Cristo. Soprattutto il Battesimo è al tempo stesso porta per cui si entra nella Chiesa e vincolo dell'unione a Cristo [...]. La comunione dei santi significa questa unione operata dai sacramenti [...]. Il nome di “comu­nione” conviene a tutti i sacramenti in quanto ci uniscono a Dio [...]; più propriamente però esso si addice all'Eucaristia che in modo affatto speciale attua questa intima e vitale comunione soprannaturale.

951 - La comunione dei carismi. Nella comunione della Chiesa, lo Spirito Santo «dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali» per l'e­dificazione della Chiesa. Ora «a ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per l'utilità comune (I Car 12,7).

952 - «Ogni casa era fra loro comune» (At 4,32). «Il cristiano veramen­te tale nulla possiede di così strettamente suo che non lo debba ritenere in comune con gli altri, pronto quindi a sollevare la miseria dei fratelli più poveri. Il cristiano è un amministratore dei beni del Signore.

953 - La comunione della carità. Nella «comunione dei santi» «nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso» (Rm 14,7). «Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un mem­bro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte» (1 Car 12,26-27). «La carità non cerca il proprio interesse» (I Car 13.5). Il più piccolo dei nostri atti compiuto nella carità ha ripercussioni benefiche per tutti, in forza di questa solidarietà con tutti gli uomini, vivi o morti, solida­rietà che si fonda sulla comunione dei santi. Ogni peccato nuoce a que­sta comunione.

Il. La comunione della Chiesa del cielo e della terra.

954 - I tre stati della Chiesa. «Fino a che il Signore non verrà nella sua gloria e tutti gli angeli con lui e, distrutta la morte, non gli saranno sottomesse tutte le cose, alcuni dei suoi discepoli sono pellegrini sulla terra, altri che sono passati da questa vita stanno purificandosi, altri infine godono della gloria contemplando chiaramente Dio uno e trino, qual è»: «Tutti però, sebbene in grado e modo diverso, comunichiamo nella stessa carità di Dio e del prossimo e cantiamo al nostro Dio lo stesso inno di gloria. Tutti quelli che sono di Cristo, infatti, avendo il suo Spirito formano una sola Chiesa e sono tra loro uniti in lui».

955 - «L'unione quindi di coloro che sono in cammino coi fratelli mor­ti nella pace di Cristo non è minimamente spezzata, anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali».

956 - L'intercessione dei santi. «A causa infatti della loro più intima unione con Cristo, i beati rinsaldano tutta la Chiesa nella santità [...]. Non cessano di intercedere per noi presso il Padre, offrendo i meriti ac­quistati in terra mediante Gesù Cristo, unico mediatore tra Dio e gli uomini. [...] La nostra debolezza quindi è molto aiutata dalla loro fraterna sollecitudine»: «Non piangete. Io vi sarò più utile dopo la mia morte e vi aiuterò più efficacemente di quando ero in vita». «Passerò il mio cielo a fare del bene sulla terra».

957 - La comunione con i santi. «Non veneriamo la memoria dei santi solo a titolo d'esempio, ma più ancora perché l'unione di tutta la Chie­sa nello Spirito sia consolidata dall'esercizio della fraterna carità. Poi­ché come la cristiana comunione tra coloro che sono in cammino ci porta più vicino a Cristo, così la comunione con i santi ci unisce a Cri­sto, dal quale, come dalla fonte e dal capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso popolo di Dio»: «Noi adoriamo Cristo quale Figlio di Dio, mentre ai martiri siamo giu­stamente devoti in quanto discepoli e imitatori del Signore e per la loro suprema fedeltà verso il loro Re e Maestro; e sia dato anche a noi di farci loro compagni e condiscepoli».

958 - La comunione con i defunti. «La Chiesa di quelli che sono in cam­mino, riconoscendo benissimo questa comunione di tutto il corpo mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana ha col­tivato con una grande pietà la memoria dei defunti e, poiché ”santo e salutare è il pensiero di pregare per i defunti perché siano assolti dai peccati” (2 Mac 12,46), ha offerto per loro anche i suoi suffragi. La nostra preghiera per loro può non solo aiutarli, ma anche rendere efficace la loro intercessione in nostro favore.

959 - Nell'unica famiglia di Dia. «Tutti noi che siamo figli di Dio e co­stituiamo in Cristo una sola famiglia, mentre comunichiamo tra di noi nella mutua carità e nell'unica lode della Trinità Santissima, corrispon­diamo all'intima vocazione della Chiesa».

In sintesi

960 - La Chiesa è «comunione dei santi»: questa espressione designa pri­mariamente le «cose sante» (sancta), e innanzi tutto l'Eucaristia con la quale «viene rappresentata e prodotta l'unità dei fedeli, che costituiscono un salo corpo in Cristo».

961 - Questa termine designa anche la comunione delle «persone sante» (sancti) nel Cristo che è «morto per tutti», in modo che quanto ognuno fa o soffre in e per Cristo parta frutto per tutti.

962 - «Noi crediamo alla comunione di tutti i fedeli di Cristo, di coloro che sano pellegrini su questa terra, dei defunti che compiono la loro purificazione e dei beati del cielo; tutti insieme formano una sala Chiesa; noi crediamo che in questa comunione l'amare misericordioso di Dio e dei suoi santi ascolta costantemente le nostre preghiere».

Paragrafo 6

MARIA - MADRE DI CRISTO, MADRE DELLA CHIESA

963 - Dopo aver parlato del ruolo della beata Vergine Maria nel miste­ro di Cristo e dello Spirito, è ora opportuno considerare il suo posto nel mistero della Chiesa. «Infatti la Vergine Maria (…) è riconosciuta e onorata come la vera Madre di Dio e del Redentore. (…) Insieme però (…) è veramente “Madre delle membra” (di Cristo), (...) perché ha coo­perato con la sua carità alla nascita dei fedeli nella Chiesa, i quali di quel Capo sono le membra. «Maria, [...] Madre di Cristo, Madre della Chiesa».

I. La maternità di Maria verso la Chiesa.

INTERAMENTE UNITA AL FIGI.IO SUO...

964 - Il ruolo di Maria verso la Chiesa è inseparabile dalla sua unione a Cristo e da essa direttamente deriva. «Questa unione della Madre col Figlio nell'opera della redenzione si manifesta dal momento della conce­zione verginale di Cristo fino alla morte di lui». Essa viene particolar­mente manifestata nell'ora della sua passione: «La beata Vergine ha avanzato nel cammino della fede e ha conservato fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, soffrì profondamente col suo Figlio unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosa­mente consenziente all'immolazione della vittima da lei generata; e fi­nalmente, dallo stesso Cristo Gesù morente in croce fu data come ma­dre al discepolo con queste parole: «“Donna, ecco il tuo figlio”». 965 Dopo l'ascensione del suo Figlio, Maria «con le sue preghiere aiutò le primizie della Chiesa». Riunita con gli Apostoli e alcune don­ne, «anche Maria implorava con le sue preghiere il dono dello Spirito, che l'aveva già presa sotto la sua ombra nell'annunciazione».

ANCHE NELLA SUA ASSUNZIONE...

966 - «Infine, l'immacolata Vergine, preservata immune da ogni mac­chia di colpa originale, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria col suo corpo e con la sua anima, e dal Signore esal­tata come la Regina dell'universo, perché fosse più pienamente confor­mata al Figlio suo, il Signore dei dominanti, il vincitore del peccato e della morte. L’assunzione della santa Vergine è una singolare parteci­pazione alla risurrezione del suo Figlio e un'anticipazione della risurre­zione degli altri cristiani: «Nella tua maternità hai conservato la verginità, nella tua dormizione non hai abbandonato il mondo, Madre di Dio: hai raggiunto la sor­gente della Vita, tu che hai concepito il Dio vivente e che con le tue preghiere libererai le nostre anime dalla morte».

ELLA E NOSTRA MADRE NELL'ORDINE DELLA GRAZIA

967 - Per la sua piena adesione alla volontà del Padre, all'opera reden­trice del suo Figlio, ad ogni mozione dello Spirito Santo, la Vergine Maria è il modello della fede e della carità per la Chiesa. «Per questo è riconosciuta quale sovreminente e del tutto singolare membro della Chiesa» «ed è la figura (typus) della Chiesa».

968 - Ma il suo ruolo in rapporto alla Chiesa e a tutta l'umanità va an­cora più lontano. «Ella ha cooperato in modo tutto speciale all'opera del Salvatore, con l'obbedienza, la fede, la speranza e l'ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo è stata per noi la Madre nell'ordine della grazia.

969 - «Questa maternità di Maria nell'economia della grazia perdura senza soste dal momento del consenso prestato nella fede al tempo del­l’annunciazione, e mantenuto senza esitazioni sotto la croce, fino al per­petuo coronamento di tutti gli eletti. Difatti, assunta in cielo ella non ha deposto questa missione di salvezza, ma con la sua molteplice intercessione continua ad ottenerci i doni della salvezza eterna. [...] Per questo la beata Vergine è invocata nella Chiesa con i titoli di Avvocata, Ausiliatrice, Soccorritrice, Mediatrice».

970 - «La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce [...] l'unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l'efficacia. Infatti Ogni salutare influsso della beata Vergine [...] sgorga dalla sovrabbondanza dei meriti di Cristo, si fonda sulla mediazione di lui, da essa assolutamente dipende e attinge tutta la sua efficacia. «Nessuna creatura infatti può mai essere pa­ragonata col Verbo incarnato e redentore, ma come il sacerdozio di Cristo è in vari modi partecipato dai sacri ministri e dal popolo fedele, e come l'unica bontà di Dio è realmente diffusa in vari modi nelle creature, così anche l'unica mediazione del Redentore non esclude, ma suscita nelle creature una varia coo­perazione partecipata dall'unica fonte».

lI. Il culto della santa Vergine.

971 - «Tutte le generazioni mi chiameranno beata» (Lc 1,48). «La pietà della Chiesa verso la santa Vergine è elemento intrinseco del culto cri­stiano. La santa Vergine «viene dalla Chiesa giustamente onorata con un culto speciale. In verità dai tempi più antichi la beata Vergine è venerata col titolo di “Madre di Dio”, sotto il cui presidio i fedeli, pre­gandola, si rifugiano in tutti i loro pericoli e le loro necessità. [...] Que­sto culto [...], sebbene del tutto singolare, differisce essenzialmente dal culto di adorazione, prestato al Verbo incarnato come al Padre e allo Spirito Santo, e particolarmente lo promuove»; esso trova la sua espressione nelle feste liturgiche dedicate alla Madre di Dio e nella preghiera mariana come il santo Rosario, «compendio di tutto quanto il Vangelo».

III. Maria - icona escatologica della Chiesa.

972 - Dopo aver parlato della Chiesa, della sua origine, della sua mis­sione e del suo destino, non sapremmo concludere meglio che volgendo lo sguardo verso Maria per contemplare in lei ciò che la Chiesa è nel suo mistero, nel suo «pellegrinaggio della fede», e quello che sarà nella patria al termine del suo cammino, dove l'attende, nella «gloria della Santissima e indivisibile Trinità», «nella comunione di tutti i santi colei che la Chiesa venera come la Madre del suo Signore e come sua propria Madre: «La Madre di Gesù, come in cielo, glorificata ormai nel corpo e nell'a­nima, è l'immagine e la primizia della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell'età futura, così sulla terra brilla come un segno di sicura speranza e di consolazione per il popolo di Dio in cammino».

In sintesi

973 - Pronunziando il «Fiat» dell’annunciaziane e dando il suo consenso al mistero dell'incarnazione, Maria già collabora a tutta l'opera che il Figlio suo deve compiere. Ella è Madre dovunque egli è Salvatore e Capo del corpo mistico.

974 - La santissima Vergine Maria, dopo aver terminato il corso della sua vita terrena, fu elevata, corpo e anima, alla gloria del cielo, dove già partecipa alla gloria della risurrezione del suo Figlio, anticipando la risurrezione di tutte le membra del sua corpo.

975 - «Noi crediamo che la santissima Madre di Dia, nuova Eva, Madre della Chiesa, continua in cielo il suo ruolo materno versa le membra di Cristo».

Articolo 10

«CREDO LA REMISSIONE DEI PECCATI»

976 - Il Simbolo degli Apostoli lega la fede nel perdono dei peccati alla fede nello Spirito Santo, ma anche alla fede nella Chiesa e nella comu­nione dei santi. Proprio donando ai suoi Apostoli lo Spirito Santo, Cri­sto risorto ha loro conferito il suo potere divino di perdonare i peccati: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20,22-23). (La seconda parte del Catechismo tratterà esplicitamente del perdono dei pecca­ti per mezzo del Battesimo, del sacramento della Penitenza e degli altri sacra­menti, specialmente dell'Eucaristia. Pertanto qui è sufficiente richiamare breve­mente qualche dato fondamentale).

I. Un solo Battesimo per la remissione dei peccati.

977 - Nostro Signore ha legato il perdono dei peccati alla fede e al Battesimo: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura. Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo» (Mc 16,l5-l6). Il Battesimo è il primo e principale sacramento per il perdono dei peccati perché ci unisce a Cristo messo a morte per i nostri peccati e risuscitata per la nostra giustificazione, affinché «anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4).

978 - «La remissione dei peccati nella Chiesa avviene innanzi tutto quando l'anima professa per la prima volta la fede. Con l'acqua batte­simale, infatti, viene concesso un perdono talmente ampio che non ri­mane più alcuna colpa né originale né ogni altra contratta posterior­mente e viene rimessa ogni pena da scontare. La grazia del Battesi­mo, peraltro, non libera la nostra natura dalla sua debolezza; anzi non vi è quasi nessuno» che non debba lottare «contro la concupiscenza, fomite continuo del peccato.

979 - In tale combattimento contro l'inclinazione al male, chi potrebbe resistere con tanta energia e con tanta vigilanza da riuscire ad evitare ogni ferita del peccato? «Fu quindi necessario che nella Chiesa vi fosse la potestà di rimettere i peccati anche in modo diverso dal sacramento del Battesimo. Per questa ragione Cristo consegnò alla Chiesa le chiavi del regno dei cieli, in virtù delle quali potesse perdonare a qualsiasi peccatore pentito i peccati commessi dopo il Battesimo, fino all'ultimo giorno della vita.

980 - È per mezzo del sacramento della Penitenza che il battezzato può essere riconciliato con Dio e con la Chiesa: «I Padri hanno giustamente chiamato la Penitenza "un Battesimo labo­rioso". Per coloro che sono caduti dopo il Battesimo questo sacramen­to della Penitenza è necessario alla salvezza come lo stesso Battesimo per quelli che non sono stati ancora rigenerati».

l. Il potere delle chiavi.

981 - Cristo dopo la sua risurrezione ha inviato i suoi Apostoli a predi­care «nel suo nome (…) a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati» (Lc 24,47). Tale «ministero della riconciliazione» (2 Cor 5,18) non viene compiuto dagli Apostoli e dai loro successori solamente an­nunziando agli uomini il perdono di Dio meritato per noi da Cristo e chiamandoli alla conversione e alla fede, ma anche comunicando loro la remissione dei peccati per mezzo del Battesimo e riconciliandoli con Dio e con la Chiesa grazie al potere delle chiavi ricevuto da Cristo: La Chiesa «ha ricevuto le chiavi del regno dei cieli, affinché in essa si compia la remissione dei peccati per mezzo del sangue di Cristo e dell'azione dello Spirito Santo. In questa Chiesa l'anima, che era morta a causa dei peccati, rinasce per vivere con Cristo, la cui grazia ci ha sal­vati.

982 - Non c'è nessuna colpa, per grave che sia, che non possa essere perdonata dalla santa Chiesa. «Non si può ammettere che ci sia un uomo, per quanto infame e scellerato, che non possa avere con il pentimento la certezza del perdono. Cristo, che è morto per tutti gli uomini, vuole che, nella sua Chiesa, le porte del perdono siano sempre aperte a chiunque si allontani dal peccato.

983 - La catechesi si sforzerà di risvegliare e coltivare nei fedeli la fede nella incomparabile grandezza del dono che Cristo risorto ha fatto alla sua Chiesa: la missione e il potere di perdonare veramente i peccati, mediante il ministero degli Apostoli e dei loro successori. «Il Signore vuole che i suoi discepoli abbiano i più ampi poteri; vuole che i suoi servi facciano in suo nome ciò che faceva egli stesso, quando era sulla terra . I sacerdoti «hanno ricevuto un potere che Dio non ha concesso né agli angeli né agli arcangeli. (…) Quello che i sacerdoti compiono quaggiù, Dio lo conferma lassù». Se nella Chiesa non ci fosse la remissione dei peccati, «non ci sarebbe nessuna speranza, nessuna speranza di una vita eterna e di una liberazione eterna. Rendiamo grazie a Dio che ha tatto alla sua Chiesa un tale dono».

In sintesi

984 - Il Credo mette in relazione «la remissione dei peccati» con la profèssione di fede nello Spirito Santo. Infatti, Cristo risorto ha affidato agli Apostoli il potere di perdonare i peccati quando ha loro donato lo Spirito Santo.

985 - Il Battesimo è il primo e principale sacramento per il perdono dei peccati: ci unisce a Cristo morto e risorto e ci dona lo Spirito Santo.

986 - Secondo la volontà di Cristo, la Chiesa possiede il potere di perdona­re i peccati dei battezzati e lo esercita per mezzo dei Vescovi e dei sacerdoti normalmente nel sacramento della Penitenza.

987 - «I sacerdoti e i sacramenti sono gli strumenti per il perdono dei pec­cati; strumenti per mezzo dei quali Gesù Cristo, autore e dispensato­re della salvezza, opera in noi la remissione dei peccati e genera la grazia».

Articolo 11

«CREDO LA RISURREZIONE DELLA CARNE»

988 - Il Credo cristiano professione della nostra fede in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo, e nella sua azione creatrice, salvifica e santifican­te culmina nella proclamazione della risurrezione dei morti alla fine dei tempi, e nella vita eterna.

989 - Noi fermamente crediamo e fermamente speriamo che, come Cristo é veramente risorto dai morti e vive per sempre, così pure i giusti, dopo la loro morte, vivranno per sempre con Cristo risorto, e che egli li risusciterà nell'ultimo giorno Come la sua, anche la nostra risurre­zione sarà opera della Santissima Trinità: «Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Gesù dai morti abita in voi, colui che ha risuscitata Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in vai» (Rm 8,11).

990 - Il termine «carne» designa l'uomo nella sua condizione di debolezza e di mortalità. La «risurrezione della carne» significa che, dopo la morte, non ci sarà soltanto la vita dell'anima immortale, ma che anche i nostri «corpi mortali» (Rm 8,11) riprenderanno vita.

991 - Credere nella risurrezione dei morti è stato un elemento essenziale della fede cristiana fin dalle sue origini. «Fiducia christianorum resur­rectio mortuorum; illam credentes, sumus - La risurrezione dei morti è la fede dei cristiani: credendo in essa siamo tali»: «Come possono dire alcuni tra vai che non esiste risurrezione dei morti'? Se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo i risuscitata! Ma se Cristo non è risuscitata, allora è vana la nostra predicazione ed è va­na anche la vostra fede [...]. Ora, invece, Cristo è risuscitata dai morti, primizia di coloro che sono morti» (I Cor 15,12-14.20).

I. La risurrezione di Cristo e la nostra.

RIVELAZIONE PROGRESSIVA DELLA RISURREZIONE

992 - La risurrezione dei morti è stata rivelata da Dio al suo popolo progressivamente. La speranza nella risurrezione corporea dei morti si è imposta come una conseguenza intrinseca della fede in un Dio Creatore di tutto intero l'uomo, anima e corpo. Il Creatore del cielo e della terra è anche colui che mantiene fedelmente la sua Alleanza con Abramo e con la sua discendenza. É in questa duplice prospettiva che comincerà ad esprimersi la fede nella risurrezione. Nelle loro prove i martiri Mac­cabei confessano: «Il Re del mando, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risuscite­rà a vita nuova ed eterna» (2 Mac 7,9). «È bello morire a causa degli uomini, per attendere da Dio l'adempimento delle speranze di essere da lui di nuovo risuscitati» (2 Mac 7,l4).

993 - I farisei e molti contemporanei del Signore speravano nella risurrezione. Gesù la insegna con fermezza. Ai sadducei che la negano risponde: «Non siete voi forse in errore dal momento che non conoscete le Scritture, né la potenza di Dio?» (Mc 12,24). La fede nella risurrezione riposa sulla fede in Dio che «non è un Dio dei morti, ma dei viventi!» (Mc 12,27).

994 - Ma c'è di più. Gesù lega la fede nella risurrezione alla sua stessa persona: «lo sono la risurrezione e la vita» (Gv 11,25). Sarà lo stesso Gesù a risuscitare nell'ultimo giorno coloro che avranno creduto in lui e che avranno mangiato il suo Corpo e bevuto il suo Sangue. Egli fin d'ora ne dà un segno e una caparra facendo tornare in vita al­cuni morti, annunziando con ciò la sua stessa risurrezione, la quale però sarà di un altro ordine. Di tale avvenimento senza eguale parla come del segno di Giona, del segno del Tempio: annunzia la sua ri­surrezione al terzo giorno dopo essere stato messo a morte.

995 - Essere testimone di Cristo è essere «testimone della sua risurre­zione» (At I ,22), aver «mangiato e bevuto con lui dopo la sua risur­rezione dai morti» (At 10,41). La speranza cristiana nella risurrezione è contrassegnata dagli incontri con Cristo risorto. Noi risusciteremo come lui, con lui, per mezzo di lui.

996 - Fin dagli inizi, la fede cristiana nella risurrezione ha incontrato incomprensioni ed opposizioni. «In nessun altro argomento la fede cristiana incontra tanta opposizione come a proposito della risurrezione della carne. Si accetta abbastanza facilmente che, dopo la morte, la vita della persona umana continui in un modo spirituale. Ma come cre­dere che questo corpo, la cui mortalità è tanto evidente, possa risorgere per la vita eterna?

COME RISUSCITANO I MORTI?

997 - Che cosa significa «risuscitare»? Con la morte, separazione dell'anima e del corpo, il corpo dell'uomo cade nella corruzione, mentre la sua anima va incontro a Dio, pur restando in attesa di essere riunita al suo corpo glorificato. Dio nella sua onnipotenza restituirà definitiva­mente la vita incorruttibile ai nostri corpi riunendoli alle nostre anime, in forza della risurrezione di Gesù.

998 - Chi risusciterà? Tutti gli uomini che sono morti: «Usciranno [dai sepolcri], quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fe­cero il male per una risurrezione di condanna» (Gv 5,29).

999 - Come? Cristo è risorto con il suo proprio corpo: «Guardate le mie mani e miei piedi: sono proprio io!» (Lc 24,39); ma egli non è ritornato ad una vita terrena. Allo stesso modo, in lui, «tutti risorge­ranno coi corpi di cui ora sono rivestiti ma questo corpo sarà trasfi­gurato in corpo glorioso, in «corpo spirituale» (1 Cor I 5,44): «Ma qualcuno dirà: ”Come risuscitano i morti? Con quale corpo ver­ranno?”. Stolto! Ciò che tu semini non prende vita, se prima non muo­re, e quella che semini non é corpo che nascerà, ma un semplice chicco [...]. Si semina corruttibile e risorge incorruttibile. [...] È necessa­ria infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e que­sta corpo mortale si vesta di immortalità » (1 Cor 15,35-37.42.52-53).

1000 - Il «modo con cui avviene la risurrezione» supera le possibilità della nostra immaginazione e del nostro intelletto; è accessibile solo nel­la fede. Ma la nostra partecipazione all'Eucaristia ci fa già pregustare la trasfigurazione del nostro corpo per opera di Cristo: «Come il pane che é frutto della terra, dopo che é stata invocata su di essa la benedizione divina, non è più pane comune, ma Eucaristia, composta di due realtà, una terrena, l'altra celeste, così i nastri corpi che ricevono l'Eucaristia non sono più corruttibili, dal momento che portano in sé il germe della risurrezione».

1001 - Quando? Definitivamente «nell'ultimo giorno» (Gv 6,39-40.44.54; 11,24); «alla fine del mondo Infatti, la risurrezione dei morti è inti­mamente associata alla parusia di Cristo: «Perché il Signore stesso, a un ordine, alla voce dell'arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo» (1 Ts 4,16).

RISUSCITATI CON CRISTO

1002 - Se è vero che Cristo ci risusciterà «nell'ultimo giorno», è anche vero che, per un certo aspetto, siamo già risuscitati con Cristo. Infatti, grazie allo Spirito Santo, la vita cristiana, fin d'ora su questa terra, è una partecipazione alla morte e alla risurrezione di Cristo: «Con lui infatti siete stati sepolti insieme nel Battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitata dai morti [...]. Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio» (Col 2,12; 3,1).

1003 - I credenti, uniti a Cristo mediante il Battesimo, partecipano già realmente alla vita celeste di Cristo risorto, ma questa vita rimane «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). «Con lui, [Dio] ci ha anche ri­suscitati e ci ha fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù» (Ef 2,6). Nutriti del suo Corpo nell'Eucaristia, apparteniamo già al corpo di Cristo. Quando risusciteremo nell'ultimo giorno «allora» saremo anche noi «manifestati con lui nella gloria» (Col 3,4).

1004 - Nell'attesa di quel giorno, il corpo e l'anima del credente già partecipano alla dignità di essere «in Cristo»; di qui l'esigenza di rispetto verso il proprio corpo, ma anche verso quello degli altri, particolarmente quando soffre: «Il corpo é per il Signore e il Signore è per il corpo. Dio poi che ha risuscitata il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. Non sa­pete che i vostri corpi sano membra di Cristo? [...] Non appartenete a vai stessi. [...] Glorificate dunque Dio nel vostra corpo (1 Cor 6,13-15.19-20)

Il. Morire in Cristo Gesù.

1005 - Per risuscitare con Cristo, bisogna morire con Cristo, bisogna «andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore» (2 Cor 5,8). In questo «essere sciolto» che è la morte, l'anima viene separata dal corpo. Essa sarà riunita al suo corpo il giorno della risurrezione dei morti.

LA MORTE

1006 - «In faccia alla morte l'enigma della condizione umana diventa sommo». Per un verso la morte corporale è naturale, ma per la fede essa in realtà è «salario del peccato» (Rm 6,23). E per coloro che muoiono nella grazia di Cristo, è una partecipazione alla morte del Signore, per poter partecipare anche alla sua risurrezione.

1007 - La morte e' il termine della vita terrena. Le nostre vite sono misu­rate dal tempo, nel corso del quale noi cambiamo, invecchiamo e, come per tutti gli esseri viventi della terra, la morte appare come la fine nor­male della vita. Questo aspetto della morte comporta un'urgenza per le nostre vite: infatti il far memoria della nostra mortalità serve anche a ricordarci che abbiamo soltanto un tempo limitato per realizzare la nostra esistenza. «Ricordati del tuo Creatore nei giorni della tua giovinezza [...] prima che ritorni la polvere alla terra, com'era prima, e lo spirito torni a Dio che lo ha dato» (Qo 12,1.7).

1008 - La morte é conseguenza del peccato. Interprete autentico delle af­fermazioni della Sacra Scrittura e della Tradizione, il Magistero della Chiesa insegna che la morte è entrata nel mondo a causa del peccato dell'uomo. Sebbene l'uomo possedesse una natura mortale, Dio lo de­stinava a non morire. La morte fu dunque contraria ai disegni di Dio Creatore ed essa entrò nel mondo come conseguenza del peccato». «La morte corporale, dalla quale l'uomo sarebbe stato esentato se non aves­se peccato» è pertanto «l'ultimo nemico» (I Cor 15,26) dell'uomo a dover essere vinto.

1009 - La morte é trasformata da Cristo. Anche Gesù, il Figlio di Dio ha subito la morte, propria della condizione umana. Ma, malgrado la sua angoscia di fronte ad essa, egli la assunse in un atto di totale e li­bera sottomissione alla volontà del Padre suo. L'obbedienza di Gesù ha trasformato la maledizione della morte in benedizione.

IL SENSO DELLA MORTE CRISTIANA

1010 - Grazie a Cristo, la morte cristiana ha un significato positivo. «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21) «Certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo anche con lui» (2 Tm 2,11). Qui sta la novità essenziale della morte cristiana: mediante il Battesimo, il cristiano è già sacramentalmente «morto con Cristo», per vivere di una vita nuova; e se noi moriamo nella grazia di Cristo, la morte fisica consuma questo «morire con Cristo» e compie così la nostra incorporazione a lui nel suo atto redentore: Per me è meglio morire per Gesù Cristo, che essere re fino ai confini della terra. Io cerco colui che morì per noi; io voglio colui che per noi risuscitò. Il parto è imminente. [...] Lasciate che io raggiunga la pura luce; giunto là, sarò veramente un uomo».

1011 - Nella morte, Dio chiama a sé l'uomo. Per questo il cristiano può provare nei riguardi della morte un desiderio simile a quello di san Paolo: «il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo» (Fil 1,23); e può trasformare la sua propria morte in un atto di obbe­dienza e di amore verso il Padre, sull'esempio di Cristo: Ogni mio desiderio terreno è crocifisso; [...] un'acqua viva mormora dentro di me e interiormente mi dice: «”Vieni al Padre!” ». «Voglio vedere Dio, ma per vederlo bisogna morire «Non muoio, entro nella vita».

1012 - La visione cristiana della morte è espressa in modo impareggia­bile nella liturgia della Chiesa: «Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non é tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un'abita­zione eterna nel cielo.

1013 - La morte è la fine del pellegrinaggio terreno dell'uomo, è la fine del tempo della grazia e della misericordia che Dio gli offre per realiz­zare la sua vita terrena secondo il disegno divino e per decidere il suo destino ultimo. Quando è «finito l'unico corso della nostra vita terre­na», noi non ritorneremo più a vivere altre vite terrene. «E’ stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta» (Eb 9,27). Non c’è «rein­carnazione» dopo la morte.

1014 - La Chiesa ci incoraggia a prepararci all'ora della nostra morte («Dalla morte improvvisa, liberaci, Signore»: antiche Litanie dei santi), a chiedere alla Madre di Dio di intercedere per noi «nell'ora della no­stra morte» («Ave Maria») e ad affidarci a san Giuseppe, patrono della buona morte: «In ogni azione, in ogni pensiero, dovresti comportarti come se tu do­vessi morire oggi stesso; se avrai la coscienza retta, non avrai molta paura di morire. Sarebbe meglio star lontano dal peccato che fuggire la morte. Se oggi non sei preparato a morire, come lo sarai domani? «Laudato si', mi' Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullo homo vivente pò skappare. Guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali; beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati, ka la morte secunda noi farà male.

In sintesi

1015 - «La carne è il cardine della salvezza». Noi crediamo in Dio che è il Creatore della carne; crediamo nel Verbo fatto carne per riscat­tare la carne; crediamo nella risurrezione della carne, compimento della creazione e della redenzione della carne. 1016 - Con la morte l'anima viene separata dal corpo, ma nella risurrezio­ne Dio tornerà a dare la vita incorruttibile al nostro corpo trasformato, riunendolo alla nostra anima. Come Cristo è risorto e vive per sempre, così tutti noi risusciteremo nell'ultimo giorno.

1017 - «Crediamo [...] nella vera risurrezione della carne che abbiamo ora » Mentre, tuttavia, si semina nella tomba un corpo corruttibi­le, risuscita un corpo incorruttibile, un «corpo spirituale» (1 Cor 15,44).

1018 - In conseguenza del peccato originale, l'uomo deve subire «la morte corporale, dalla quale sarebbe stato esentato se non avesse peccato».

1019 - Gesù, il Figlio di Dio, ha liberamente subito la morte per noi in una sottomissione totale e libera alla volontà di Dio, suo Padre. Con la sua morte ha vinto la morte, aprendo così a tutti gli uomini la pos­sibilità della salvezza.

Articolo 12

«CREDO LA VITA ETERNA»

1020 - Per il cristiano, che unisce la propria morte a quella di Gesù, la morte è come un andare verso di lui ed entrare nella vita eterna. Quan­do la Chiesa ha pronunciato, per l'ultima volta, le parole di perdono dell'assoluzione di Cristo sul cristiano morente, l'ha segnato, per l'ulti­ma volta, con una unzione fortificante e gli ha dato Cristo nel viatico come nutrimento per il viaggio, a lui si rivolge con queste dolci e rassi­curanti parole: «Parti, anima cristiana, da questo mondo, nel nome di Dio Padre on­nipotente che ti ha creato, nel nome di Gesù Cristo, Figlio del Dio vi­vo, che è morto per te sulla croce, nel nome dello Spirito Santo, che ti è stato dato in dono; la tua dimora sia oggi nella pace della santa Ge­rusalemme, con la Vergine Maria, Madre di Dio, con san Giuseppe, con tutti gli angeli e i santi. (…) Tu possa tornare al tuo Creatore, che ti ha formato dalla polvere della terra. Quando lascerai questa vita, ti venga incontro la Vergine Maria con gli angeli e i santi. [...] Mite e festoso ti appaia il volto di Cristo e possa tu contemplano per tutti i secoli in eterno»

I. Il giudizio particolare.

1021 - La morte pone fine alla vita dell'uomo come tempo aperto al­l'accoglienza o al rifiuto della grazia divina apparsa in Cristo. Il Nuo­vo Testamento parla del giudizio principalmente nella prospettiva del­l'incontro finale con Cristo alla sua seconda venuta, ma afferma anche, a più riprese, l'immediata retribuzione che, dopo la morte, sarà data a ciascuno in rapporto alle sue opere e alla sua fede. La parabola del po­vero Lazzaro e la parola detta da Cristo in croce al buon ladrone così come altri testi del Nuovo Testamento parlano di una sorte ulti­ma dell'anima che può essere diversa per le une e per le altre.

1022 - Ogni uomo fin dal momento della sua morte riceve nella sua anima immortale la retribuzione eterna, in un giudizio particolare che mette la sua vita in rapporto a Cristo, per cui o passerà attraverso una purificazione, o entrerà immediatamente nella beatitudine del cielo, oppure si dannerà immediatamente per sempre. «Alla sera della vita, saremo giudicati sull'amore».

Il. Il cielo.

1023 - Coloro che muoiono nella grazia e nell'amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati, vivono per sempre con Cristo. Sono per sempre simili a Dio, perché lo vedono «così come egli è» (I Gv 3,2), «a faccia a faccia» (1 Cor 13,12): «Con la nostra apostolica autorità definiamo che, per disposizione ge­nerale di Dio, le anime di tutti i santi morti prima della passione di Cristo (…) e quelle di tutti i fedeli morti dopo aver ricevuto il santo Battesimo di Cristo, nelle quali al momento della morte non c'era o non ci sarà nulla da purificare, oppure, se in esse ci sarà stato o ci sarà qualcosa da purificare, quando, dopo la morte, si saranno purificate, (…) anche prima della risurrezione dei loro corpi e del giudizio univer­sale e questo dopo l'ascensione del Signore e Salvatore Gesù Cristo al cielo sono state, sono e saranno in cielo, associate al regno dei cieli e al paradiso celeste con Cristo, insieme con i santi angeli. E dopo la passione e la morte del nostro Signore Gesù Cristo, esse hanno visto e vedono l'essenza divina in una visione intuitiva e anche a faccia a faccia, senza la mediazione di alcuna creatura.

1024 - Questa vita perfetta, questa comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità, con la Vergine Maria, gli angeli e tutti i beati è chiamata «il cielo». Il cielo è il fine ultimo dell'uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva.

1025 - Vivere in cielo è «essere con Cristo». Gli eletti vivono «in lui», ma conservando, anzi, trovando la loro vera identità, il loro pro­prio nome: «Vita est enim esse cum Christo; ideo ubi Christus, ibi vita, ibi Re­gnum - La vita, infatti, è stare con Cristo, perché dove c'è Cristo, là c'è la vita, là c'è il Regno».

1026 - Con la sua morte e la sua risurrezione Gesù Cristo ci ha «aper­to» il cielo. La vita dei beati consiste nel pieno possesso dei frutti della redenzione compiuta da Cristo, il quale associa alla sua glorificazione celeste coloro che hanno creduto in lui e che sono rimasti fedeli alla sua volontà. Il cielo è la beata comunità di tutti coloro che sono perfettamente incorporati in lui.

1027 - Questo mistero di comunione beata con Dio e con tutti coloro che sono in Cristo supera ogni possibilità di comprensione e di descri­zione. La Scrittura ce ne parla con immagini: vita, luce, pace, banchetto di nozze, vino del Regno, casa del Padre, Gerusalemme celeste, paradi­so: «Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entraro­no in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo ama­no» (1 Cor 2,9).

1028 - A motivo della sua trascendenza, Dio non può essere visto quale è se non quando egli stesso apre il suo mistero alla contemplazione im­mediata dell'uomo e gliene dona la capacità. Questa contemplazione di Dio nella sua gloria celeste è chiamata dalla Chiesa «la visione beatifica»: «Questa sarà la tua gloria e la tua felicità: essere ammesso a vedere Dio, avere l'onore di partecipare alle gioie della salvezza e della luce eterna insieme con Cristo, il Signore tuo Dio, [...] godere nel regno dei cieli, insieme con i giusti e gli amici di Dio, le gioie dell'immortalità raggiunta.

1029 - Nella gloria del cielo i beati continuano a compiere con gioia la volontà di Dio in rapporto agli altri uomini e all'intera creazione. Regnano già con Cristo; con lui «regneranno nei secoli dei secoli» (Ap 22,5)

III. La purificazione finale o purgatorio.

1030 - Coloro che muoiono nella grazia e nell'amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eter­na, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo.

1031 La Chiesa chiama purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt'altra cosa dal castigo dei dannati. La Chiesa ha formu­lato la dottrina della fede relativa al purgatorio soprattutto nei Concili di Firenze e di Trento. La Tradizione della Chiesa, rifacendosi a cer­ti passi della Scrittura, parla di un fuoco purificatore: Per quanto riguarda alcune colpe leggere, si deve credere che c'è, pri­ma del giudizio, un fuoco purificatore; infatti colui che è la Verità af­ferma che, se qualcuno pronuncia una bestemmia contro lo Spirito San­to, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro. Da questa affermazione si deduce che certe colpe possono essere rimesse in questo secolo, ma certe altre nel secolo futuro».

1032 - Questo insegnamento poggia anche sulla pratica della preghiera per i defunti di cui la Sacra Scrittura già parla: «Perciò [Giuda Macca­beo] fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assol­ti dal peccato» (2 Mac 12,45). Fin dai primi tempi, la Chiesa ha ono­rato la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico, affinché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio. La Chiesa raccomanda anche le elemosine, le indulgenze e le opere di penitenza a favore dei defunti: «Rechiamo loro soccorso e commemoriamoli. Se i figli di Giobbe sono stati purificati dal sacrificio del loro padre, perché dovremmo dubitare che le nostre offerte per i morti portino loro qualche consolazione? [...] Non esitiamo a soccorrere coloro che sono morti e ad offrire per loro le nostre preghiere».

IV. L'inferno.

1033 - Non possiamo essere uniti a Dio se non scegliamo liberamente di amarlo. Ma non possiamo amare Dio se pecchiamo gravemente contro di lui, contro il nostro prossimo o contro noi stessi: «Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna» (1 Gv 3,14-15). Nostro Signore ci avverte che saremo separati da lui se non soccorriamo nei loro gravi bisogni i poveri e i piccoli che sono suoi fratelli. Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l'amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola «inferno».

1034 - Gesù parla ripetutamente della «geenna», del «fuoco inestingui­bile», che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire sia l'anima che il corpo. Gesù annunzia con parole severe: «Il Figlio dell'uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno [...] tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente» (Mt 13,41-42), ed egli pronunzierà la condanna: «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno!» (Mt 25,41).

1035 - La Chiesa nel suo insegnamento afferma l'esistenza dell'inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell'inferno, «il fuoco eterno». La pena principale dell'inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l'uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira.

1036 - Le affermazioni della Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa riguardanti l'inferno sono un appello alla responsabilità con la quale l'uomo deve usare la propria libertà in vista del proprio destino eterno. Costituiscono nello stesso tempo un pressante appello alla con­versione: «Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spazio­sa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano!» (Mt 7,13-14). «Siccome non conosciamo né il giorno né l'ora, bisogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo assiduamente, affinché, finito l'unico corso della nostra vita terrena, meritiamo con lui di entrare al banchetto nu­ziale ed essere annoverati tra i beati, né ci si comandi, come a servi cattivi e pigri, di andare al fuoco eterno, nelle tenebre esteriori dove ci sarà pianto e stridore di denti».

1037 - Dio non predestina nessuno ad andare all'inferno; questo è la conseguenza di una avversione volontaria a Dio (un peccato mortale), in cui si persiste sino alla fine. Nella liturgia eucaristica e nelle preghie­re quotidiane dei fedeli, la Chiesa implora la misericordia di Dio, il quale non vuole «che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2 Pt 3,9): «Accetta con benevolenza. o Signore, l'offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia: disponi nella tua pace i nostri gior­ni, salvaci dalla dannazione eterna, e accoglici nel gregge degli eletti»

V. Il giudizio finale.

1038 - La risurrezione di tutti i morti, «dei giusti e degli ingiusti» (At 24,15), precederà il giudizio finale. Sarà «l'ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce [del Figlio dell'uomo] e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fe­cero il male per una risurrezione di condanna» (Gv 5,28-29). Allora Cristo «verrà nella sua gloria, con tutti i suoi angeli (...). E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. [...] E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna» (Mt 25,31-33.46).

1039 - Davanti a Cristo che è la verità sarà definitivamente messa a nu­do la verità sul rapporto di ogni uomo con Dio. Il giudizio finale ma­nifesterà, fino alle sue ultime conseguenze, il bene che ognuno avrà compiuto o avrà omesso di compiere durante la sua vita terrena: «Tutto il male che fanno i cattivi viene registrato a loro insaputa. Il giorno in cui Dio non tacerà [...] egli si volgerà verso i malvagi e dirà loro: lo avevo posto sulla terra i miei poverelli, per voi. lo, loro capo, sedevo nel cielo alla destra di mio Padre, ma sulla terra le mie membra avevano fame. Se voi aveste donato alle mie membra, il vostro dono sarebbe giunto fino al capo. Quando ho posto i miei poverelli sulla ter­ra, li ho costituiti come vostri fattorini perché portassero le vostre buo­ne opere nel mio tesoro: voi non avete posto nulla nelle loro mani, per questo non possedete nulla presso di me».

1040 - Il giudizio finale avverrà al momento del ritorno glorioso di Cristo. Soltanto il Padre ne conosce l'ora e il giorno, egli solo decide circa la sua venuta. Per mezzo del suo Figlio Gesù pronunzierà allora la sua parola definitiva su tutta la storia. Conosceremo il senso ultimo di tutta l'opera della creazione e di tutta l'Economia della salvezza, e comprenderemo le mirabili vie attraverso le quali la provvidenza divina avrà condotto ogni cosa verso il suo fine ultimo. Il giudizio finale ma­nifesterà che la giustizia di Dio trionfa su tutte le ingiustizie commesse dalle sue creature e che il suo amore è più forte della morte.

1041 - Il messaggio del giudizio finale chiama alla conversione fin tanto che Dio dona agli uomini «il momento favorevole, il giorno della sal­vezza» (2 Cor 6,2). Ispira il santo timor di Dio. Impegna per la giusti­zia del regno di Dio. Annunzia la «beata speranza» (Tt 2,13) del ritorno del Signore il quale «verrà per essere glorificato nei suoi santi ed essere riconosciuto mirabile in tutti quelli che avranno creduto» (2 Ts 1,10).

VI. La speranza dei cieli nuovi e della terra nuova.

1042 - Alla fine dei tempi, il regno di Dio giungerà alla sua pienezza. Dopo il giudizio universale i giusti regneranno per sempre con Cristo, glorificati in corpo e anima, e lo stesso universo sarà rinnovato: Allora la Chiesa «avrà il suo compimento [...] nella gloria del cielo, quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose e quando col genere umano anche tutto il mondo, il quale è intimamente unito con l'uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, sarà perfettamente ricapi­tolato in Cristo».

1043 - Questo misterioso rinnovamento, che trasformerà l'umanità e il mondo, dalla Sacra Scrittura è definito con l'espressione: «i nuovi cieli e una terra nuova» (2 Pt 3,1 3). Sarà la realizzazione definitiva del disegno di Dio di «ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Ef' 1,10).

1044 - In questo nuovo universo, la Gerusalemme celeste, Dio avrà la sua dimora in mezzo agli uomini. Egli «tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,4).

1045 - Per l'uomo questo compimento sarà la realizzazione definitiva dell'unità del genere umano, voluta da Dio fin dalla creazione e di cui la Chiesa nella storia è «come sacramento ». Coloro che saranno uniti a Cristo formeranno la comunità dei redenti, la «Città santa» di Dio (Ap 21,2), «la Sposa dell'Agnello» (Ap 21,9). Essa non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, dall'amor proprio, che distruggono o feri­scono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica, nella qua­le Dio si manifesterà in modo inesauribile agli eletti, sarà sorgente pe­renne di gaudio, di pace e di reciproca comunione.

1046 - Quanto al cosmo, la Rivelazione afferma la profonda comunione di destino fra il mondo materiale e l'uomo: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio [...] e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione (…). Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma an­che noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormen­te aspettando l'adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8,19-23).

1047 - Anche l'universo visibile, dunque, è destinato ad essere trasfor­mato, «affinché il mondo stesso, restaurato nel suo stato primitivo, sia, senza più alcun ostacolo, al servizio dei giusti», partecipando alla loro glorificazione in Gesù Cristo risorto.

1048 - «Ignoriamo il tempo in cui saranno portate a compimento la terra e l'umanità, e non sappiamo il modo in cui sarà trasformato l'universo. Passa certamente l'aspetto di questo mondo, deformato dal peccato. Sappiamo, però, dalla Rivelazione che Dio prepara una nuova abitazio­ne e una terra nuova, in cui abita la giustizia, e la cui felicità sazierà sovrabbondantemente tutti i desideri di pace che salgono nel cuore degli uomini».

1049 - «Tuttavia l'attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presen­te, dove cresce quel corpo dell'umanità nuova che già riesce a offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, ben­ché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo svilup­po del regno di Cristo, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l'umana società, tale progresso è di grande importanza».

1050 - «Infatti i beni della dignità dell'uomo, della comunione fraterna e della libertà, cioè tutti questi buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signo­re e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando Cristo rimetterà al Padre il regno eterno e universale». Dio allora sarà «tutto in tut­ti» (1 Cor 15,28), nella vita eterna: «La vita, nella sua stessa realtà e verità, è il Padre, che attraverso il Figlio nello Spirito Santo riversa come fonte su tutti noi i suoi doni ce­lesti. E’ per la sua bontà promette veramente anche a noi uomini i beni divini della vita eterna.

In sintesi

1051 - Ogni uomo riceve nella sua anima immortale la propria retribuzione eterna fin dalla sua morte, in un giudizio particolare ad opera di Cristo, giudice dei vivi e dei morti.

1052 - «Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella gra­zia di Cristo [...] costituiscono il popolo di Dio nell'al di là della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della risur­rezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi».

1053 - «Noi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite at­torno a Gesù e a Maria in paradiso, forma la Chiesa del cielo, do­ve esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com'e e dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi angeli al governo divino esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi e aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine».

1054 - Coloro che muoiono nella grazia e nell'amicizia di Dio, ma imper­fettamente purificati, benché sicuri della loro salvezza eterna, vengo­no sottoposti, dopo la morte, ad una purificazione, al fine di ottene­re la santità necessaria per entrare nella gioia di Dio.

1055 - In virtù della «comunione dei santi», la Chiesa raccomanda i de­funti alla misericordia di Dio e per loro offre suffragi, in particola­re il santo sacrificio eucaristico.

1056 - Seguendo l'esempio di Cristo, la Chiesa avverte i fedeli della triste e penosa realtà della marte eterna, chiamata anche «inferno».

1057 - La pena principale dell’inferno consiste nella separazione eterna da Dio; in Dio soltanto l'uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creata e alle quali aspira.

1058 - La Chiesa prega perché nessuno si perda: «Signore, [...] non per­mettere che sia mai separato da te». Se è vero che nessuno può salvarsi da se stesso, è anche vera che Dio «vuole che tutti gli uo­mini siano salvati» (1 Tm 2,4) e che per lui «tutto è passibile» (Mt 19,26).

1059 - «La santissima Chiesa romana crede e confessa fermamente che nel (…) giorno del giudizio tutti gli uomini compariranno col loro corpo davanti al tribunale di Cristo per rendere conto delle loro azioni».

1060 - Alla fine dei tempi, il regno di Dio giungerà alla sua pienezza. Allo­ra i giusti regneranno con Cristo per sempre, glorificati in corpo e anima, e lo stesso universo materiale sarà trasformato. Dio allora sarà «tutto in tutti» (1 Cor 15,28), nella vita eterna.

«AMEN»

1061 - Il Credo, come pure l'ultimo libro della Sacra Scrittura, termina con la parola ebraica Amen. La si trova frequentemente alla fine delle preghiere del Nuovo Testamento. Anche la Chiesa termina le sue pre­ghiere con Amen.

1062 - In ebraico, Amen si ricongiunge alla stessa radice della parola «credere». Tale radice esprime la solidità, l'affidabilità, la fedeltà. Si capisce allora perché l'«Amen» può esprimere tanto la fedeltà di Dio verso di noi quanto la nostra fiducia in lui.

1063 - Nel profeta Isaia si trova l'espressione «Dio di verità», letteral­mente «Dio dell'Amen», cioè il Dio fedele alle sue promesse: «Chi vorrà essere benedetto nel paese, vorrà esserlo per il Dio fedele» (Is 65,16). Nostro Signore usa spesso il termine «Amen», a volte in for­ma doppia, per sottolineare l'affidabilità del suo insegnamento, la sua autorità fondata sulla verità di Dio.

1064 - L'«Amen» finale del Simbolo riprende quindi e conferma le due parole con cui inizia: «Io credo». Credere significa dire «Amen» alle parole, alle promesse, ai comandamenti di Dio, significa fidarsi total­mente di colui che è l'«Amen» d'infinito amore e di perfetta fedeltà. La vita cristiana di ogni giorno sarà allora l'«Amen» all'«Io credo» della professione di fede del nostro Battesimo: «Il Simbolo sia per te come uno specchio. Guardati in esso, per vedere se tu credi quello che dichiari di credere e rallegrati ogni giorno per la tua fede».

1065- Gesù Cristo stesso è l’«Amen» per noi (Ap 3,14). Egli è l’«Amen» definitivo dell’amore del Padre; assume e porta alla sua pienezza il nostro «Amen» al Padre: «Tutte le promesse di Dio in lui sono divenute “si”. Per questo sempre attraverso lui sale a Dio il nostro “Amen” per la sua gloria» (2 Cor 1,20): Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te, Dio Padre Onnipotente, nell’unbità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. AMEN!»

 

PARTE SECONDA

LA CELEBRAZIONE DEL MISTERO CRISTIANO

PERCHE' LA LITURGIA?

1066 - Nel Simbolo della fede, la Chiesa confessa il mistero della Santa Trinità e il «il mistero della sua volontà, secondo (...) la sua benevolen­za» (Ef 1,9) su tutta la creazione: il Padre compie il «mistero della sua volontà» donando il suo Figlio diletto e il suo Santo Spirito per la sal­vezza del mondo e per la gloria del suo Nome. Questo è il mistero di Cristo,! rivelato e realizzato nella storia secondo un piano, una «dispo­sizione» sapientemente ordinata che san Paolo chiama «adempimento del mistero» (Ef 3,9) e che la tradizione patristica chiamerà «l'Economia del Verbo incarnato» o «l'Economia della salvezza».

1067 - «Quest'opera della redenzione umana e della perfetta glorifica­zione di Dio, che ha il suo preludio nelle mirabili gesta divine operate nel popolo dell'Antico Testamento, è stata compiuta da Cristo Signore, specialmente per mezzo del mistero pasquale della sua beata passione, risurrezione da morte e gloriosa ascensione, mistero col quale “morendo ha distrutto la nostra morte e risorgendo ha ridato a noi la vita”. Infatti dal costato di Cristo dormiente sulla croce è scaturito il mirabile sacramento di tutta la Chiesa». Per questo, nella liturgia, la Chiesa celebra principalmente il mistero pasquale per mezzo del quale Cristo ha compiuto l'opera della nostra salvezza.

1068 - Questo mistero di Cristo la Chiesa annunzia e celebra nella sua liturgia, affinché i fedeli ne vivano e ne rendano testimonianza nel mondo: «La liturgia, infatti, mediante la quale, massimamente nel divino sacri­ficio dell'Eucaristia, “si attua l'opera della nostra redenzione”, contri­buisce in sommo grado a che i fedeli esprimano nella loro vita e mani­festino agli altri il mistero di Cristo e la genuina natura della vera Chiesa».

CHE COSA SIGNIFICA IL TERMINE «LITURGIA»?

1069 - Il termine «liturgia» significa originalmente «opera pubblica», «servizio da parte del popolo e in favore del popolo». Nella tradizione cristiana vuole significare che il popolo di Dio partecipa all'«opera di Dio». Attraverso la liturgia Cristo, nostro Redentore e Sommo Sacer­dote, continua nella sua Chiesa, con essa e per mezzo di essa, l'opera della nostra redenzione.

1070 - Il termine «liturgia» nel Nuovo Testamento è usato per designa­re non soltanto la celebrazione del culto divino, ma anche l'annunzio del Vangelo e la carità in atto. In tutti questi casi, si tratta del servizio di Dio e degli uomini. Nella celebrazione liturgica, la Chiesa è serva, a immagine del suo Signore, l'unico «Liturgo», poiché partecipa del suo sacerdozio (culto) profetico (annunzio) e regale (servizio della carità): «Giustamente perciò la liturgia è ritenuta quell'esercizio dell'ufficio sacerdotale di Gesù Cristo, mediante il quale con segni sensibili viene significata e, in modo proprio a ciascuno, realizzata la santificazione dell'uomo, e viene esercitato dal corpo mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo Sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, é azione sacra per eccellenza, e nessun'altra azione della Chiesa ne uguaglia l'efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado».

LA LITURGIA COME FONTE DI VITA

1071 - Opera di Cristo, la liturgia è anche un'azione della sua Chiesa. Essa realizza e manifesta la Chiesa come segno visibile della comunione di Dio e degli uomini per mezzo di Cristo. Impegna i fedeli nella vita nuova della comunità. Esige «che i fedeli vi prendano parte consa­pevolmente, attivamente e fruttuosamente».

1072 - «La sacra liturgia non esaurisce tutta l'azione della Chiesa»: essa deve essere preceduta dalla evangelizzazione, dalla fede e dalla conversione; allora è in grado di portare i suoi frutti nella vita dei fede­li: la vita nuova secondo lo Spirito, l'impegno nella missione della Chiesa ed il servizio della sua unità.

PREGHIERA E LITURGIA

1073 - La liturgia è anche partecipazione alla preghiera di Cristo, rivol­ta al Padre nello Spirito Santo. In essa ogni preghiera cristiana trova la sua sorgente e il suo termine. Per mezzo della liturgia, l'uomo interiore è radicato e fondato nel «grande amore con il quale il Padre ci ha amati» (Ef 2,4) nel suo Figlio diletto. Ciò che viene vissuto e interioriz­zato da ogni preghiera «in ogni occasione nello Spirito» (Ef 6,18) è la stessa «meraviglia di Dio».

CATECHESI E LITURGIA

1074 - «La liturgia è il culmine verso cui tende l'azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù». Essa è quindi il luogo privilegiato della catechesi del popolo di Dio. «La catechesi è intrinsecamente collegata con tutta l'azione liturgica e sacramentale, perché è nei sacramenti, e soprattutto nell'Eucaristia, che Gesù Cristo agisce in pienezza per la trasformazione degli uomini».

1075 - La catechesi liturgica mira a introdurre nel mistero di Cristo, in quanto procede dal visibile all'invisibile, dal significante a ciò che è significato, dai «sacramenti» ai «misteri». Una tale catechesi spetta ai catechismi locali e regionali. Il presente Catechi­smo, che vuole essere al servizio di tutta la Chiesa, nella diversità dei suoi riti e delle sue culture, presenterà ciò che è fondamentale e comu­ne a tutta la Chiesa riguardo alla liturgia come mistero e come celebra­zione (sezione prima); quindi i sette sacramenti e i sacramentali (sezione seconda).

 

SEZIONE PRIMA

L’ECONOMIA SACRAMENTALE

 

CAPITOLO PRIMO

Il MISTERO PASQUALE EL TEMPO DELLA CHIESA

Articolo 1

LITURGIA - OPERA DELLA SANTISSIMA TRINITÀ

I. Il Padre, sorgente e fine della liturgia.

1077 - «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immaco­lati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adot­tivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto» (Ef 1,3-6).

1078 - Benedire è un’azione divina che dà la vita e di cui il Padre è la sorgente. La sua benedizione è insieme parola e dono. Riferito all'uomo, questo termine significherà l'adorazione e la consegna di sé al proprio Creatore nell'azione di grazie.

1079 - Dall'inizio alla fine dei tempi, tutta l'opera di Dio è benedizione. Dal poema liturgico della prima creazione ai cantici della Gerusalemme celeste, gli autori ispirati annunziano il disegno della salvezza come una immensa benedizione divina.

1080 - In principio, Dio benedice gli esseri viventi, specialmente l'uomo e la donna. L'alleanza con Noè e con tutti gli esseri animati rinnova questa benedizione di fecondità, nonostante il peccato dell'uomo, a cau­sa del quale il suolo è «maledetto». Ma è a partire da Abramo che la benedizione divina penetra la storia degli uomini, che andava verso la morte, per farla ritornare alla vita, alla sua sorgente: grazie alla fede del «padre dei credenti» che accoglie la benedizione, si inaugura la storia della salvezza.

1081 - Le benedizioni divine si manifestano in eventi mirabili e salvifici: la nascita di Isacco, l'uscita dall'Egitto (Pasqua ed Esodo), il dono del­la Terra promessa, l'elezione di Davide, la presenza di Dio nel Tempio, l'esilio purificatore e il ritorno del «piccolo resto». La Legge, i profeti e i salmi, che tessono la liturgia del popolo eletto, ricordano queste benedizioni divine e nello stesso tempo rispondono ad esse con le bene­dizioni di lode e di rendimento di grazie.

1082 - Nella liturgia della Chiesa, la benedizione divina è pienamente ri­velata e comunicata: il Padre è riconosciuto e adorato come la sorgente e il termine di tutte le benedizioni della creazione e della salvezza; nel suo Verbo, incarnato, morto e risorto per noi, egli ci colma delle sue benedizioni, e per suo mezzo effonde nei nostri cuori il dono che rac­chiude tutti i doni: lo Spirito Santo.

1083 - Si comprende allora la duplice dimensione della liturgia cristiana come risposta di fede e di amore alle «benedizioni spirituali» di cui il Padre ci fa dono. Da una parte, la Chiesa, unita al suo Signore e sotto l'azione dello Spirito Santo, benedice il Padre per il «suo ineffabile dono» (2 Cor 9,15) con l'adorazione, la lode e l'azione di grazie. Dal­l'altra, e fino al pieno compimento del disegno di Dio, la Chiesa non cessa di presentare al Padre «l'offerta dei propri doni» e d'implorare che mandi lo Spirito Santo sull'offerta, su se stessa, sui fedeli e sul mondo intero, affinché, per la comunione alla morte e alla risurrezione di Cristo Sacerdote e per la potenza dello Spirito, queste benedizioni divine portino frutti di vita «a lode e gloria della sua grazia» (Ef 1,6)

Il. L'opera di Cristo nella liturgia.

CRISTO GLORIFICATO...

1084 - «Assiso alla destra del Padre» da dove effonde lo Spirito Santo nel suo corpo che è la Chiesa, Cristo agisce ora attraverso i sacramenti, da lui istituiti per comunicare la sua grazia. I sacramenti sono segni sensibili (parole e azioni), accessibili alla nostra attuale umanità. Essi realizzano in modo efficace la grazia che significano, mediante l'azione di Cristo e la potenza dello Spirito Santo.

1085 - Nella liturgia della Chiesa Cristo significa e realizza principal­mente il suo mistero pasquale. Durante la sua vita terrena, Gesù an­nunziava con l'insegnamento e anticipava con le azioni il suo mistero pasquale. Venuta la sua Ora, egli vive l'unico avvenimento della storia che non passa: Gesù muore, è sepolto, risuscita dai morti e siede alla destra del Padre «una volta per tutte» (Rm 6,10; Eb 7,27; 9,12). È un evento reale, accaduto nella nostra storia, ma è unico: tutti gli altri av­venimenti della storia accadono una volta, poi passano, inghiottiti dal passato. Il mistero pasquale di Cristo, invece, non può rimanere soltan­to nel passato, dal momento che con la sua morte egli ha distrutto la morte, e tutto ciò che Cristo è, tutto ciò che ha compiuto e sofferto per tutti gli uomini, partecipa dell'eternità divina e perciò abbraccia tutti i tempi e in essi è reso presente. L'evento della croce e della risurrezione rimane e attira tutto verso la vita.

DALLA CHIESA DEGLI APOSTOLI...

1086 - «Come Cristo fu inviato dal Padre, così anch'egli ha inviato gli Apostoli, ripieni di Spirito Santo, non solo perché, predicando il Van­gelo a tutti gli uomini, annunziassero che il Figlio di Dio con la sua morte e risurrezione ci ha liberati dal potere di Satana e dalla morte e trasferiti nel regno del Padre, ma anche perché attuassero, per mezzo del sacrificio e dei sacramenti, sui quali s'impernia tutta la vita liturgi­ca, l'opera della salvezza che annunziavano».

1087 - Pertanto, donando lo Spirito Santo agli Apostoli, Cristo risorto conferisce loro il proprio potere di santificazione: diventano segni sa­cramentali di Cristo. Per la potenza dello stesso Spirito Santo, essi con­feriscono tale potere ai loro successori. Questa «successione apostoli­ca» struttura tutta la vita liturgica della Chiesa; essa stessa è sacramen­tale, trasmessa attraverso il sacramento dell'Ordine.

...E PRESENTE NELLA LITURGIA TERRESTRE...

1088 - «Per realizzare un'opera così grande [la dispensazione o comuni­cazione della sua opera di salvezza] Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche. È presente nel sacrificio della Messa sia nella persona del ministro, “egli che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso per il ministero dei sacerdoti”, sia soprattutto sotto le specie eucaristiche. È presente con la sua virtù nei sacramenti, di modo che quando uno battezza è Cristo stesso che battezza. È presente nella sua Parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura. È presente, infine, quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: “Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro” (Mt 18,20)».

1089 - «In quest'opera così grande, con la quale viene resa a Dio una gloria perfetta e gli uomini vengono santificati, Cristo associa sempre a sé la Chiesa, sua Sposa amatissima, la quale prega il suo Signore e per mezzo di lui rende il culto all'Eterno Padre».

…CHE PARTECIPA ALLA LITURGIA CELESTE

1090 - «Nella liturgia terrena noi partecipiamo, pregustandola, a quella celeste, che viene celebrata nella santa Città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro dei santi e del vero tabernacolo; con tutte le schiere del­ la milizia celeste cantiamo al Signore l'inno di gloria; ricordando con venerazione i santi, speriamo di ottenere un qualche posto con essi; aspettiamo, quale Salvatore, il Signore nostro Gesù Cristo, fino a quan­do egli comparirà, nostra vita, e noi appariremo con lui nella gloria

III. Lo Spirito Santo e la Chiesa nella liturgia.

109l - Nella liturgia lo Spirito Santo è il pedagogo della fede del popolo di Dio, l'artefice di quei «capolavori di Dio» che sono i sacramenti del Nuovo Testamento. Il desiderio e l'opera dello Spirito nel cuore della Chiesa è che noi viviamo della vita di Cristo risorto. Quando egli incontra in noi la risposta di fede da lui suscitata, si realizza una vera cooperazione. Grazie ad essa, la liturgia diventa opera comune dello Spirito Santo e della Chiesa.

1092 - In questa comunicazione sacramentale del mistero di Cristo, lo Spirito Santo agisce allo stesso modo che negli altri tempi dell'Econo­mia della salvezza: egli prepara la Chiesa ad incontrare il suo Signore; ricorda e manifesta Cristo alla fede dell'assemblea; rende presente e at­tualizza il mistero di Cristo per mezzo della sua potenza trasformatrice; infine, lo Spirito di comunione unisce la Chiesa alla vita e alla missione di Cristo.

LO SPIRITO SANTO PREPARA AD ACCOGLIERE CRISTO

1093 - Nell'economia sacramentale lo Spirito Santo dà compimento alle figure dell'Antica Alleanza. Poiché la Chiesa di Cristo era «mirabilmen­te preparata nella storia del popolo d'Israele e nell'Antica Alleanza» la liturgia della Chiesa conserva come parte integrante e insostituibile, facendoli propri, alcuni elementi del culto dell'Antica Alleanza: in modo particolare la lettura dell'Antico Testamento; la preghiera dei salmi; e, soprattutto, il memoriale degli eventi salvifici e delle realtà prefigurative che hanno trovato il loro compimento nel mistero di Cristo (la Promessa e l'Alleanza, l'Esodo e la Pasqua, il Regno e il Tempio, l'Esilio e il Ritorno).

1094 - Proprio su questa armonia dei due Testamenti si articola la ca­techesi pasquale del Signore e in seguito quella degli Apostoli e dei Padri della Chiesa. Tale catechesi svela ciò che rimaneva nascosto sotto la lettera dell'Antico Testamento: il mistero di Cristo. Essa è chiamata «tipologica» in quanto rivela la novità di Cristo a partire dalle «figu­re» che lo annunziavano nei fatti, nelle parole e nei simboli della prima Alleanza. Attraverso questa rilettura nello Spirito di verità a partire da Cristo, le figure vengono svelate. Così, il diluvio e l'arca di Noè prefiguravano la salvezza per mezzo del Battesimo, come pure la nube e la traversata del Mar Rosso; l'acqua dalla roccia era figura dei doni spirituali di Cristo; la manna nel deserto prefigurava l'Euca­ristia, «il vero pane dal cielo» (Gv; 6,32).

1095 - Per questo la Chiesa, specialmente nei tempi di Avvento, di Qua­resima e soprattutto nella notte di Pasqua, rilegge e rivive tutti questi grandi eventi della storia della salvezza nell'«oggi» della sua liturgia. Ma questo esige pure che la catechesi aiuti i fedeli ad aprirsi a tale intelligenza «spirituale» dell'Economia della salvezza, come la liturgia della Chiesa la manifesta e ce la fa vivere.

1096 - Liturgia ebraica e liturgia cristiana. Una migliore conoscenza della fede e della vita religiosa del popolo ebraico, quali sono professate e vissute ancora al presente, può aiutare a comprendere meglio certi aspetti della liturgia cristiana. Per gli ebrei e per i cristiani la Sacra Scrittura è una parte essenziale delle loro liturgie: per la proclamazione della Parola di Dio, la risposta a questa Parola, la preghiera di lode e di intercessione per i vivi e per i morti, il ricorso alla mi­sericordia divina. La liturgia della Parola, nella sua specifica struttura, ha la sua origine nella preghiera ebraica. La preghiera delle Ore e altri testi e formu­lari liturgici hanno in essa i loro corrispettivi, come pure le stesse formule delle nostre preghiere più degne di venerazione, tra le quali il «Padre nostro». Anche le preghiere eucaristiche si ispirano a modelli della tradizione ebraica. Il rapporto tra la liturgia ebraica e quella cristiana, ma anche le differenze tra i loro contenuti, sono particolarmente visibili nelle grandi feste dell'anno liturgi­co, come la Pasqua. Cristiani ed ebrei celebrano la Pasqua: Pasqua della storia, tesa verso il futuro, presso gli ebrei; presso i cristiani, Pasqua compiuta nella morte e nella risurrezione di Cristo, anche se ancora in attesa della definitiva consumazione.

1097 - Nella liturgia della Nuova Alleanza, Ogni azione liturgica, special­mente la celebrazione dell'Eucaristia e dei sacramenti, è un incontro tra Cristo e la Chiesa. L'assemblea liturgica riceve la propria unità dalla «comunione dello Spirito Santo» che riunisce i figli di Dio nell'unico corpo di Cristo. Essa supera le affinità umane, razziali, culturali e sociali.

1098 - L'assemblea deve prepararsi ad incontrare il suo Signore, essere un popolo ben disposto. Questa preparazione dei cuori è opera comu­ne dello Spirito Santo e dell'assemblea, in particolare dei suoi ministri. La grazia dello Spirito Santo cerca di risvegliare la fede, la conversione del cuore e l'adesione alla volontà del Padre. Queste disposizioni sono il presupposto per l'accoglienza delle altre grazie offerte nella celebra­zione stessa e per i frutti di vita nuova che essa è destinata a produrre in seguito.

LO SPIRITO SANTO RICORDA IL MISTERO DI CRISTO

1099 - Lo Spirito e la Chiesa cooperano per manifestare Cristo e la sua opera di salvezza nella liturgia. Specialmente nell'Eucaristia, e in modo analogo negli altri sacramenti, la liturgia è Memoriale del mistero della salvezza. Lo Spirito Santo è la memoria viva della Chiesa.

1100 - La Parola di Dio. Lo Spirito Santo ricorda in primo luogo all'as­semblea liturgica il senso dell'evento della salvezza vivificando la Parola di Dio che viene annunziata per essere accolta e vissuta: «Massima è l'importanza della Sacra Scrittura nel celebrare la liturgia. Da essa infatti vengono tratte le letture da spiegare nell'omelia e i salmi da cantare; del suo affiato e del suo spirito sono permeate le preci, le orazioni e gli inni liturgici, e da essa prendono significato le azioni e i segni».

1101 - È lo Spirito Santo che dona ai lettori e agli uditori, secondo le disposizioni dei loro cuori, l'intelligenza spirituale della Parola di Dio. Attraverso le parole, le azioni e i simboli che costituiscono la trama di una celebrazione, egli mette i fedeli e i ministri in relazione viva con Cristo, Parola e Immagine del Padre, affinché possano trasfondere nella loro vita il significato di ciò che ascoltano, contemplano e compiono nella celebrazione.

1102 - «In virtù della parola salvatrice la fede [...] si alimenta nel cuore dei credenti, e con la fede ha inizio e cresce la comunità dei credenti». L'annunzio della Parola di Dio non si limita ad un insegnamento: essa sollecita la risposta della fede, come adesione e impegno, in vista del­l'Alleanza tra Dio e il suo popolo. È ancora lo Spirito Santo che elar­gisce la grazia della fede, la fortifica e la fa crescere nella comunità. L'assemblea liturgica è prima di tutto comunione nella fede.

1103 - La celebrazione liturgica si riferisce sempre agli interventi salvifici di Dio nella storia. «L'economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro [...]. Le parole dichiarano le opere e chiariscono il mistero in esse contenuto». Nella liturgia della Parola lo Spirito Santo «ricorda» all'assemblea tutto ciò che Cristo ha fatto per noi. Secondo la natura delle azioni liturgiche e le tradizioni rituali delle Chiese, una celebrazione «fa memoria» delle meraviglie di Dio attraverso una anamnesi più o meno sviluppata. Lo Spirito Santo, che in tal modo risveglia la memoria della Chiesa, suscita di conseguenza l'azione di grazie e la lode.

LO SPIRITO SANTO ATTUALIZZA IL MISTERO DI CRISTO

1104 - La liturgia cristiana non soltanto ricorda gli eventi che hanno operato la nostra salvezza; essa li attualizza, li rende presenti. Il mistero pasquale di Cristo viene celebrato, non ripetuto; sono le celebrazioni che si ripetono; in ciascuna di esse ha luogo l'effusione dello Spirito Santo che attualizza l'unico mistero.

1105 - L’(«invocazione-su») è l'intercessione con la quale il sacerdote supplica il Padre di inviare lo Spirito Santificatore affinché le offerte diventino il Corpo e il Sangue di Cristo e i fedeli, ricevendole, divengano essi pure un'offerta viva a Dio.

1106 - Insieme con l'anamnesi, l'epiclesi è il cuore di ogni celebrazione sacramentale, in modo particolare dell'Eucaristia: «Tu chiedi in che modo il pane diventa Corpo di Cristo e il vino [...] Sangue di Cristo? Te lo dico io: lo Spirito Santo discende e realizza ciò che supera ogni parola e ogni pensiero. […] Ti basti sapere che questo avviene per opera dello Spirito Santo, allo stesso modo che dalla santa Vergine e per mezzo dello Spirito Santo il Signore, da se stesso e in se stesso, assunse la carne».

1107 - La forza trasformatrice dello Spirito Santo nella liturgia affretta la venuta del Regno e la consumazione del mistero della salvezza. Nel­l'attesa e nella speranza egli ci fa realmente anticipare la piena comu­nione della Santissima Trinità. Mandato dal Padre che esaudisce l'epi­clesi della Chiesa, lo Spirito dona la vita a coloro che l'accolgono, e costituisce per essi, fin d'ora, «la caparra» della loro eredità.

LA COMUNIONE DELLO SPIRITO SANTO

1108 - Il fine della missione dello Spirito Santo in ogni azione liturgica è quello di mettere in comunione con Cristo per formare il suo corpo. Lo Spirito Santo è come la linfa della vite del Padre che porta il suo frutto nei tralci. Nella liturgia si attua la più stretta cooperazione tra lo Spirito Santo e la Chiesa. Egli, lo Spirito di comunione, rimane nella Chiesa in modo indefettibile, e per questo la Chiesa è il grande sacra­mento della comunione divina che riunisce i figli di Dio dispersi. Il frutto dello Spirito nella liturgia è inseparabilmente comunione con la Santissima Trinità e comunione fraterna.

1109 - L'epiclesi è anche preghiera per la piena realizzazione della comunione dell'assemblea al mistero di Cristo. «La grazia del Signore Gesù Cristo, l'amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo» (2 Cor 13,13) devono rimanere sempre con noi e portare frutti al di là della celebrazione eucaristica. La Chiesa prega dunque il Padre di inviare lo Spirito Santo, perché faccia della vita dei fedeli un'offerta viva a Dio attraverso la trasformazione spirituale a immagine di Cristo, la sollecitudine per l'unità della Chiesa e la partecipazione alla sua missione per mezzo della testimonianza e del servizio della carità.

In sintesi

1110 - Nella liturgia della Chiesa Dio Padre è benedetto e adorato come sorgente di tutte le benedizioni della creazione e della salvezza, con le quali ci ha benedetti nel suo Figlio, per donarci lo Spirito del­l'adozione filiale.

1111 - L'opera di Cristo nella liturgia è sacramentale perché il suo mistero di salvezza vi è reso presente mediante la potenza del suo Santo Spirito; perché il suo corpo, che è la Chiesa, è come il sacramento (segno e strumento) nel quale lo Spirito Santo dispensa il mistero della salvezza; perché, attraverso le sue azioni liturgiche, la Chie­sa pellegrina nel tempo partecipa già, pregustandola, alla liturgia celeste.

1112 - La missione dello Spirito Santo nella liturgia della Chiesa è di pre­parare l'assemblea a incontrare Cristo; di ricordare e manifestare Cristo alla fède dell'assemblea; di rendere presente e attualizzare, con la sua potenza trasformatrice, l'opera salvifica di Cristo, e di far fruttificare il dono della comunione nella Chiesa.

Articolo 2

IL MISTERO PASQUALE NEI SACRAMENTI DELLA CHIESA

1113 - Tutta la vita liturgica della Chiesa gravita attorno al sacrificio eucaristico e ai sacramenti. Nella Chiesa vi sono sette sacramenti: il Battesimo, la Confermazione o Crismazione, l’Eucaristia, la Penitenza, l'Unzione degli infermi, l'Ordine, il Matrimomo. In questo articolo viene trattato ciò che è comune ai sette sacramenti della Chiesa, dal punto di vista dottrinale. Quanto è loro comune riguardo alla celebra­zione sarà esposto nel capitolo secondo, mentre ciò che è proprio a ciascuno di essi costituirà l'oggetto della sezione seconda.

I. I sacramenti di Cristo.

1114 - «Attenendoci alla dottrina delle Sacre Scritture, alle tradizioni apostoliche e all'unanime pensiero (…) dei Padri», noi professiamo «che i sacramenti della nuova Legge (…) sono stati istituiti tutti da Gesù Cristo nostro Signore».

1115 - Le parole e le azioni di Gesù nel tempo della sua vita nascosta e del suo ministero pubblico erano già salvifiche. Esse anticipavano la potenza del suo mistero pasquale. Annunziavano e preparavano ciò che egli avrebbe donato alla Chiesa quando tutto fosse stato compiuto. I misteri della vita di Cristo costituiscono i fondamenti di ciò che, ora, Cristo dispensa nei sacramenti mediante i ministri della sua Chiesa, poi­ché «ciò che [...] era visibile nel nostro Salvatore è passato nei suoi sacramenti»,

1116 - «Forze che escono» dal corpo di Cristo, sempre vivo e vivifi­cante, azioni dello Spirito Santo operante nel suo corpo che è la Chie­sa, i sacramenti sono i «capolavori di Dio» nella Nuova ed eterna Alleanza.

II. I sacramenti della Chiesa.

1117 - Per mezzo dello Spirito che la guida «alla verità tutta intera» (Gv 16,13), la Chiesa ha riconosciuto a poco a poco questo tesoro rice­vuto da Cristo e ne ha precisato la «dispensazione», come ha fatto per il canone delle divine Scritture e la dottrina della fede, quale fedele am­ministratrice dei misteri di Dio. Così la Chiesa, nel corso dei secoli, è stata in grado di discernere che, tra le sue celebrazioni liturgiche, ve ne sono sette le quali costituiscono, nel senso proprio del termine, sacra­menti istituiti dal Signore.

1118 - I sacramenti sono «della Chiesa» in un duplice significato: sono «da essa» e «per essa». Sono «dalla Chiesa» per il fatto che questa è il sacramento dell'azione di Cristo che opera in lei grazie alla missione dello Spirito Santo. E sono «per la Chiesa», sono cioè «sacramenti (…) che fanno la Chiesa», in quanto manifestano e comunicano agli uomini, soprattutto nell'Eucaristia, il mistero della comunione del Dio Amore, uno in tre Persone.

1119 - Poiché con il Cristo-Capo forma «quasi un'unica [...] persona mistica» la Chiesa agisce nei sacramenti come «comunità sacerdota­le», «organicamente strutturata»: mediante il Battesimo e la Confer­mazione, il popolo sacerdotale è reso idoneo a celebrare la liturgia; d'altra parte alcuni fedeli, insigniti dell'Ordine sacro, «sono posti in nome di Cristo a pascere la Chiesa con la parola e la grazia di Dio».

1120 - Il ministero ordinato o «sacerdozio ministeriale» è al servizio del sacerdozio battesimale. Esso garantisce che, nei sacramenti, è pro­prio il Cristo che agisce per mezzo dello Spirito Santo a favore della Chiesa. La missione di salvezza affidata dal Padre al proprio Figlio incar­nato è consegnata agli Apostoli e da essi ai loro successori; questi ricevono lo Spirito Santo di Gesù per operare in suo nome e in sua persona. Il ministro ordinato è dunque il legame sacramentale che collega l'azione li­turgica a ciò che hanno detto e fatto gli Apostoli, e, tramite loro, a ciò che ha detto e operato Cristo, sorgente e fondamento dei sacramenti.

1121 - 1 tre sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell'Ordine conferiscono, oltre la grazia, un carattere sacramentale o «sigillo» in forza del quale il cristiano partecipa al sacerdozio di Cristo e fa parte della Chiesa secondo stati e funzioni diverse. Questa configurazione a Cristo e alla Chiesa, realizzata dallo Spirito, è indelebile; essa rimane per sempre nel cristiano come disposizione positiva alla grazia, come promessa e garanzia della protezione divina e come vocazione al culto divino e al servizio della Chiesa. Tali sacramenti non possono dunque mai essere ripetuti.

III. I sacramenti della fede.

1122 - Cristo ha inviato i suoi Apostoli perché «nel suo nome», siano «predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccati» (Lc 24,47). «Ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19). La missione di battezzare, dunque la missione sacramentale, è implicita nella missione di evangelizzare, poiché il sacramento è preparato dalla Parola di Dio e dalla fede, la quale è consenso a questa Parola: «Il popolo di Dio viene adunato innanzi tutto per mezzo dclla Parola del Dio vivente. [...] La predicazione della Parola è necessaria per lo stesso ministero dei sacramenti, trattandosi di sacramenti della fede, la quale nasce e si alimenta con la Parola».

1123 - «1 sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, all'edi­ficazione del corpo di Cristo, e, infine, a rendere culto a Dio; in quanto segni, hanno poi anche la funzione di istruire. Non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono; perciò vengono chiamati sacramenti della fede».

1124 - La fede della Chiesa precede la fede del credente, che è invitato ad aderirvi. Quando la Chiesa celebra i sacramenti, confessa la fede ricevuta dagli Apostoli. Da qui l'antico adagio: «Lex orandi, lex credendi» (oppure: «Legein credendi lex statuat supplicandi», secondo Prospero di Aquitania [secolo quinto). La legge della preghiera è la legge della fede, la Chiesa crede come prega. La liturgia è un elemento costitutivo della santa e vivente Tradizione.

1125 - Per questo motivo nessun rito sacramentale può essere modifica­to o manipolato dal ministro o dalla comunità a loro piacimento. Neppure l'autorità suprema nella Chiesa può cambiare la liturgia a sua discrezione, ma unicamente nell'obbedienza della fede e nel religioso rispetto del mistero della liturgia.

1126 - Inoltre, poiché i sacramenti esprimono e sviluppano la comunio­ne di fede nella Chiesa, la lex orandi è uno dei criteri essenziali del dia­logo che cerca di ricomporre l'unità dei cristiani

IV. I sacramenti della salvezza.

1127 - Degnamente celebrati nella fede, i sacramenti conferiscono la grazia che significano. Sono efficaci perché in essi agisce Cristo stesso: è lui che battezza, è lui che opera nei suoi sacramenti per comunicare la grazia che il sacramento significa. Il Padre esaudisce sempre la pre­ghiera della Chiesa di suo Figlio, la quale, nell'epiclesi di ciascun sacramento, esprime la propria fede nella potenza dello Spirito. Come il fuoco trasforma in sé tutto ciò che tocca, così lo Spirito Santo trasfor­ma in vita divina ciò che è sottomesso alla sua potenza.

1128 - È questo il significato dell'affermazione della Chiesa: i sacra­menti agiscono ex opere operato (lett. «per il fatto stesso che l'azione viene compiuta»), cioè in virtù dell'opera salvifica di Cristo, compiuta una volta per tutte. Ne consegue che «il sacramento non è realizzato dalla giustizia dell’uomo che lo conferisce o lo riceve, ma dalla potenza di Dio. Quando un sacramento viene celebrato in conformità all'in­tenzione della Chiesa, la potenza di Cristo e del suo Spirito agisce in esso e per mezzo di esso, indipendentemente dalla santità personale del ministro. Tuttavia i frutti dei sacramenti dipendono anche dalle disposi­zioni di colui che li riceve.

1129 - La Chiesa afferma che per i credenti i sacramenti della Nuova Alleanza sono necessari alla salvezza. La «grazia sacramentale» è la grazia dello Spirito Santo donata da Cristo e propria di ciascun sacramento. Lo Spirito guarisce e trasforma coloro che li ricevono conformandoli al Figlio di Dio. Il frutto della vita sacramentale è che lo Spirito di adozione deifi­ca i fedeli unendoli vitalmente al Figlio unico, il Salvatore

V. I sacramenti della vita eterna.

1130 - La Chiesa celebra il mistero del suo Signore «finché egli venga» (I Cor 11,26) e «Dio sia tutto in tutti» (1 Cor 15,28). Dall'età aposto­lica la liturgia è attirata verso il suo fine dal gemito dello Spirito nella Chiesa: «Marana tha! » (1 Cor 16,22). La liturgia condivide così il desiderio di Gesù: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, (…) finché essa non si compia nel regno di Dio» (Le 22,1 5-1 6). Nei sacramenti di Cristo la Chiesa già riceve la caparra della sua eredità, già partecipa alla vita eterna, pur «nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,13). «Lo Spirito e la Sposa dicono: “Vieni!” [...]. Vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,17.20). San Tommaso riassume così le diverse dimensioni del segno sacramen­tale: «Il sacramento è segno commemorativo del passato, ossia della passione del Signore; è segno dimostrativo del frutto prodotto in noi dalla sua passione, cioè della grazia: è segno profetico, che preannunzia la gloria futura».

In sintesi

1131 - I sacramenti sono segni efficaci della grazia, istituiti da Cristo e af­fidati alla Chiesa, attraversa i quali ci viene elargita la vita divina. I riti visibili con i quali i sacramenti sono celebrati significano e realizzano le grazie proprie di ciascun sacramento. Essi portano frutto in coloro che li ricevono con le disposizioni richieste.

1132 - La Chiesa celebra i sacramenti come comunità sacerdotale struttu­rata mediante il sacerdozio battesimale e quello dei ministri ordinati.

1133 - Lo Spirito Santo prepara ai sacramenti per mezzo della Parola di Dio e della fede che accoglie la Parola nei cuori ben disposti. Allora, i sacramenti fortificano ed esprimono la fede.

1134 - Il frutto della vita sacramentale è ad un tempo personale ed ecclesiale. Da una parte tale frutto è, per ogni fedele, vivere per Dio in Cristo Gesù; dall’altra costituisce per la Chiesa una crescita nella carità e nella sua missione di testimonianza.

CAPITOLO SECONDO

LA CELEBRAZIONE SACRAMENTALE DEL MISTERO PASQUALE

1135 - La catechesi della liturgia implica prima di tutto la comprensione dell'economia sacramentale (capitolo primo). A questa luce si rivela la novità della sua celebrazione. In questo capitolo si tratterà dunque della celebrazione dei sacramenti della Chiesa. Si esporrà ciò che, nella diver­sità delle tradizioni liturgiche, è comune alla celebrazione dei sette sa­cramenti; quanto invece è specifico di ciascuno di essi sarà presentato più avanti. Questa catechesi fondamentale delle celebrazioni sacramen­tali risponderà alle prime domande che i fedeli si pongono a proposito di questo argomento: Chi celebra? Come celebrare? Quando celebrare? Dove celebrare?

Articolo I

CELEBRARE LA LITURGIA DELLA CHIESA

I. Chi celebra?

1136 - La liturgia è «azione» di «Cristo tutto intero» (« totius Chri­sti»). Coloro che qui la celebrano, al di là dei segni, sono già nella liturgia celeste, dove la celebrazione è totalmente comunione e festa.

I CELEBRANTI DELLA LITURGIA CELESTE

1137 - L'Apocalisse di san Giovanni, letta nella liturgia della Chiesa, ci rivela prima di tutto un trono nel cielo, e sul trono Uno seduto: «il Signore» (Is 6,1). Poi l'Agnello, «ritto (…) come immolato»(Ap 5,6): il Cristo crocifisso e risorto, l'unico Sommo Sacerdote del vero santuario, lo stesso «che offre e che viene offerto, che dona ed è donato». Infine, il «fiume di acqua viva» che scaturisce «dal trono di Dio e dell'Agnello» (Ap 22,1), uno dei simboli più belli dello Spirito Santo.

1138 - «Ricapitolati» in Cristo, partecipano al servizio della lode di Dio e al compimento del suo disegno: le Potenze celesti, tutta la crea­zione (i quattro esseri viventi), i servitori dell'Antica e della Nuova Al­leanza (i ventiquattro vegliardi), il nuovo popolo di Dio (i centoquaran­taquattromila), in particolare i martiri «immolati a causa della Pa­rola di Dio» (Ap 6,9), e la santissima Madre di Dio (Donna; Sposa dell'Agnello), infine, «una moltitudine immensa, che nessuno» può contare, «di ogni nazione, razza, popolo e lingua» (Ap 7,9).

1139 - È a questa liturgia eterna che lo Spirito e la Chiesa ci fanno partecipare, quando celebriamo nei sacramenti il mistero della salvezza.

I CELEBRANTI DELLA LITURGIA SACRAMENTALE

1140 - È tutta la comunità, il corpo di Cristo unito al suo Capo, che ce­lebra. «Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa, che e sacramento di unità, cioè popolo santo radunato e ordinato sotto la guida dei Vescovi. Perciò (tali azioni) appartengono all'intero corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano; i singoli membri poi vi sono interessati in diverso modo, secondo la diversità degli stati, degli uffici e dell'attuale partecipazione». Per questo «ogni volta che i riti comportano, secondo la particolare natura di ciascuno, una celebrazione comunitaria con la presenza e la partecipazione attiva dei fedeli, si incuichi che questa è da preferirsi, per quanto è possibile, alla celebrazione individuale e quasi privata degli stessi».

1141 - L'assemblea che celebra è la comunità dei battezzati i quali, «per la rigenerazione e l'unzione dello Spirito Santo, vengono consa­crati a formare una dimora spirituale e un sacerdozio santo, e poter co­sì offrire in sacrificio spirituale tutte le attività umane del cristiano». Il «sacerdozio comune» è quello di Cristo, unico Sacerdote, partecipa­to da tutte le sue membra: «La Madre Chiesa desidera ardentemente che tutti i fedeli vengano gui­dati a quella piena, consapevole e attiva partecipazione delle celebrazio­ni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della liturgia e alla qua­le il popolo cristiano, “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato” (I Pt 2,9), ha diritto e dovere in forza del Battesimo».

1142 - Ma «le membra non hanno tutte la stessa funzione» (Rm 12,4). Alcuni sono chiamati da Dio, nella Chiesa e dalla Chiesa, ad un servizio speciale della comunità. Questi servitori sono scelti e consacrati me­diante il sacramento dell'Ordine, con il quale lo Spirito Santo li rende idonei ad operare nella persona di Cristo-Capo per il servizio di tutte le membra della Chiesa. Il ministro ordinato è come «l'icona» di Cristo Sacerdote. Poiché il sacramento della Chiesa si manifesta pienamente nell'Eucaristia, è soprattutto nel presiedere l'Eucaristia che si manifesta il ministero del Vescovo e, in comunione con lui, quello dei presbiteri e dei diaconi.

1143 - Al fine di servire le funzioni del sacerdozio comune dei fedeli, vi sono inoltre altri ministeri particolari, non consacrati dal sacramento dell'Ordine, la cui funzione è determinata dai Vescovi secondo le tradi­zioni liturgiche e le necessità pastorali. «Anche i ministranti, i lettori, i commentatori, e tutti i membri del coro svolgono un vero ministero liturgico».

1144 - In questo modo, nella celebrazione dei sacramenti, tutta l'assem­blea è «il liturgo», ciascuno secondo la propria funzione, ma nel­l'«unità dello Spirito» che agisce in tutti. «Nelle celebrazioni liturgiche ciascuno, ministro o fedele, svolgendo il proprio ufficio, compia solo e tutto ciò che, secondo la natura del rito e le norme liturgiche, è di sua competenza»

Il. Come celebrare?

SEGNI E SIMBOLI

1145 - Una celebrazione sacramentale è intessuta di segni e di simboli. Secondo la pedagogia divina della salvezza, il loro significato si radica nell'opera della creazione e nella cultura umana, si precisa negli eventi materiali dell'Antica Alleanza e sì rivela pienamente nella persona e nell'opera di Cristo.

1146 - Segni del mondo degli uomini. Nella vita umana segni e simboli occupano un posto importante. In quanto essere corporale e spirituale insieme, l'uomo esprime e percepisce le realtà spirituali attraverso segni e simboli materiali. In quanto essere sociale, l'uomo ha bisogno di se­gni e di simboli per comunicare con gli altri per mezzo del linguaggio, di gesti, di azioni. La stessa cosa avviene nella sua relazione con Dio.

1147 - Dio parla all'uomo attraverso la creazione visibile. L'universo materiale si presenta all'intelligenza dell'uomo perché vi legga le tracce del suo Creatore. La luce e la notte, il vento e il fuoco, l'acqua e la terra, l'albero e i frutti parlano di Dio, simboleggiano ad un tempo la sua grandezza e la sua vicinanza.

1148 - In quanto creature, queste realtà sensibili possono diventare il luogo in cui si manifesta l'azione di Dio che santifica gli uomini, e l'a­zione degli uomini che rendono a Dio il loro culto. Ugualmente avviene per i segni e i simboli della vita sociale degli uomini: lavare e ungere, spezzare il pane e condividere il calice possono esprimere la presenza santificante di Dio e la gratitudine dell'uomo verso il suo Creatore.

1149 - Le grandi religioni dell'umanità testimoniano, spesso in modo impressionante, tale senso cosmico e simbolico dei riti religiosi. La li­turgia della Chiesa presuppone, integra e santifica elementi della crea­zione e della cultura umana conferendo loro la dignità di segni della grazia, della nuova creazione in Gesù Cristo.

1150 - Segni dell'Alleanza. Il popolo eletto riceve da Dio segni e simboli distintivi che caratterizzano la sua vita liturgica: non sono più soltanto celebrazioni di cicli cosmici e di gesti sociali, ma segni dell'Alleanza, simboli delle grandi opere compiute da Dio per il suo popolo. Tra que­sti segni liturgici dell'Antica Alleanza si possono menzionare la circon­cisione, l'unzione e la consacrazione dei re e dei sacerdoti, l'imposizione delle mani, i sacrifici, e soprattutto la pasqua. In questi segni la Chiesa riconosce una prefigurazione dei sacramenti della Nuova Alleanza.

1151 - Segni assunti da Cristo. Nella sua predicazione il Signore Gesù si serve spesso dei segni della creazione per far conoscere i misteri del re­gno di Dio. Compie guarigioni o dà rilievo alla sua predicazione con segni o gesti simbolici. Conferisce un nuovo significato ai fatti e ai se­gni dell'Antica Alleanza, specialmente all'esodo e alla pasqua, poiché egli stesso è il significato di tutti questi segni.

1152 - Segni sacramentali. Dopo la pentecoste, è mediante i segni sacramentali della sua Chiesa che lo Spirito Santo opera la santificazione. I sacramenti della Chiesa non aboliscono, ma purificano e integrano tutta la ricchezza dei segni e dei simboli del cosmo e della vita sociale. Inol­tre essi danno compimento ai tipi e alle figure dell'Antica Alleanza, significano e attuano la salvezza operata da Cristo, prefigurano e antici­pano la gloria del cielo.

PAROLE E AZIONI

1153 - Ogni celebrazione sacramentale è un incontro dei figli di Dio con il loro Padre, in Cristo e nello Spirito Santo, e tale incontro si esprime come un dialogo, attraverso azioni e parole. Anche se le azioni simboliche già per se stesse sono un linguaggio, è tuttavia necessario che la Parola di Dio e la risposta della fede accompagnino e vivifichino queste azioni, perché il seme del Regno porti il suo frutto nella terra buona. Le azioni liturgiche significano ciò che la Parola di Dio esprime: l'iniziativa gratuita di Dio e, nello stesso tempo, la risposta di fede del suo popolo.

1154 - La liturgia della Parola è parte integrante delle celebrazioni sa­cramentali. Per nutrire la fede dei credenti, devono essere valorizzati i segni della Parola di Dio: il libro della Parola (lezionario o evangelia­rio), la venerazione di cui è fatta oggetto (processione, incenso, cande­le), il luogo da cui viene annunziata (ambone), la sua proclamazione udibile e comprensibile, l'omelia del ministro che ne prolunga la procla­mazione, le risposte dell'assemblea (acclamazioni, salmi di meditazione, litanie, professione di fede).

1155 - Inseparabili in quanto segni e insegnamento, le parole e le azioni liturgiche lo sono anche in quanto realizzano ciò che significano. Lo Spirito Santo non si limita a dare l'intelligenza della Parola di Dio su­scitando la fede; attraverso i sacramenti egli realizza anche le «meravi­glie» di Dio annunziate dalla Parola; rende presente e comunica l'opera del Padre compiuta dal Figlio diletto.

CANTO E MUSICA

1156 - «La tradizione musicale di tutta la Chiesa costituisce un tesoro di inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell'arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrale della liturgia solenne». La composizione e il canto dei salmi ispirati, frequentemente accompagnati da strumenti musicali, sono già strettamente legati alle celebrazioni liturgiche dell'Antica Alleanza. La Chiesa continua e sviluppa questa tradizione: «Intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore» (Ef 5,19). Chi canta prega due volte.

1157 - Il canto e la musica svolgono la loro funzione di segni in una maniera tanto più significativa «quanto più sono strettamente uniti al­l'azione liturgica», secondo tre criteri principali: la bellezza espressiva della preghiera, l'unanime partecipazione dell'assemblea nei momenti previsti e il carattere solenne della celebrazione. In questo modo essi partecipano alla finalità delle parole e delle azioni liturgiche: la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli: «Quante lacrime versate ascoltando gli accenti dei tuoi inni e cantici, che risuonavano dolcemente nella tua Chiesa! Una commozione violen­ta: quegli accenti fluivano nelle mie orecchie e distillavano nel mio cuo­re la verità, eccitandovi un caldo sentimento di pietà. Le lacrime che scorrevano mi facevano bene».

1158 - L'armonia dei segni (canto, musica, parole e azioni) è qui tanto più significativa e feconda quanto più si esprime nella ricchezza culturale propria del popolo di Dio che celebra. Per questo «si promuova con impegno il canto popolare religioso, in modo che nei piì e sacri esercizi, e nelle stesse azioni liturgiche», secondo le norme della Chiesa, «possano risonare le voci dei fedeli». Tuttavia, «i testi destinati al canto sacro siano conformi alla dottrina cattolica, anzi siano presi di preferenza dalla Sacra Scrittura e dalle fonti liturgiche».

LE SACRE IMMAGINI

1159 - La sacra immagine, l'icona liturgica, rappresenta soprattutto Cri­sto. Essa non può rappresentare il Dio invisibile e incomprensibile; è stata l'incarnazione del Figlio di Dio ad inaugurare una nuova «econo­mia» delle immagini: «Un tempo Dio, non avendo nè corpo, nè figura, non poteva in alcun modo essere rappresentato da una immagine. Ma ora che si è fatto ve­dere nella carne e che ha vissuto con gli uomini, posso fare una imma­gine di ciò che ho visto di Dio. [...] A viso scoperto, noi contempliamo la gloria del Signore.

1160 - L'iconografia cristiana trascrive attraverso l'immagine il messag­gio evangelico che la Sacra Scrittura trasmette attraverso la parola. Im­magine e parola si illuminano a vicenda: «In poche parole, noi intendiamo custodire gelosamente intatte tutte le tradizioni della Chiesa, sia scritte che orali. Una di queste riguarda la raffigurazione del modello mediante una immagine, in quanto si accordi con la lettera del messaggio evangelico, in quanto serva a confermare la vera e non fantomatica incarnazione del Verbo di Dio e procuri a noi analogo vantaggio, perché le cose rinviano l'una all'altra in ciò che raffigurano come in ciò che senza ambiguità esse significano.

1161 - Tutti i segni della celebrazione liturgica sono riferiti a Cristo: lo sono anche le sacre immagini della santa Madre di Dio e dei santi, poi­ché significano Cristo che in loro è glorificato. Esse manifestano «il gran numero di testimoni» (Eb 12,1) che continuano a partecipare alla salvezza del mondo e ai quali noi siamo uniti, soprattutto nella celebra­zione sacramentale. Attraverso le loro icone, si rivela alla nostra fede l'uomo creato «a immagine di Dio», e trasfigurato «a sua somiglian­za» come pure gli angeli, anch'essi ricapitolati in Cristo: «Procedendo sulla via regia, seguendo la dottrina divinamente ispirata dei nostri santi Padri e la Tradizione della Chiesa cattolica rìcono­sciamo, infatti, che lo Spirito Santo abita in essa - noi detiniamo con ogni rigore e cura che, a somiglianza della raffigurazione della croce preziosa e vivificante, così le venerande e sante immagini, sia dipinte che in mosaico o in qualsiasi altro materiale adatto, debbono essere esposte nelle sante chiese di Dio, sulle sacre suppellettili, sui sacri paramenti, sulle pareti e sulle tavole, nelle case e nelle vie; siano esse l'immagine del Signore Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo, o quella dell'immacolata Signora nostra, la santa Madre di Dio, dei santi angeli, di tutti i santi e giusti».

1162 - «La bellezza e il colore delle immagini sono uno stimolo per la mia preghiera. È una festa per i miei occhi, così come lo spettacolo del­la campagna apre il mio cuore a rendere gloria a Dio. La contem­plazione delle sante icone, unita alla meditazione della Parola di Dio e al canto degli inni liturgici, entra nell'armonia dei segni della celebra­zione in modo che il mistero celebrato si imprima nella memoria del cuore e si esprima poi nella novità di vita dei fedeli.

IL TEMPO LITURGICO

1163 - «La santa Madre Chiesa considera suo dovere celebrare con sa­cra memoria, in determinati giorni nel corso dell'anno, l'opera salvifica del suo Sposo divino. Ogni settimana, nel giorno a cui ha dato il nome di domenica, fa memoria della risurrezione del Signore, che una volta all'anno, unitamente alla sua beata passione, celebra a Pasqua, la più grande delle solennità. Nel ciclo annuale poi presenta tutto il mistero di Cristo [...1 Ricordando in tal modo i misteri della redenzione, essa apre ai fedeli le ricchezze delle azioni salvifiche e dei meriti del suo Signore, così che siano resi in qualche modo presenti in ogni tempo, perché i fedeli possano venirne a contatto ed essere ripieni della grazia della salvezza.

1164 - Fin dalla Legge mosaica il popolo di Dio ha conosciuto feste in data fissa, a partire dalla Pasqua, per commemorare le stupende azioni del Dio Salvatore, rendergliene grazie, perpetuarne il ricordo e insegna­re alle nuove generazioni a conformare ad esse la loro condotta di vita. Nel tempo della Chiesa, posto tra la pasqua di Cristo, già compiuta una volta per tutte, e la sua consumazione nel regno di Dio, la liturgia celebrata in giorni fissi è totalmente impregnata della novità del mistero di Cristo.

1165 - Quando la Chiesa celebra il mistero di Cristo, una parola scandi­sce la sua preghiera: «Oggi!», come eco della preghiera che le ha inse­gnato il suo Signore e dell'invito dello Spirito Santo. Questo «oggi» del Dio vivente in cui l'uomo è chiamato ad entrare è l'«Ora» della pasqua di Gesù, che attraversa tutta la storia e ne è il cardine: «La vita si è posata su tutti gli esseri e tutti sono investiti da una grande luce; l'Oriente degli orienti ha invaso l'universo, e colui che era prima della stella del mattino e prima degli astri, immortale e immenso, ìl grande Cristo, brilla su tutti gli esseri più del sole. Perciò, per noi che crediamo in lui, sorge un giorno di luce, lungo, eterno, che non si spegnerà più: la Pasqua mistica».

IL GIORNO DEL SIGNORE

1166 - «Secondo la Tradizione apostolica, che trae origine dal giorno stesso della risurrezione di Cristo, la Chiesa celebra il mistero pasquale ogni otto giorni, in quello che si chiama giustamente giorno del Signo­re o domenica». Il giorno della risurrezione di Cristo è ad un tempo il «primo giorno della settimana», memoriale del primo giorno della creazione, e 1'«ottavo giorno» in cui Cristo, dopo il suo «riposo» del grande Sabato, inaugura il giorno «che il Signore ha fatto» (Sal 118,24), il «giorno che non conosce tramonto. La «Cena del Signo­re» ne costituisce il centro, poiché in essa l'intera comunità dei fedeli incontra il Signore risorto che la invita al suo banchetto: «Il giorno del Signore, il giorno della risurrezione, il giorno dei cristiani, è il nostro giorno. È chiamato giorno del Signore proprio per questo: perché in esso il Signore è salito vittorioso presso il Padre. I pagani lo chiamano giorno del sole: ebbene, anche noi lo chiamiamo volentieri in questo modo: oggi infatti è sorta la luce del mondo, Oggi è apparso il sole di giustizia i cui raggi ci portano la salvezza.

1167 - La domenica è per eccellenza il giorno dell'assemblea liturgica, giorno in cui i fedeli si riuniscono «perché, ascoltando la Parola di Dio e partecipando all'Eucaristia, facciano memoria della passione, della ri­surrezione e della gloria del Signore Gesù, e rendano grazie a Dio che li ha rigenerati per una speranza viva per mezzo della risurrezione di Gesù Cristo dai morti»: «O Cristo, quando contempliamo le meraviglie compiute in questo giorno della domenica della tua santa risurrezione noi diciamo: Bene­detto il giorno di domenica, perché in esso ha avuto inizio la creazione, [...] la salvezza del mondo, [...] il rinnovamento del genere umano [...]. In esso il cielo e la terra si sono rallegrati e l'universo intero si è riem­pito di luce. Benedetto il giorno di domenica, perché in esso furono aperte le porte del paradiso in modo che Adamo e tutti coloro che ne furono allontanati vi possano entrare senza timore».

L’ANNO LITURGICO

1168 - A partire dal Triduo pasquale, come dalla sua fonte di luce, il tempo nuovo della risurrezione permea tutto l'anno liturgico del suo splendore. Progressivamente, da un versante e dall'altro di questa fonte, l'anno è trasfigurato dalla liturgia. Esso costituisce realmente l'anno di grazia del Signore. L'Economia della salvezza è all'opera nello svolger­si del tempo, ma dopo il suo compimento nella pasqua di Gesù e nel­l'effusione dello Spirito Santo, la conclusione della storia è anticipata, «pregustata», e il regno di Dio entra nel nostro tempo.

1169 - Per questo la Pasqua non è semplicemente una festa tra le altre: è la «festa delle feste», la «solennità delle solennità», come l'Eucari­stia è il sacramento dei sacramenti (il grande sacramento). Sant'Atana­sio la chiama «la grande domenica come la Settimana santa in Oriente è chiamata «la grande Settimana». Il mistero della risurrezio­ne, nel quale Cristo ha annientato la morte, permea della sua potente energia il nostro vecchio tempo, fino a quando tutto gli sia sottomesso.

1170 - Nel Concilio di Nicea (anno 325) tutte le Chiese si sono accordate per­ché la Pasqua cristiana sia celebrata la domenica che segue il plenilunio (14 Ni­san) dopo l'equinozio di primavera. A causa dei diversi metodi utilizzati per calcolare il giorno 14 del mese di Nisan, il giorno di Pasqua non sempre ricorre contemporaneamente nelle Chiese occidentali e orientali. Perciò esse cercano oggi un accordo per ritornare a celebrare alla stessa data il giorno della risurre­zione del Signore.

1171 - L'anno liturgico è il dispiegarsi dei diversi aspetti dell'unico mi­stero pasquale. Questo è vero soprattutto per il ciclo delle feste relative al mistero dell'incarnazione (Annunciazione, Natale, Epifania) le quali fanno memoria degli inizi della nostra salvezza e ci comunicano le pri­mizie del mistero di Pasqua.

IL SANTORALE NELL'ANNO LITURGICO

1172 - «Nella celebrazione di questo ciclo annuale dei misteri di Cristo, la santa Chiesa venera con speciale amore la beata Maria Madre di Dio, congiunta indissolubilmente con l'opera salvifica del Figlio suo; in Maria ammira ed esalta il frutto più eccelso della redenzione, e contempla con gioia, come in una immagine purissima, ciò che essa tutta desi­dera e spera di essere».

1173 - Quando, nel ciclo annuale, la Chiesa fa memoria dei martiri e degli altri santi, essa «proclama il mistero pasquale» in coloro «che hanno sofferto con Cristo e con lui sono glorificati; propone ai fedeli i loro esempi, che attraggono tutti al Padre per mezzo di Cristo, e implo­ra per i loro meriti i benefici di Dio».

LA LITURGIA DELLE ORE

1174 - Il mistero di Cristo, la sua ìncarnazione e la sua pasqua, che ce­lebriamo nell'Eucaristia, soprattutto nell'assemblea domenicale, penetra e trasfigura il tempo di ogni giorno attraverso la celebrazione della li­turgia delle Ore, «l'Ufficio divino». Fedeli alle esortazioni apostoliche di «pregare incessantemente», questa celebrazione «è costituita in modo da santificare tutto il corso del giorno e della notte per mezzo della lode di Dio». Essa costituisce la «preghiera pubblica della Chie­sa» nella quale i fedeli (chierici, religiosi e laici) esercitano il sacerdo­zio regale dei battezzati. Celebrata «nella forma approvata» dalla Chiesa, la liturgia delle Ore «è veramente la voce della Sposa stessa che parla allo Sposo, anzi è la preghiera di Cristo, con il suo corpo, al Padre».

1175 - La liturgia delle Ore è destinata a essere la preghiera di tutto il popolo di Dio. In essa Cristo stesso continua» ad esercitare il suo ufficio sacerdota­le per mezzo della sua stessa Chiesa»; ciascuno vi prende parte secondo il ruolo che riveste nella Chiesa e le circostanze della propria vita: i sacerdoti in quanto impegnati nel sacro ministero pastorale, poiché sono chiamati a ri­manere assidui nella preghiera e nel ministero della parola; i religiosi e le reli­giose in forza del carisma della loro vita di consacrazione; tutti i fedeli secon­do le loro possibilità. «I Pastori d'anime procurino che le Ore principali, spe­cialmente i Vespri, siano celebrate in chiesa con partecipazione comune, nelle domeniche e feste più solenni. Si raccomanda che pure i laici recitino l'Ufficio divino o con i sacerdoti, o riuniti tra loro, o anche da soli».

1176 - Celebrare la liturgia delle Ore richiede non soltanto di far concordare la voce con il cuore che prega, ma anche di procurarsi «una più ricca istruzione liturgica e biblica, specialmente riguardo ai salmi».

1177 - Gli inni e le preghiere litaniche della liturgia delle Ore inserisco­no la preghiera dei salmi nel tempo della Chiesa, dando espressione al simbolismo dell'ora della giornata, del tempo liturgico o della festa ce­lebrata. Inoltre la lettura della Parola di Dio ad ogni Ora (con i re­sponsori o i tropari che seguono ad essa), e, in certe Ore, le letture dei Padri e dei maestri spirituali, rivelano in modo più profondo il senso del mistero celebrato, sono di aiuto alla comprensione dei salmi e pre­parano alla preghiera silenziosa. La lectio divina, nella quale la Parola di Dio è letta e meditata per trasformarsi in preghiera, è così radicata nella celebrazione liturgica.

1178 - La liturgia delle Ore, che costituisce quasi un prolungamento della celebrazione eucaristica, non esclude ma richiede come comple­mentari le varie devozioni del popolo di Dio, in modo particolare l'adorazione e il culto del Santissimo Sacramento

IV. Dove celebrare?

1179 - Il culto «in spirito e verità» (Gv 4,24) della Nuova Alleanza non è legato ad un luogo esclusivo. Tutta la terra è santa e affidata ai figli degli uomini. Quando i fedeli si riuniscono in uno stesso luogo, la realtà più importante è costituita dalle «pietre vive», messe insieme «per la costruzione di un edificio spirituale» (1 Pt 2,5). Il corpo di Cristo risorto è il tempio spirituale da cui sgorga la sorgente d'acqua viva. Incorporati a Cristo dallo Spirito Santo, «noi siamo il tempio del Dio vivente» (2 Cor 6,16).

1180 - Quando non viene ostacolato l'esercizio della libertà religiosa, i cristiani costruiscono edifici destinati al culto divino. Tali chiese visibili non sono semplici luoghi di riunione, ma significano e manifestano la Chiesa che vive in quel luogo, dimora di Dio con gli uomini riconciliati e uniti in Cristo.

1181 - «La casa di preghiera in cui l'Eucaristia è celebrata e conserva­ta; in cui i fedeli si riuniscono; in cui la presenza del Figlio di Dio no­stro Salvatore, che si è offerto per noi sull'altare del sacrificio, viene venerata a sostegno e consolazione dei fedeli, dev'essere nitida e adatta alla preghiera e alle sacre funzioni». In questa «casa di Dio», la veri­tà e l'armonia dei segni che la costituiscono devono manifestare Cristo che in quel luogo è presente e agisce:

1182 - L'altare della Nuova Alleanza è la croce del Signore dalla quale scatu­riscono i sacramenti del mistero pasquale. Sull'altare, che è il centro della chie­sa, viene reso presente il sacrificio della croce sotto i segni sacramentali. Esso è anche la Mensa del Signore, alla quale è invitato il popolo di Dio. In alcune liturgie orientali, l'altare è anche il simbolo della tomba (Cristo è veramente morto e veramente risorto).

1183 - Il tabernacolo, nelle chiese, deve essere situato «in luogo distintissimo, col massimo onore». La nobiltà, la disposizione e la sicurezza del tabernacolo eucaristico devono favorire l'adorazione del Signore realmente presente nel Santissimo Sacramento dell'altare. Il sacro crisma (myron), la cui unzione è il segno sacramentale del sigillo del dono dello Spirito Santo, è tradizionalmente conservato e venerato in un luogo sicuro della chiesa. Vi si può collocare anche l'olio dei catecumeni e quello degli infermi.

1184 - La sede del Vescovo (cattedra) o del presbitero «deve mostrare il compi­to che egli ha di presiedere l'assemblea e di guidare la preghiera». L'ambone: «L'importanza della Parola di Dio esige che vi sia nella chiesa un luogo adatto dal quale essa venga annunciata e verso il quale, durante la liturgia della Parola, spontaneamente si rivolga l'attenzione dei fedeli».

1185 - Il radunarsi del popolo di Dio ha inizio con il Battesimo; la chiesa deve quindi avere un luogo per la celebrazione del Battesimo (battistero) e favorire il ricordo delle promesse battesimali (acqua benedetta). Il rinnovamento della vita battesimale esige la penitenza. La chiesa deve perciò prestarsi all'espressione del pentimento e all'accoglienza del perdono, e questo comporta un luogo adatto per accogliere i penitenti. La chiesa deve anche essere uno spazio che invita al raccoglimento e alla preghiera silenziosa, la quale prolunga e interiorizza la grande preghiera del­l'Eucaristia. Infine, la chiesa ha un significato escatologico. Per entrare nella casa di Dio bisogna varcare una soglia, simbolo del passaggio dal mon­do ferito dal peccato al mondo della vita nuova al quale tutti gli uomi­ni sono chiamati. La chiesa visibile è simbolo della casa paterna verso la quale il popolo di Dio è in cammino e dove il Padre «tergerà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 21,4). Per questo la chiesa è anche la casa di tutti i figli di Dio, aperta e accogliente.

In sintesi

1187 - La liturgia é opera del Cristo totale, Capo e corpo. Il nostro Som­mo Sacerdote la celebra ininterrottamente nella liturgia celeste, con la santa Madre di Dio, gli Apostoli, tutti i santi e la moltitudine degli uomini già entrati nel Regno.

1188 - Nella celebrazione liturgica tutta l'assemblea e' «liturga», ciascuno secondo la propria funzione. Il sacerdozio battesimale è quello di tutto il corpo di Cristo. Tuttavia alcuni fedeli sono ordinati median­te il sacramento dell'Ordine per rappresentare Cristo come Capo del corpo.

1189 - La celebrazione liturgica comporta segni e simboli relativi alla crea­zione (luce, acqua, fuoco), alla vita umana (lavare, ungere, spezza­re il pane) e alla storia della salvezza (i riti della Pasqua). Inseriti nel mondo della fede e assunti dalla forza dello Spirito Santo, que­sti elementi cosmici, questi riti umani, queste gesta memoriali di Dio diventano portatori dell'azione di salvezza e di santifìcazione com­piuta da Cristo.

1190 - La liturgia della Parola è parte integrante della celebrazione. Il si­gnficato della celebrazione viene espresso dalla Parola di Dio che è annunziata e dall'impegno della fede che ad essa risponde.

1191 - Il canto e la musica sono strettamente connessi con l'azione liturgi­ca. I criteri della loro valida utilizzazione sono: la bellezza espressi­va della preghiera, la partecipazione unanime dell'assemblea e il carattere sacro della celebrazione.

1192 - Le sacre immagini, presenti nelle nostre chiese e nelle nostre case, hanno la funzione di risvegliare e nutrire la nostra fede nel mistero di Cristo. Attraverso l'icona di Cristo e delle sue opere di salvezza, è lui che noi adoriamo. Attraverso le sacre immagini della santa Madre di Dio, degli angeli e dei santi, veneriamo le persone che in esse sono rappresentate.

1193 - La domenica, «giorno del Signore», è il giorno principale della ce­lebrazione dell'Eucaristia, poiché è il giorno della risurrezione. E’ il giorno per eccellenza dell'assemblea liturgica, il giorno della fami­glia cristiana, il giorno della gioia e del riposo dal lavoro. E’ «il fondamento e il nucleo di tutto l'anno hturgico».

1194 - La Chiesa «nel ciclo annuale presenta tutto il mistero di Cristo, dall'incarnazione e natività fino all'ascensione, al giorno di penteco­ste e all'attesa della beata speranza e del ritorno del Signore».

1195 - Facendo memoria dei santi, in primo luogo della santa Madre di Dio, poi degli Apostoli, dei martiri e degli altri santi, in giorni fissi dell'anno liturgico, la Chiesa sulla terra manifesta di essere unita alla liturgia celeste; rende gloria a Cristo perché ha compiuto la salvezza nei suoi membri glorificati; il loro esempio le è di stimolo nel cammino verso il Padre.

1196 - I fedeli che celebrano la liturgia delle Ore si uniscono a Cristo, no­stro Sommo Sacerdote, mediante la preghiera dei salmi, la medita­zione della Parola di Dio, la preghiera dei cantici e delle benedizio­ni, per essere associati alla sua preghiera incessante e universale che glorifica il Padre e implora il dono dello Spirito Santo sul mondo intero.

1197 - Cristo è il vero tempio di Dio, «il luogo in cui abita la sua glo­ria»; per mezzo della grazia di Dio anche i cristiani diventano tem­pli dello Spirito Santo, le pietre vive con le quali viene edifìcata la Chiesa.

1198 - Nella sua condizione terrena, la Chiesa ha bisogno di luoghi in cui la comunità possa radunarsi: le nostre chiese visibili, luoghi santi, immagini della Città santa, la celeste Gerusalemme verso la quale siamo in cammino come pellegrini.

1199 - In queste chiese la Chiesa celebra il culto pubblico a gloria della Santissima Trinità, ascolta la Parola di Dio e canta le sue lodi, ele­va la sua preghiera, offre il sacriticio di Cristo, sacramentalmente presente in mezzo all'assemblea. Queste chiese sono inoltre luoghi di raccoglimento e di preghiera personale.

Articolo 2

DIVERSITÀ LITURGICA E UNITÀ DEL MISTERO

TRADIZIONI LITURGICHE E CATTOLICITÀ DELLA CHIESA

1200 - Dalla prima comunità di Gerusalemme fino alla parusia, le Chie­se di Dio, fedeli alla fede apostolica, celebrano, in ogni luogo, lo stesso mistero pasquale. Il mistero celebrato nella liturgia è uno, ma variano le forme nelle quali esso è celebrato.

1201 - É tale l'insondabile ricchezza del mistero di Cristo che nessuna tradizione liturgica può esaurirne l'espressione. La storia dello sbocciare e dello svilupparsi di questi riti testimonia una stupefacente complemen­tarità. Quando le Chiese hanno vissuto queste tradizioni liturgiche in comunione tra loro nella fede e nei sacramenti della fede, si sono reci­procamente arricchite crescendo nella fedeltà alla Tradizione e alla mis­sione comune a tutta la Chiesa.

1202 - Le varie tradizioni liturgiche hanno avuto origine proprio in fun­zione della missione della Chiesa. Le Chiese di una stessa area geografi­ca e culturale sono giunte a celebrare il mistero di Cristo con espressio­ ni particolari, culturalmente caratterizzate: nella tradizione del «deposito della fede», nel simbolismo liturgico, nell'organizzazione della co­munione fraterna, nella comprensione teologica dei misteri e in varie forme di santità. In questo modo Cristo, luce e salvezza di tutti i popoli, viene manifestato attraverso la vita liturgica di una Chiesa al popolo e alla cultura ai quali essa è inviata e nei quali è radicata. La Chiesa è cattolica: può quindi integrare nella sua unità, purificando­le, tutte le vere ricchezze delle culture.

1203 - Le tradizioni liturgiche, o riti, attualmente in uso nella Chiesa sono il ri­to latino (principalmente il rito romano, ma anche i riti di certe Chiese locali, come il rito ambrosiano o di certi ordini religiosi) e i riti bizantino, alessandri­no o copto, siriaco, armeno, maronita e caldeo. «Il sacro Concilio, in fedele ossequio alla tradizione, dichiara che la santa Madre Chiesa considera con uguale diritto e onore tutti i riti legittimamente riconosciuti, e vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati».

LITURGIA E CULTURE

1204 - La celebrazione della liturgia deve quindi corrispondere al genio e alla cultura dei diversi popoli. Affinché il mistero di Cristo sia «ri­velato [...] a tutte le genti perché obbediscano alla fede» (Rm 16,26), esso deve essere annunziato, celebrato e vissuto in tutte le culture, così che queste non vengano abolite, ma recuperate e portate a compimento grazie ad esso. La moltitudine dei figli di Dio, infatti, ha accesso al Padre, per rendergli gloria, in un solo Spirito, con e per mezzo della propria cultura umana, assunta e trasfigurata da Cristo.

1205 - «Nella liturgia, e segnatamente in quella dei sacramenti, c'è una parte immutabile, perché di istituzione divina, di cui la Chiesa è custode, e ci sono parti suscettibili di cambiamento, che essa ha il potere, e tal­volta anche il dovere, di adattare alle culture dei popoli recentemente evangelizzati.

1206 - «La diversità liturgica può essere fonte di arricchimento, ma può anche provocare tensioni, reciproche incomprensioni e persino scìsmì. In questo campo è chiaro che la diversità non deve nuocere all'unità. Essa non può esprimersi che nella fedeltà alla fede comune, ai segni sa­cramentali, che la Chiesa ha ricevuto da Cristo, e afla comunione gerar­chica. L'adattamento alle culture esige anche una conversione del cuore e, se è necessario, anche rotture con abitudini ancestrali incompatibili con la fede cattolica».

In sintesi

1207 - È opportuno che la celebrazione della liturgia tenda ad esprimersi nella cultura del popolo in cui la Chiesa è inserita, senza tuttavia sottomettersi ad essa. D'altra parte, la liturgia stessa genera e plasma le culture.

1208 - Le direrse tradizioni liturgiche, o riti, legittimamente riconosciuti, in quanto significano e comuinicano lo stesso nustero di Cristo, manife­stano la cattolicità della Chiesa.

1209 - Il criterio che assicura l'unità nella multilormità delle tradizioni li­turgiche è la fedeltà alla Tradizione apostolica, ossia: la comunione nella fede e nei sacramenti ricevuti dagli Apostoli, comunione che è significata e garantita dalla successione apostolica.

 

SEZIONE CECONDA

I SETTE SACRAMENTI DELLA CHIESA

1210 - I sacramenti della Nuova Legge sono istituiti da Cristo e sono sette, ossia: il Battesimo, la Confermazione, l'Eucaristia, la Penitenza, l'Unzione degli infermi, l'Ordine e il Matrimonio. I sette sacramenti toccano tutte le tappe e tutti i momenti importanti della vita del cristia­no: grazie ad essi, la vita di fede dei cristiani nasce e cresce, riceve la guarigione e il dono della missione. In questo si dà una certa somi­glianza tra le tappe della vita naturale e quelle della vita spirituale.

1211 - Seguendo questa analogia saranno presentati per primi i tre sa­cramenti dell'iniziazione cristiana (capitolo primo), poi i sacramenti della guarigione (capitolo secondo), infine i sacramenti che sono al servizio della comunione e della missione dei fedeli (capitolo terzo). Quest'ordine non è certo l'unico possibile; permette tuttavia di vedere che i sacra­menti formano un organismo nel quale ciascuno di essi ha il suo ruolo vitale. In questo organismo l'Eucaristia occupa un posto unico in quan­to è il «sacramento dei sacramenti»: «Gli altri sono tutti ordinati a questo come al loro specifico fine».

CAPITOLO PRIMO

I SACRAMENTI DELL'INIZIAZIONE CRISTIANA

1212 - Con i sacramenti dell'iniziazione cristiana, il Battesimo, la Con­fermazione e l'Eucaristia, sono posti i fondamenti di ogni vita cristiana. «La partecipazione alla natura divina, che gli uomini ricevono in dono mediante la grazia di Cristo, rivela una certa analogia con l'origine, lo sviluppo e l'accrescimento della vita naturale. Difatti i fedeli, rinati nel santo Battesimo, sono corroborati dal sacramento della Confermazione e, quindi, sono nutriti con il cibo della vita eterna nell'Eucaristia, sic­ché, per effetto di questi sacramenti dell'iniziazione cristiana, sono ìn grado di gustare sempre più e sempre meglio i tesori della vita divina e progredire fino al raggiungimento della perfezione della carità».

Articolo 1

IL SACRAMENTO DEL BATTESIMO

1213 - Il santo Battesimo è il fondamento di tutta la vita cristiana, il vestibolo d'ingresso alla vita nello Spirito («vitae spiritualis ianua»), e la porta che apre l'accesso agli altri sacramenti. Mediante il Battesimo sia­mo liberati dal peccato e rigenerati come figli di Dio, diventiamo mem­bra di Cristo; siamo incorporati alla Chiesa e resi partecipi della sua missione: «Baptismus est sacramentum regenerationis per aquam in verbo - Il Battesimo può definirsi il sacramento della rigenerazione cri­stiana mediante l'acqua e la parola»

I. Come viene chiamato questo sacramento?

1214 - Lo si chiama Battesimo dal rito centrale con il quale è compiuto: battezzare significa «tuffare», «immergere»; l'«immersione» nell'acqua è simbolo del seppellimento del catecumeno nella morte di Cristo, dalla quale risorge con lui, quale «nuova creatura» (2 Cor 5,17; GaI 6,15).

1215 - Questo sacramento è anche chiamato il «lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo» (Tt 3,5), poiché significa e realiz­za quella nascita dall'acqua e dallo Spirito senza la quale nessuno «può entrare nel regno di Dio» (Gv 3,5).

1216 - «Questo lavacro è chiamato illuminazione, perché coloro che ri­cevono questo insegnamento [catechistico] vengono illuminati nella mente». Poiché nel Battesimo ha ricevuto il Verbo, «la luce vera che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), il battezzato, dopo essere stato «illumi­nato», è divenuto «figlio della luce» e «luce » egli stesso (Ef 5,8): Il Battesimo «è il più bello e magnilico dei doni di Dio. (...) Lo chia­miamo dono, grazia, unzione, illuminazione, veste d'immortalità, lava­cro di rigenerazione, sigillo, e tutto ciò che vi è di più prezioso. Dono, poiché è dato a coloro che non portano nulla; grazia, perché viene elar­gito anche ai colpevoli; Battesimo, perché il peccato viene seppellito nel­l'acqua; unzione, perché è sacro e regale (tali sono coloro che vengono unti); illuminazione, perché è luce sfolgorante; veste, perché copre la no­stra vergogna; lavacro, perché ci lava; sigillo, perché ci custodisce ed è il segno della signoria di Dio».

Il. Il Battesimo nell'Economia della salvezza.

LA PREFIGURAZIONI DEL BATTESIMO NELL'ANTICA ALLEANZA

1217 - Nella liturgia della Notte pasquale, ìn occasione della benedizione dell'acqua battesimale, la Chiesa fa solenne memorìa dei grandi eventi della storia della salvezza che prefiguravano il mistero del Battesimo: «O Dio, (…) tu operi con invisibile potenza le meraviglie della salvezza; e in molti modi, attraverso i tempi, hai preparato l'acqua, tua creatura, ad essere segno del Battesimo».

1218 - Fin dalle origini del mondo l'acqua, questa umile e meravigliosa creatura, è la fonte della vita e della fecondità. La Sacra Scrittura la vede come «covata» dallo Spirito di Dio: «Fin dalle origini il tuo Spirito si librava sulle acque perché contenes­sero in germe la forza di santificare».

1219 - La Chiesa ha visto nell'arca di Noè una prefigurazione della sal­vezza per mezzo del Battesimo. Infatti, per mezzo di essa, «poche per­sone, otto in tutto, furono salvate per mezzo dell'acqua» (1 Pt 3,20): «Nel diluvio hai prefigurato il Battesimo, perché, oggi come allora, l'acqua segnasse la fine dcl peccato e l'inizio della vita nuova».

1220 - Se l'acqua di fonte è simbolo di vita, l'acqua del mare è un sim­bolo di morte. Per questo poteva essere figura del mistero della croce. Per mezzo di questo simbolismo il Battesimo significa la comunione alla morte di Cristo.

1221 - E’ soprattutto il passaggio del Mar Rosso, vera liberazione d'I­sraele dalla schiavitù d'Egitto, che annunzia la liberazione operata dal Battesimo: «Tu hai liberato dalla schiavitù i figli di Abramo, facendoli passare il­lesi attraverso il Mar Rosso, perché fossero immagine del futuro popolo dei battezzati».

1222 - Infine il Battesimo è prefigurato nella traversata del Giordano, grazie alla quale il popolo di Dio riceve il dono della terra promessa alla discendenza di Abramo, immagine della vita eterna. La promessa di questa beata eredità si compie nella Nuova Alleanza.

IL BATTESIMO DI CRISTO

1223 - Tutte le prefigurazioni dell'Antica Alleanza trovano la loro rea­lizzazione in Gesù Cristo. Egli dà inizio alla sua vita pubblica dopo es­sersi fatto battezzare da san Giovanni Battista nel Giordano e, dopo la sua risurrezione, affida agli Apostoli questa missione: «Andate dun­que e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,l9-20).

1224 - Nostro Signore si è volontariamente sottoposto al battesimo di san Giovanni, destinato ai peccatori, per compiere ogni giustizia. Que­sto gesto di Gesù è una manifestazione del suo «annientamento». Lo Spirito che si librava sulle acque della prima creazione, scende ora su Cristo, come preludio della nuova creazione, e il Padre manifesta Gesù come il suo Figlio prediletto.

1225 - É con la sua pasqua che Cristo ha aperto a tutti gli uomini le fonti del Battesimo. Egli, infatti, aveva già parlato della passione, che avrebbe subito a Gerusalemme, come di un «battesimo» con il quale doveva essere battezzato. Il sangue e l'acqua sgorgati dal fianco trafit­to di Gesù crocifisso sono segni del Battesimo e dell'Eucaristia, sacra­menti della vita nuova: da quel momento è possibile nascere «dall'ac­qua e dallo Spirito» per entrare nel regno dei cieli (Gv 3,5). Considera, quando sei battezzato, donde viene il Battesimo, se non dalla croce di Cristo, dalla morte di Cristo. Tutto il mistero sta nel fat­to che egli ha patito per te. In lui tu sei redento, in lui tu sei salvato».

IL BATTESIMO NELLA CHIESA

1226 - Dal giorno della pentecoste la Chiesa ha celebrato e amministra­to il santo Battesimo. Infatti san Pietro, alla folla sconvolta dalla sua predicazione, dichiara: «Pentitevi, e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati; dopo ri­ceverete il dono dello Spirito Santo» (At 2,38). Gli Apostoli e i loro collaboratori offrono il Battesimo a chiunque crede in Gesù: Giudei, ti­morati di Dio, pagani. Il Battesimo appare sempre legato alla fede: «Credi nel Signore Gesù e sarai salvato tu e la tua famiglia», dichiara san Paolo al suo carceriere a Filippi. Il racconto continua: «Subito il carceriere si fece battezzare con tutti i suoi» (At 16,31-33).

1227 - Secondo l'apostolo san Paolo, mediante il Battesimo il credente comunica alla morte di Cristo; con lui è sepolto e con lui risuscita: «Quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte. Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti in­sieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,3-4). I battezzati si sono «rivestiti di Cristo». Mediante l'azione dello Spiri­to Santo, il Battesimo è un lavacro che purifica, santifica e giustifica.

1228 - Il Battesimo è quindi un bagno d'acqua nel quale «il seme in­corruttibile» della Parola di Dio produce il suo effetto vivificante. Sant'Agostino dirà del Battesimo: «Accedit verbum ad elementum, et fit sacramentum - Si unisce la parola all'elemento, e nasce il sacra­mento ».

III. Come viene celebrato il sacramento del Battesimo.

L'INIZIAZIONE CRISTIANA

1229 - Diventare cristiano richiede, fin dal tempo degli Apostoli, un cammino e una iniziazione con diverse tappe. Questo itinerario può es­sere percorso rapidamente o lentamente. Dovrà in ogni caso comporta­re alcuni elementi essenziali: l'annunzio della Parola, l'accoglienza del Vangelo che provoca una conversione, la professione di fede, il Battesi­mo, l'effusione dello Spirito Santo, l'accesso alla Comunione eucaristica.

1230 - Questa iniziazione ha assunto forme molto diverse nel corso dei secoli e secondo le circostanze. Nei primi secoli della Chiesa l'iniziazione cristiana ha conosciuto un grande sviluppo, con un lungo periodo di catecumenato e una serie di riti preparatori che scandivano liturgicamente il cammino della preparazione catccumenale per concludersi con la celebrazione dei sacramenti dell'iniziazione cristiana.

1231 - Dove il Battesimo dei bambini è diventato largamente la forma abituale della celebrazione del sacramento, questa è divenuta un atto unico che, in modo molto abbreviato, integra le tappe preparatorie dell'iniziazione cristiana. Per la sua stessa natura il Battesimo dei bambini richiede un catecumenato post­battesimale. Non si tratta soltanto della necessità di una istruzione posteriore al Battesimo, ma del necessario sviluppo della grazia battesimale nella crescita della persona. È l'ambito proprio del catechismo.

1232 - Il Concilio Vaticano lI ha ripristinato, per la Chiesa latina, «il catecu­menato degli adulti, diviso in più gradi». I riti si trovano nell'Ordo initiationis christianae adultorum (1972). Il Concilio ha inoltre permesso che o nelle terre di missione sia acconsentito accogliere (…) anche quegli elementi di iniziazione in uso presso ogni popolo, nella misura in cui possono essere adattati al rito cristiano.

1233 - Oggi, dunque, in tutti i riti latini e orientali, l'iniziazione cristiana degli adulti incomincia con il loro ingresso nel catecumenato e arriva al suo culmine nella celebrazione unitaria dei tre sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell'Eucaristia. Nei riti orientali l'iniziazione cristiana dei bambini inco­mincia con il Battesimo immediatamente seguito dalla Confermazione e dall'Eu­caristia, mentre nel rito romano essa continua durante alcuni anni di catechesi, per concludersi più tardi con la Confermazione e l'Eucaristia, culmine della lo­ro iniziazione cristiana.

LA MISTAGOGIA DELLA CEI.EBRAZIONE

1234 - Il significato e la grazia del sacramento del Battesimo appaiono chiaramente nei riti della sua celebrazione. Seguendo con attenta parte­cipazione i gesti e le parole di questa celebrazione, i fedeli sono iniziati alle ricchezze che tale sacramento significa e opera in ogni nuovo bat­tezzato.

1235 - Il segno della croce, all'inizio della celebrazione, esprime il sigillo di Cristo su colui che sta per appartenergli e significa la grazia della redenzione che Cristo ci ha acquistato per mezzo della sua croce.

1236 - L'annunzio della Parola di Dio illumina con la verità rivelata i candidati e l'assemblea, e suscita la risposta della fede, inseparabile dal Battesimo. Infatti il Battesimo è in modo tutto particolare «il sacra­mento della fede», poiché segna l'ingresso sacramentale nella vita di fede.

1237- Dal momento che il Battesimo significa la liberazione dal pecca­to e dal suo istigatore, il diavolo, vengono pronunziati uno (o più) esorcismi sul candidato. Questi viene unto con l'olio dei catecumeni, oppure il celebrante impone su di lui la mano, ed egli rinunzia esplici­tamente a Satana. Così preparato, può professare la fede della Chiesa alla quale sarà «consegnato» per mezzo del Battesimo».

1238 - L'acqua battesimale viene quindi consacrata mediante una pre­ghiera di epiclesi (sia al momento stesso, sia nella Veglia pasquale). La Chiesa chiede a Dio che, per mezzo del suo Figlio, la potenza dello Spirito Santo discenda su quest'acqua, in modo che quanti vi saranno battezzati nascano «dall'acqua e dallo Spirito» (Gv 3,5).

1239 - Segue poi il rito essenziale del sacramento: il Battesimo propria­mente detto, che significa e opera la morte al peccato e l'ingresso nella vita della Santissima Trinità attraverso la configurazione al mistero pa­squale di Cristo. Il Battesimo viene compiuto nel modo più espressivo per mezzo della triplice immersione nell'acqua battesimale. Ma fin dal­l'antichità può anche essere conferito versando per tre volte l'acqua sul capo del candidato.

1240 - Nella Chiesa latina questa triplice infusione è accompagnata dalle parole del ministro: «N., io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Nelle liturgie orientali, mentre il catecumeno è rivolto verso l'Oriente, il sacerdote dice: «Il servo di Dio, N., è battezzato nel nome del Padre, e del Figlio, e dello Spirito Santo». E, all'invocazione di ogni Persona della Santissi­ma Trinità, lo immerge nell'acqua e lo risolleva.

1241 - L'unzione con il sacro crisma, olio profumato consacrato dal Ve­scovo, significa il dono dello Spirito Santo elargito al nuovo battezzato. Egli è divenuto un cristiano, ossia «unto» di Spirito Santo, incorpora­to a Cristo, che è unto Sacerdote, Profeta e Re.

1242 - Nella liturgia delle Chiese Orientali, l'unzione post-battesimale costituisce il sacramento della Crismazione (Confermazione). Nella liturgia romana, essa annunzia una seconda unzione con il sacro crisma che sarà effettuata dal Vescovo: cioè il sacramento della Confermazione, il quale, per così dire, «conferma» e porta a compimento l'unzione battesimale.

1243 - La veste bianca significa che il battezzato si è rivestito di Cristo, che egli é risorto con Cristo. La candela, accesa al cero pasquale, signi­fica che Cristo ha illuminato il neofita. In Cristo i battezzati sono «la luce del mondo» (Mt 5,14). Il nuovo battezzato è ora figlio di Dio nel Figlio unigenito. Può dire la preghiera dei figli di Dio: il Padre nostro.

1244 - La prima Comunione eucaristica. Divenuto figlio di Dio, rivestito dell'abito nuziale, il neofita è ammesso «al banchetto delle nozze del­l'Agnello» e riceve il nutrimento della vita nuova, il Corpo e il Sangue di Cristo. Le Chiese Orientali conservano una viva coscienza dell'unità dell'iniziazione cristiana amministrando la santa Comunione a tutti i neo-battezzati e confermati, anche ai bambini piccoli, ricordando la pa­rola del Signore: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite» (Mc 10,14). La Chiesa latina, che permette l'accesso alla san­ta Comunione solo a coloro che hanno raggiunto l'uso di ragione, met­te in luce che il Battesimo introduce all'Eucaristia accostando all'altare il bambino neo-battezzato per la preghiera del «Padre nostro».

1245 - La benedizione solenne conclude la celebrazione del Battesimo. In occasione del Battesimo dei neonati la benedizione della madre occupa un posto di rilievo

IV. Chi può ricevere il Battesimo?

1246 - «È capace di ricevere il Battesimo ogni uomo e solo l'uomo non ancora battezzato».

IL BATTESIMO DEGLI ADULTI

1247 - Dalle origini della Chiesa, il Battesimo degli adulti è la situazio­ne più normale là dove l'annunzio del Vangelo è ancora recente. Il ca­tecumenato (preparazione al Battesimo) occupa in tal caso un posto importante. In quanto iniziazione alla fede e alla vita cristiana, esso deve disporre ad accogliere il dono di Dio nel Battesimo, nella Confermazio­ne e nell'Eucaristia.

1248 - Il catecumenato, o formazione dei catecumeni, ha lo scopo di permettere a questi ultimi, in risposta all'iniziativa divina e in unione con una comunità ecclesiale, di condurre a maturità la loro conversione e la loro fede. Si tratta di una formazione «alla vita cristiana» median­te la quale «i discepoli vengono in contatto con Cristo, loro Maestro. Perciò i catecumeni siano convenientemente iniziati al mistero della sal­vezza e alla pratica delle norme evangeliche, e mediante i riti sacri, da celebrare in tempi successivi, siano introdotti nella vita della fede, della liturgia e della carità del popolo di Dio».

1249 - I catecumeni «sono già uniti alla Chiesa, appartengono già alla famiglia del Cristo, e spesso vivono già una vita di fede, di speranza e di carità». «La Madre Chiesa, come già suoi, li ricopre del suo amore e delle sue cure».

IL BATTESIMO DEI BAMBINI

1250 - Poiché nascono con una natura umana decaduta e contaminata dal peccato originale, anche i bambini hanno bisogno della nuova na­scita nel Battesimo per essere liberati dal potere delle tenebre e trasfe­riti nel regno della libertà dei figli di Dio, alla quale tutti gli uomini sono chiamati. La pura gratuità della grazia della salvezza si manifesta in modo tutto particolare nel Battesimo dei bambini. La Chiesa e i genitori priverebbero quindi il bambino della grazia inestimabile di diventare figlio di Dio se non gli conferissero il Battesimo poco dopo la nascita.

1251 - I genitori cristiani riconosceranno che questa pratica corrisponde pure al loro ruolo di alimentare la vita che Dio ha loro affidato.

1252 - L'usanza di battczzare i bambini é una tradizione della Chiesa da tempo immcmorabile. Essa é esplicitamente attestata fin dal secondo secolo. È tuttavia probabile che, fin dagli inizi della predicazione apostolica, quando «famiglie» intere hanno ricevuto il Battesimo, siano stati battezzati anche i bambini.

FEDE E BATTESIMO

1253 - Il Battesimo è il sacramento della fede. La fede però ha biso­gno della comunità dei credenti. È soltanto nella fede della Chiesa che ogni fedele può credere. La fede richiesta per il Battesimo non è una fede perfetta e matura, ma un inizio, che deve svilupparsi. Al catecume­no o al suo padrino viene domandato: «Che cosa chiedi alla Chiesa di Dio?». Ed egli risponde: «La fede!».

1254 - In tutti i battezzati, bambini o adulti, la fede deve crescere dopo il Battesimo. Per questo ogni anno, nella Veglia pasquale, la Chiesa celebra la rinnovazione delle promesse battesimali. La preparazione al Battesimo conduce soltanto alla soglia della vita nuova. Il Battesimo è la sorgente della vita nuova in Cristo, dalla quale fluisce l'intera vita cristiana.

1255 - Perché la grazia battesimale possa svilupparsi è importante l'aiu­to dei genitori. Questo è pure il ruolo del padrino o della madrina, che devono essere credenti solidi, capaci e pronti a sostenere nel cammìno della vita cristiana il neo-battezzato, bambino o adulto. Il loro compi­to è una vera funzione ecclesiale («officium»). L'intera comunità eccle­siale ha una parte di responsabilità nello sviluppo e nella conservazione della grazia ricevuta nel Battesimo

V. Chi può battezzare?

1256 - I ministri ordinari del Battesimo sono il Vescovo e il presbitero, e, nella Chiesa latina, anche il diacono. In caso di necessità, chiunque anche un non battezzato, purché abbia l'intenzione richiesta, può bat­tezzare, utilizzando la formula battesimale trinitaria. L'intenzione ri­chiesta è di voler fare ciò che fa la Chiesa quando battezza. La Chiesa trova la motivazione di questa possibilità nella volontà salvifica univer­sale di Dio e nella necessità del Battesimo per la salvezza.

VI. La necessità del Battesimo.

1257 - Il Signore stesso afferma che il Battesimo è necessario per la saI­vezza. Per questo ha comandato ai suoi discepoli di annunziare il Van­gelo e di battezzare tutte le nazioni. Il Battesimo è necessario alla saI­vezza per coloro ai quali è stato annunziato il Vangelo e che hanno avuto la possibilità di chiedere questo sacramento. La Chiesa non co­nosce altro mezzo all'infuori del Battesimo per assicurare l'ingresso nel­la beatitudine eterna; perciò si guarda dal trascurare la missione ricevu­ta dal Signore di far rinascere «dall'acqua e dallo Spirito» tutti coloro che possono essere battezzati. Dio ha legato la salvezza al sacranento del Battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti.

1258 - Da sempre la Chiesa è fermamente convinta che quanti subisco­no la morte a motivo della fede, senza aver ricevuto il Battesimo, vengono battezzati mediante la loro stessa morte per Cristo e con lui. Questo Battesimo di sangue, come pure il desiderio del Battesimo, porta i frutti del Battesimo, anche senza essere sacramento.

1259 - Per i catecumeni che muoiono prima del Battesimo, il loro desiderio esplicito di riceverlo, unito al pentimento dei propri peccati e alla carità, assicura loro la salvezza che non hanno potuto ricevere mediante il sacra­mento.

1260 - «Cristo è morto per tutti e la vocazione ultima dell'uomo è effettivamente una sola, quella divina, perciò dobbiamo ritenere che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità di venire a contatto, nel modo che Dio conosce, col mistero pasquale. Ogni uomo che, pur ignorando il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, cerca la verità e compie la volontà di Dio come la conosce, può essere salvato. È lecito supporre che tali persone avrebbero desiderato esplicitamente il Battesimo, se ne avessero conosciuta la necessità.

1261 - Quanto ai bambini morti senza Battesimo, la Chiesa non può che affidarli alla misericordia di Dio, come appunto fa nel rito dei funerali per loro. Infatti, la grande misericordia di Dio, «il quale vuole che tut­ti gli uomini siano salvati» (1 Tm 2,4), e la tenerezza di Gesù verso i bambini, che gli ha fatto dire: «Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite» (Mc 10,14), ci consentono di sperare che vi sia una via di salvezza per i bambini morti senza Battesimo. Tanto più pressante è perciò l'invito della Chiesa a non impedire che i bambini vengano a Cristo mediante il dono del santo Battesimo.

VII. La grazia del Battesimo.

1262 - I diversi effetti operati dal Battesimo sono significati dagli ele­menti sensibili del rito sacramentale. L'immersione nell'acqua richiama i simbolismi della morte e della purificazione, ma anche della rigenerazio­ne e del rinnovamento. I due effetti principali sono dunque la purifica­zione dai peccati e la nuova nascita nello Spirito Santo.

PER LA REMISSIONE DEI PECCATI…

1263 - Per mezzo del Battesimo sono rimessi tutti i peccati, il peccato originale e tutti i peccati personali, come pure tutte le pene del peccato. In coloro che sono stati rigenerati, infatti, non rimane nulla che impedisca loro di entrare nel regno di Dio, nè il peccato di Adamo, nè il peccato personale, nè le conseguenze del peccato, di cui la più grave è la separazione da Dio.

1264 - Rimangono tuttavia nel battezzato alcune conseguenze temporali del peccato, quali le sofferenze, la malattia, la morte, o le fragilità ine­renti alla vita come le debolezze del carattere, ecc., e anche una inclina­zione al peccato che la Tradizione chiama la concupiscenza, o, metafori­camente, l'incentivo del peccato («fomes peccati»): «Essendo questa la­sciata per la prova, non può nuocere a quelli che non vi acconsen­tono e che le si oppongono virilmente con la grazia di Gesù Cristo. Anzi, "non riceve la corona se non chi ha lottato secondo le regole" (2 Tm 2,5)».

«UNA NUOVA CREATURA»

1265 - Il Battesimo non soltanto purifica da tutti i peccati, ma fa pure del neofita una «nuova creatura» (2 Cor 5,17), un figlio adottivo di Dio che è divenuto «partecipe della natura divina» (2 Pt 1,4), mem­bro di Cristo e coerede con lui, tempio dello Spirito Santo.

1266 - La Santissima Trinità dona al battezzato la grazia santificante, la grazia della giustificazione che lo rende capace di credere in Dio, di sperare in lui e di amarlo per mezzo delle virtù teologali; - gli dà la capacità di vivere e agire sotto la mozione dello Spirito Santo per mezzo dei doni dello Spirito Santo; gli permette di crescere nel bene per mezzo delle virtù morali. In questo modo tutto l'organismo della vita soprannaturale del cri­stiano ha la sua radice nel santo Battesimo.

INCORPORATI ALLA CHIESA, CORPO DI CRISTO

1267 - Il Battesimo ci fa membra del corpo di Cristo. «Siamo membra gli uni degli altri» (Ef 4,25). Il Battesimo incorpora alla Chiesa. Dai fonti battesimali nasce l'unico popolo di Dio della Nuova Alleanza che supera tutti i limiti naturali o razze e dei sessi: «In realtà noi tutti siamo stati battezzati in un solo Spirito per formare un solo corpo» (I Cor 12,13).

1268 - I battezzati sono divenuti «pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo» (1 Pi 2,5). Per mezzo del Battesimo sono partecipi del sacerdozio di Cristo, della sua missione profetica e regale, sono «la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere mera­vigliose di lui» che li «ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce» (I Pt 2,9). Il Battesimo rende partecipi del sacerdozio comune dei frdeli.

1269 - Divenuto membro della Chiesa, il battezzato non appartiene più a se stesso, ma a colui che è morto e risuscitato per noi. Perciò è chiamato a sottomettersi agli altri, a servirli nella comunione della Chiesa, ad essere «obbediente» e «sottomesso» ai capi della Chiesa, e a trattarli «con rispetto e carità. Come il Battesimo comporta re­sponsabilità e doveri, allo stesso modo il battezzato fruisce anche di di­ritti in seno alla Chiesa: quello di ricevere i sacramenti, di essere nutri­to dalla Parola di Dio e sostenuto dagli altri aiuti spirituali della Chiesa.

1270 - «Rigenerati [dal Battesimo] per essere figli di Dio, [i battezzati] sono tenuti a professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio median­te la Chiesa» e a partecipare all'attività apostolica e missionaria del popolo di Dio.

IL VINCOLO SACRAMENTALE DELL’UNITÀ DEI CRISTIANI

1271 - Il Battesimo costituisce il fondamento della comunione tra tutti i cristiani, anche con quanti non sono ancora nella piena comunione con la Chiesa cattolica: «Quelli infatti che credono in Cristo ed hanno rice­vuto debitamente il Battesimo, sono costituiti in una certa comunione, sebbene imperfetta, con la Chiesa cattolica. Giustificati nel Battesi­mo dalla fede, sono incorporati a Cristo, e perciò sono a ragione insi­gniti del nome di cristiani, e dai figli della Chiesa cattolica sono giustamente riconosciuti come fratelli nel Signore». «Il Battesimo quindi costituisce il vincolo sacramentale dell'unitù che vige tra tutti quelli che per mezzo di esso sono stati rigenerati.

UN SIGILLO SPIRITUALE INDELEBILE…

1272 - Incorporato a Cristo per mezzo del Battesimo, il battezzato viene conformato a Cristo. Il Battesimo segna il cristiano con un sigillo spi­rituale indelebile («carattere») della sua appartenenza a Cristo. Questo sigillo non viene cancellato da alcun peccato, sebbene il peccato impedi­sca al Battesimo di portare frutti di salvezza. Conferito una volta per sempre, il Battesimo non può essere ripetuto.

1273 - Incorporati alla Chiesa per mezzo del Battesimo, i fedeli hanno ricevuto il carattere sacramentale che li consacra per il culto religioso cristiano. Il sigillo battesimale abilita e impegna i cristianì a servìre Dio mediante una viva partecipazione alla santa liturgia della Chiesa e a esercitare il loro sacerdozio battesimale con la testimonianza di una vita santa e con una operosa carità.

1274 - Il «sigillo del Signore» è il sigillo con cui lo Spirito Santo ci ha segnati «per il giorno della redenzione» (Ef 4,30). «Il Battesimo, infatti, è il sigillo della vita eterna. Il fedele che avrà «custodito il sigillo» sino alla fine, ossia che sarà rimasto fedele alle esigenze del proprio Battesimo, potrà morire nel «segno della del proprio Battesimo, nell'attesa della beata visione di Dio - consumazione della fede - e nella speranza della risurrezione.

In sintesi

1275 - L'iniziazione cristiana si compie attraverso l'insieme di tre sacramenti: il Battesimo, che è l'inizio della vita nuova, la Confermazione, che ne è il rafforzamento; e l'Eucaristia, che nutre il discepolo con il Corpo e il Sangue di Cristo in vista della sua trasformazione in lui.

1276 - «Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20).

1277 - Il Battesimo costituisce la nascita alla vita nuova in Cristo. Secon­do la volontà del Signore esso è necessario per la salvezza, come la Chiesa stessa, nella quale il Battesimo introduce.

1278 - Il rito essenziale del Battesimo consiste nell'immergere nell'acqua il candidato o nel versargli dell'acqua sul capo, mentre si pronuncia l'invocazione della Santissima Trinità, ossia del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.

1279 - Il frutto del Battesimo o grazia battesimale è una realtà ricca che comporta: la remissione del peccato originale e di tutti i peccati personali; la nascita alla vita nuova mediante la quale l'uomo diven­ta figlio adottivo del Padre, membro di Cristo, tempio dello Spirito Santo. Per ciò stesso il battezzato è incorporato alla Chiesa, corpo di Cristo, e reso partecipe del sacerdozio di Cristo.

1280 - Il Battesimo imprime nell'anima un segno spirituale indelebile, il carat­tere, il quale consacra il battezzato al culto della religione cristiana. A motivo del carattere che imprime, il Battesimo non può essere ripetuto.

1281 - Coloro che subiscono la morte a causa della fede, i catecumeni e tutti gli uomini che, sotto l'impulso della grazia, senza conoscere la Chiesa, cercano sinceramente Dio e si sforzano di compiere la sua volontà, pos­sono essere salvati anche se non hanno ricevuto il Battesimo.

1282 - Fin dai tempi più antichi, il Battesimo viene amministrato ai bambi­ni, essendo una grazia e un dono di Dio che non presuppongono meriti umani; i bambini sono battezzati nella fede della Chiesa. L'ingresso nella vita cristiana introduce nella vera libertà.

1283 - Quanto ai bambini morti senza Battesimo, la liturgia della Chiesa ci invita a confidare nella misericordia di Dio, e a pregare per la loro salvezza.

1284 - In caso di necessità, chiunque può battezzare, a condizione che in­tenda fare ciò che fà la Chiesa, e che versi dell'acqua sul capo del candidato dicendo: «Io ti battezzo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo».

Articolo 2

IL SACRAMENTO DELLA CONFERMAZIONE

1285 - Con il Battesimo e l'Eucaristia, il sacramento della Confermazio­ne costituisce l'insieme dei «sacramenti dell'iniziazione cristiana», la cui unità deve essere salvaguardata. È dunque necessario spiegare ai fe­deli che la recezione di questo sacramento è necessaria per il rafforza­mento della grazia battesimale. Infatti, «con il sacramento della Con­fermazione [i battezzati] vengono vincolati più perfettamente alla Chie­sa, sono arricchiti di una speciale forza dallo Spirito Santo, e in questo modo sono più strettamente obbligati a diffondere e a difendere con la parola e con l'opera la fede come veri testimoni di Cristo .

I. La Confermazione nell'Economia della salvezza.

1286 - Nell'Antico Testamento, i profeti hanno annunziato che lo Spirito del Signore si sarebbe posato sul Messia atteso in vista della sua mis­sione salvifica. La discesa dello Spirito Santo su Gesù, al momento del suo Battesimo da parte di Giovanni, costituì il segno che era lui che doveva venire, che egli era il Messia, il Figlio di Dio. Concepito per opera dello Spirito Santo, tutta la sua vita e la sua missione si svolgo­no in una totale comunione con lo Spirito Santo che il Padre gli dà «senza misura» (Gv 3,34).

1287 - Questa pienezza dello Spirito non doveva rimanere soltanto del Messia, ma doveva essere comunicata a tutto il popolo messianico. Più volte Cristo ha promesso l'effusione dello Spirito, promessa che ha attuato dapprima il giorno di Pasqua e in seguito, in modo più stupefacente, il giorno di Pentecoste. Pieni di Spirito Santo, gli Apostoli cominciano ad annunziare «le grandi opere di Dio» (Al 2,11) e Pietro afferma che quella effusione dello Spirito sopra gli Apostoli è il segno dei tempi messianici. Coloro che allora hanno creduto alla predicazione apostolica e che si sono fatti battezzare, hanno ricevuto, a loro volta, il dono dello Spirito Santo.

1288 - «Fin da quel tempo gli Apostoli, in adempimento del volere di Cristo, comunicavano ai neofiti, attraverso l'imposizione delle mani, il dono dello Spirito, destinato a completare la grazia del Battesimo. Questo spiega perché nella lettera agli Ebrei viene ricordata, tra i primi elementi della formazione cristiana, la dottrina dei battesimi e anche dell'imposizione delle mani. E appunto questa imposizione delle mani che giustamente viene considerata dalla tradizione cattolica come la pri­ma origine del sacramento della Confermazione, il quale rende, in qual­che modo, perenne nella Chiesa la grazia della pentecoste».

1289 - Per meglio esprimere il dono dello Spirito Santo, ben presto all'imposizione delle mani si è aggiunta una unzione di olio profumato (crisma). Tale unzione spiega il nome di «cristiano» che significa «unto» e che trae la sua origine da quello di Cristo stesso, che «Dio con­sacrò [ha unto] in Spirito Santo» (At 10,38). Questo rito di unzione è rimasto in uso fino ai nostri giorni sia in Oriente sia in Occidente. Per­ciò in Oriente questo sacramento viene chiamato Crismazione, unzione con il crisma, che significa «crisma». In Occidente il termine Confermazione suggerisce che questo sacramento nel medesimo tempo conferma il Battesimo e rafforza la grazia battesimale.

DUE TRADIZIONI: L'ORIENTE E L'OCCIDENTE

1290 - Nei primi secoli la Confermazione costituisce in genere una celebrazione unica con il Battesimo, formando con questo, secondo l'espressione di san Ci­priano, un «sacramento doppio». Ma, tra le altre cause, il moltiplicarsi dei Battesimi di bambini, e questo in qualsiasi periodo dell'anno, e la crescita numerica delle parrocchie (rurali), con il conseguente ampliamento delle dio­cesi, non permettono più la presenza del Vescovo a tutte le celebrazioni battesi­mali. In Occidente, poiché si preferisce riservare al Vescovo il portare a compi­mento il Battesimo, avviene la separazione temporale dei due sacramenti. L'Oriente ha invece conservato uniti i due sacramenti, così che la Confermazio­ne è conferita dal presbitero stesso che battezza. Questi tuttavia può farlo sol­tanto con il «crisma» consacrato da un Vescovo.

1291 - Una consuetudine della Chiesa di Roma ha facilitato lo sviluppo della pratica occidentale: la duplice unzione con il sacro crisma dopo il Battesimo. La prima unzione, compiuta dal sacerdote sul neofita, al momento in cui esce dal lavacro battesimale, è portata a compimento da una seconda unzione fatta dal vescovo sulla fronte di ogni neo-battezzato. La prima unzione con il sacro crisma, quella data dal sacerdote, è rimasta unita al rito del Battesimo: significa la partecipazione del battezzato alle funzioni profetica, sacerdotale e regale di Cristo. Se il Battesimo viene conferito ad un adulto, vi è una sola unzione post-battesimale: quella della Confermazione.

1292 - La pratica delle Chiese Orientali sottolinea maggiormente l'unità dell'ini­ziazione cristiana. Quella della Chiesa latina evidenzia più nettamente la comu­nione del nuovo cristiano con il proprio Vescovo, garante e servo dell'unità della sua Chiesa, della sua cattolicità e della sua apostolicità, e, conseguente­mente, il legame con le origini apostoliche della Chiesa di Cristo.

lI. I segni e il rito della Confermazione

1293 - Nel rito di questo sacramento è opportuno considerare il segno dell'unzione e ciò che l'unzione indica e imprime: il sigillo spirituale. Nel simbolismo biblico e antico, l'unzione presenta una grande ric­chezza di significati: l'olio è segno di abbondanza e di gioia, purifica (unzione prima e dopo il bagno), rende agile (l'unzione degli atleti e dei lottatori); è segno di guarigione, poiché cura le contusioni e le piaghe e rende luminosi di bellezza, di salute e di forza.

1294 - Questi significati dell'unzione con l'olio si ritrovano tutti nella vita sacramentale. L'unzione prima del Battesimo con l'olio dei catecu­meni ha il significato di purificare e fortificare; l'unzione degli infermi esprime la guarigione e il conforto. L'unzione con il sacro crisma dopo il Battesimo, nella Confermazione e nell'Ordinazione, è il segno di una consacrazione. Mediante la Confermazione, i cristiani, ossia coloro che sono unti, partecipano maggiormente alla missione di Gesù Cristo e al­la pienezza dello Spirito Santo di cui egli è ricolmo, in modo che tutta la loro vita effonda il profumo di Cristo.

1295 - Per mezzo di questa unzione il cresimando riceve «il marchio», il sigillo dello Spirito Santo. Il sigillo è il simbolo della persona, il se­gno della sua autorità, della sua proprietà su un oggetto - per que­sto si usava imprimere sui soldati il sigillo del loro capo, come sugli schiavi quello del loro padrone -; esso autentica un atto giuridico un documento e, in certi casi, lo rende segreto.

1296 - Cristo stesso si dichiara segnato dal sigillo del Padre suo. An­che il cristiano è segnato con un sigillo: «È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo, e ci ha conferito l'unzione, ci ha impresso il si­gillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori» (2 Cor 1,21-22). Questo sigillo dello Spirito Santo segna l'appartenenza totale a Cristo, l'essere al suo servizio per sempre, ma anche la promessa della divina protezione nella grande prova escatologica.

LA CELEBRAZIONE DELLA CONFERMAZIONE

1297 - La consacrazione del sacro crisma è un momento importante che precede la celebrazione della Confermazione, ma che, in un certo senso, ne fa parte. È il Vescovo che, il Giovedì Santo, durante la Messa cri­smale, consacra il sacro crisma per tutta la sua diocesi. Anche nelle Chiese d'Oriente questa consacrazione è riservata al Patriarca: La liturgia antiochena esprime in questi termini l'epiclesi della consa­crazione del sacro crisma: «[Padre (...) manda il tuo Santo Spi­rito] su di noi e su questo olio che è davanti a noi e consacralo, affin­ché per tutti coloro che ne verranno unti e segnati, esso sia: myron san­to, myron sacerdotale, myron regale, unzione di letizia, la veste di luce, il manto della salvezza, il dono spirituale, la santificazione delle anime e dei corpi, la felicità eterna, il sigillo indelebile, lo scudo della fede e l'elmo invincibile contro tutte le macchinazioni dell'avversario».

1298 - Quando la Confermazione viene celebrata separatamente dal Battesimo, come avviene nel rito romano, la liturgia del sacramento ha inizio con la rinno­vazione delle promesse battesimali e con la professione di fede da parte dei cre­simandi. In questo modo risulta evidente che la Confermazione si colloca in suecessione al Battesimo. Quando viene battezzato un adulto, egli riceve ìmme­diatamente la Confermazione e partecipa all'Eucaristia.

1299 - Nel rito romano, il Vescovo stende le mani sul gruppo dei cresi­mandi: gesto che, fin dal tempo degli Apostoli, è il segno del dono del­lo Spirito. Spetta al Vescovo invocare l'effusione dello Spirito: «Dio onnipotente, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che hai rige­nerato questi tuoi figli dall'acqua e dallo Spirito Santo liberandoli dal peccato, infondi in loro il tuo santo Spirito Paraclito: spirito di sapien­za e di intelletto, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di scienza e di pietà, e riempili dello spirito del tuo santo timore. Per Cristo, nostro Signore».

1300 - Segue il rito essenziale del sacramento. Nel rito latino, «il sacra­mento della Confermazione si conferisce mediante l'unzione del crisma sulla fronte, che si fa con l'imposizione della mano, e mediante le paro­le: "Accipe signaculum doni Spiritus Saneti" - "Ricevi il sigillo dello Spirito Santo che ti è dato in dono"». Presso le Chiese Orientali di ri­to bizantino, l'unzione con il (…) viene fatta, dopo una preghiera di epiclesi sulle parti più significative del corpo: la fronte, gli occhi, il na­so, le orecchie, le labbra, il petto, il dorso, le mani e i piedi; ogni un­zione è accompagnata dalla formula: («Signaculum doni Spiritus Sancti» - «Sigillo del dono dello Spirito Santo»),

1301 - Il bacio di pace che conclude il rito del sacramento significa ed esprime la comunione ecclesiale con il Vescovo e con tutti i fedeli.

III. Gli effetti della Confermazione.

1302 - Risulta dalla celebrazione che l'effetto del sacramento della Con­fermazione è la speciale effusione dello Spirito Santo, come già fu concessa agli Apostoli il giorno di pentecoste.

1303 - Ne deriva che la Confermazione apporta una crescita e un approfondimento della grazia battesimale: ci radica più profondamente nella filiazione divina grazie alla quale diciamo: «Abbà, Padre» (Rm 8,15); ci unisce più saldamente a Cristo; aumenta in noi i doni dello Spirito Santo; rende più perfetto il nostro legame con la Chiesa; ci accorda una speciale forza dello Spirito Santo per diffondere e difendere con la parola e con l'azione la fede, come veri testimoni di Cristo, per confessare coraggiosamente il nome di Cristo e per non vergognarci mai della sua croce: Ricorda che hai ricevuto il sigillo spirituale, lo Spirito di sapienza e di ìntelletto, lo Spirito di consiglio e di fortezza, lo Spirito di conoscenza e di pietà, lo Spirito di timore di Dio, e conserva ciò che hai ricevuta. Dio Padre ti ha segnato, ti ha confermato Cristo Signore e ha posto nel tuo cuore quale pegno lo Spirito».

1304 - Come il Battesimo, di cui costituisce il compimento, la Confer­mazione è conferita una sola volta. Essa infatti imprime nell'anima un marchio spirituale indelebile, il «carattere»; esso è il segno che Gesù Cristo ha impresso sul cristiano il sigillo del suo Spirito rivestendolo di potenza dall'alto perché sia suo testimone.

1305 - Il «carattere» perfeziona il sacerdozio comune dei fedeli, ricevu­to nel Battesimo, e «il cresimato riceve il potere di professare pubblica­mente la fede cristiana, quasi per un incarico ufficiale (quasi ex officio)

IV. Chi può ricevere questo sacramento?

1306 - Può e deve ricevere il sacramento della Confermazione ogni bat­tezzato, che non l'abbia ancora ricevuto. Dal momento che Battesimo, Confermazione ed Eucaristia costituiscono un tutto unitario, ne deriva che «i fedeli sono obbligati a ricevere tempestivamente questo sacra­mento»; senza la Confermazione e l'Eucaristia, infatti, il sacramento del Battesimo è certamente valido ed efficace, ma l'iniziazione cristiana rimane incompiuta.

1307 - La consuetudine latina da secoli indica come punto di riferimento per ri­cevere la Confermazione «l'età della discrezione». Quando fossero in pericolo di morte, tuttavia, i bambini devono essere cresimati anche se non hanno anco­ra raggiunto tale età.

1308 - Se talvolta si parla della Confermazione come del «sacramento della maturità cristiana», non si deve tuttavia confondere l'età adulta della fede con l'età adulta della crescita naturale, e neppure dimenticare che la grazia del Battesimo è una grazia di elezione gratuita e immerita­ta, che non ha bisogno di una «ratifica» per diventare effettiva. Lo ricorda san Tommaso: «L'età fisica non condiziona l'anima. Quindi anche nell'età della pueri­zìi l'uomo può ottenere la perfezione dell’età spirituale di cui la Sa­pienza (4,8) dice: “Vecchiaia veneranda non è la longevità, nè si calcola dal numero degli anni”. È per questo che molti, nell'età della fanciul­lezza, avendo ricevuto la forza dello Spirito Santo, hanno combattuto generosamente per Cristo fino al sangue.

1309 - La preparazione alla Confermazione deve mirare a condurre il cristiano verso una più intima unione con Cristo, verso una familiarità più viva con lo Spirito Santo, la sua azione, i suoi doni e le sue mozio­ni, per poter meglio assumere le responsabilità apostoliche della vita cristiana. Di conseguenza la catechesi della Confermazione si sforzerà di risvegliare il senso dell'appartenenza alla Chiesa di Gesù Cristo, sia alla Chiesa universale che alla comunità parrocchiale. Su quest'ultima grava una particolare responsabilità nella preparazione dei confermandi.

1310 - Per ricevere la Confermazione si deve essere in stato di grazia. È opportuno accostarsi al sacramento della Penitenza per essere purificati in vista del dono dello Spirito Santo. Una preghiera più intensa deve preparare a ricevere con docilità e disponibilità la forza e le grazie dello Spirito Santo.

1311 - Per la Confermazione, come per il Battesimo, è conveniente che i candidati cerchino l'aiuto spirituale di un padrino o di una madrina. E’ opportuno che sia la stessa persona scelta per il Battesimo, per sottoli­neare meglio l'unità dei due sacramenti.

V. Il ministro della Confermazione.

1312 - Ministro originario della Confermazione è il Vescovo». In Oriente, è ordinariamente il presbitero che battezza a conferire subito anche la Confermazione in una sola e medesima celebrazione. Tuttavia lo fa con il sacro crisma consacrato dal Patriarca o dal Vesco­vo: ciò esprime l'unità apostolica della Chiesa, i cui vincoli vengono rafforzati dal sacramento della Confermazione. Nella Chiesa latina si attua la stessa disciplina nel Battesimo degli adulti, o quando viene am­messo alla piena comunione con la Chiesa un battezzato che appartiene ad un'altra comunità cristiana il cui sacramento della Confermazione non è valido.

1313 - Nel rito latino, il ministro ordinario della Confermazione è il Vescovo sebbene, qualora se ne presenti la necessità, il Vescovo possa concedere ai presbiteri la facoltà di amministrare la Confermazione, e opportuno che la conferisca egli stesso, non dimenticando che appunto per questa ragione la celebrazione della Confermazione è stata separata temporalmente dal Battesimo. I Vescovi sono i successori degli Aposto­li, essi hanno ricevuto la pienezza del sacramento dell'Ordine. Il fatto che questo sacramento venga amministrato da loro evidenzia che esso ha come effetto di unire più strettamente coloro che lo ricevono alla chiesa, alle sue origini apostoliche e alla sua missione di testimoniare Cristo.

1314 - Se un cristiano si trova in pericolo di morte, qualsiasi presbitero può conferirgli la Confermazione. La Chiesa infatti vuole che nessuno dei suoi figli, anche se in tenerissima età, esca da questo mondo senza essere stato reso perfetto dallo Spirito Santo mediante il dono della pie­nezza di Cristo.

In sintesi

1315 - «Gli Apostoli, a Gerusalemme, seppero che la Samaria aveva accol­to la parola di Dio e vi inviarono Pietro e Giovanni. Essi discesero e pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo; non era infatti ancora sceso sopra nessuno di loro, ma erano stati soltanto battezzati nel nome del Signore Gesù. Allora imponevano loro le mani e quelli ricevevano lo Spirito Santo» (At 8,14-17).

1316 - La Confermazione perfeziona la grazia battesimale; é il sacramento che dona lo Spirito Santo per radicarci più profondamente nella fi­liazione divina, incorporarci più saldamente a Cristo, rendere più solido il nostro legame con la Chiesa, associarci maggiormente alla sua missione e aiutarci a testimoniare la fède cristiana con la paro­la accompagnata dalle opere.

1317 - La Confermazione, come il Battesimo, imprime nell'anima del cri­stiano un segno spirituale o carattere indelebile; perciò si può rice­vere questo sacramento una sola volta nella vita.

1318 - In Oriente questo sacramento viene amministrato immediatamente dopo il Battesimo; è seguito dalla partecipazione all'Eucaristia; que­sta tradizione sottolinea l'unità dei tre sacramenti dell'iniziazione cristiana. Nella Chiesa latina questo sacramento viene conferito quando si è raggiunta l'età della ragione, e la sua celebrazione è normalmente riservata al Vescovo, significando così che questo sacramento rinsalda il legame ecclesiale.

1319 - Un candidato alla Confermazione che abbia raggiunto l'età della ra­gione deve professare la fede, essere in stato di grazia, aver l'inten­zione di ricevere il sacramento ed essere preparato ad assumere il proprio ruolo di discepolo e di testimone di Cristo nella comunità ecclesiale e negli impegni temporali.

1320 - Il rito essenziale della Confermazione è l'unzione con il sacro Cri­sma sulla fronte del battezzato (in Oriente anche su altre parti del corpo), accompagnata dall'imposizione delle mani da parte del mini­stro e dalle parole: «Accipe signaculum doni Spiritus Sancti» - «Ricevi il sigillo dello Spirito Santo che ti è dato in dono», nel ri­to romano, «Signacuhim doni Spiritus Sancti» - «Sigillo del dono dello Spirito Santo», nel rito bizantino.

1321 - Quando la Confermazione viene celebrata separalamente dal Batte­simo, il suo legame con questo è espresso, tra l'altro, dalla rinnova­lane delle promesse battesimali. La celebrazione della Confermazione durante la liturgia eucaristica contribuisce a sottolineare l'unità dei sacramenti dell'iniziazione cristiana.

Articolo 3

IL SACRAMENTO DELL'EUCARISTIA

1322 - La santa Eucaristia completa l'iniziazione cristiana. Coloro che sono stati elevati alla dignità del sacerdozio regale per mezzo del Batte­simo e sono stati conformati più profondamente a Cristo mediante la Confermazione, attraverso l'Eucaristia partecipano con tutta la comuni­tà allo stesso sacrificio del Signore.

1323 - «Il nostro Salvatore nell'ultima Cena, la notte in cui veniva tra­dito, istituì il sacrificio eucaristico del suo Corpo e del suo Sangue, col quale perpetuare nei secoli, fino al suo ritorno, il sacrificio della croce, e per affidare così alla sua diletta Sposa, la Chiesa, il memoriale della sua morte e risurrezione: sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità, convito pasquale, nel quale si riceve Cristo, l'anima viene ricolmata di grazia e viene dato il pegno della gloria futura».

I. L'Eucaristia - fonte e culmine della vita ecclesiale.

1324 - L'Eucaristia è «fonte e culmine di tutta la vita cristiana». «Tutti i sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere di apostolato, sono strettamente uniti alla sacra Eucaristia e ad essa so­no ordinati. Infatti, nella santissima Eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua».

1325 - «La comunione della vita divina e l'unità del popolo di Dio, su cui si fonda la Chiesa, sono adeguatamente espresse e mirabilmente prodotte dall'Eucaristia. In essa abbiamo il culmine sia dell'azione con cui Dio santifica il mondo in Cristo, sia del culto che gli uomini rendo­no a Cristo e per lui al Padre nello Spirito Santo».

1326 - Infine, mediante la celebrazione eucaristica, ci uniamo già alla liturgia del cielo e anticipiamo la vita eterna, quando Dio sarà «tutto in tutti» (1 Cor 15,28).

1327 - In breve, l'Eucaristia è il compendio e la somma della nostra fe­de: «Il nostro modo di pensare è conforme all'Eucaristia, e l'Eucaristia, a sua volta, si accorda con il nostro modo di pensare

Il. Come viene chiamato questo sacramento?

1328 - L'insondabile ricchezza di questo sacramento si esprime attraver­so i diversi nomi che gli si danno. Ciascuno di essi ne evoca aspetti particolari. Lo si chiama: Eucarestia, perché è rendimento di grazie a Dio. I termini (…) (Lc 22,19;) Cor 11,24) e (…) (Mt 26,26; Mc 14,22) ricordano le benedizioni ebraiche che - soprattutto durante il pasto - proclamano le opere di Dio: la creazione, la redenzione e la santificazione.

1329 - Cena del Signore, perché si tratta della Cena che il Signore ha consumato con i suoi discepoli la vigilia della sua passione e dell'antici­pazione della cena delle nozze dell'Agnello nella Gerusalemme celeste. Frazione del pane, perché questo rito, tipico della cena ebraica, è stato utilizzato da Gesù quando benediceva e distribuiva il pane come capo della mensa, soprattutto durante l'ultima Cena. Da questo gesto i discepoli lo riconosceranno dopo la sua risurrezione, e con tale espressione i primi cristiani designeranno le loro assemblee eucaristi­che. In tal modo intendono significare che tutti coloro che mangiano dell'unico pane spezzato, Cristo, entrano in comunione con lui e forma­no in lui un solo corpo. Assemblea eucaristica (…), in quanto l'Eucaristia viene celebra­ta nell'assemblea dei fedeli, espressione visibile della Chiesa.

1330 - Memoriale della passione e della risurrezione del Signore. Santo sacrificio, perché attualizza l'unico sacrificio di Cristo Salva­tore e comprende anche l'offerta della Chiesa; o ancora santo sacrificio o, poiché porta a compimento e supera tutti i sacrifici dell'Antica Alleanza. Santa e divina liturgia, perché tutta la liturgia della Chiesa trova il suo centro e la sua più densa espressione nella celebrazione di questo sacramento; è nello stesso senso che lo si chiama pure celebrazione dei santi misteri. Si parla anche del Santissimo Sacramento, in quanto costiuisce il sacramento dei sacramenti. Con questo nome si indicano le specie eucaristiche conservate nel tabernacolo.

1331 - Comunione, perché, mediante questo sacramento, ci uniamo a Cristo, il quale ci rende partecipi del suo Corpo e del suo Sangue per formare un solo corpo; viene inoltre chiamato le cose sante (…) - è il significato originale dell'espressione «comunione dei santi» di cui parla il Simbolo degli Apostoli - pane degli angeli, pane del cielo, farmaco d'immortalità, viatico.

1332 - Santa Messa, perché la liturgia, nella quale si è compiuto il mi­stero della salvezza, si conclude con l'invio dei fedeli («missio») affin­ché compiano la volontà di Dio nella loro vita quotidiana.

L'Eucaristia nell'Economia della salvezza.

I SEGNI DEL PANE E DEL VINO

1333 - Al centro della celebrazione dell'Eucaristia si trovano il pane e il vino i quali, per le parole di Cristo e per l'invocazione dello Spirito Santo, diventano il Corpo e il Sangue di Cristo. Fedele al comando del Signore, la Chiesa continua a fare, in memoria di lui, fino al suo glo­rioso ritorno, ciò che egli ha fatto la vigilia della sua passione: «Prese il pane...», «Prese il calice del vino...». Diventando misteriosamente il Corpo e il Sangue di Cristo, i segni del pane e del vino continuano a significare anche la bontà della creazione. Così, all'offertorio, rendiamo grazie al Creatore per il pane e per il vino, «frutto del lavoro dell'uo­mo», ma prima ancora «frutto della terra» e «della vite», doni del Creatore Nel gesto di Melchisedek, re e sacerdote, che «offrì pane e vino» (Gn 14,18) la Chiesa vede una prefigurazione della sua propria offerta.

1334 - Nell'Antica Alleanza il pane e il vino sono offerti in sacrificio tra le primizie della terra, in segno di riconoscenza al Creatore. Ma ri­cevono qui un nuovo significato nel contesto dell'Esodo: i pani azzi­mi, che Israele mangia ogni anno a Pasqua, commemorano la fretta della partenza liberatrice dall'Egitto; il ricordo della manna del deserto richiamerà sempre a Israele che egli vive del pane della Parola di Dio. Il pane quotidiano, infine, è il frutto della Terra promessa, pegno della fedeltà di Dio alle sue promesse. Il «calice della benedizione» (1 Cor 10,16), al termine della cena pasquale degli Ebrei, aggiunge alla gioia festiva del vino una dimensione escatologica, quella dell'attesa messiani­ca della restaurazione di Gerusalemme. Gesù ha istituito la sua Eucari­stia conferendo un significato nuovo e definitivo alla benedizione del pane e del calice.

1335 - I miracoli della moltiplicazione dei pani, allorché il Signore pro­nunciò la benedizione, spezzò i pani e li distribuì per mezzo dei suoi di­scepoli per sfamare la folla, prefigurano la sovrabbondanza di questo unico pane che è la sua Eucanstia. Il segno dell'acqua trasformata in vino a Cana annunzia già l'Ora della glonficazione di Gesù. Manife­sta il compimento del banchetto delle nozze nel regno del Padre, dove i fedeli berranno il vino nuovo divenuto il Sangue di Cristo.

1336 - Il primo annunzio dell'Eucaristia ha provocato una divisione tra i discepoli, così come l'annunzio della passione li ha scandalizzati: «Questo linguaggio è duro; chi può intenderlo?» (Gv 6,60). L'Eucari­stia e la croce sono pietre d'inciampo. Si tratta dello stesso mistero, ed esso non cessa di essere occasione di divisione: «Forse anche voi volete andarvene'?» (Gv 6,67): questa domanda del Signore continua a risuo­nare attraverso i secoli, come invito del suo amore a scoprire che è lui solo ad avere «parole di vita eterna» (Gv 6,68) e che accogliere nella fede il dono della sua Eucaristia è accogliere lui stesso.

L'ISTITUZIoNE DELL’EUCARESTIA

1337 - Il Signore, avendo amato i suoi, li amò sino alla fine. Sapendo che era giunta la sua Ora di passare da questo mondo al Padre, mentre cenavano, lavò loro i piedi e diede loro il comandamento ell'amore. Per lasciare loro un pegno di questo amore, per non allontanarsi mai dai suoi e renderli partecipi della sua pasqua, istituì l'Eucaristia come memoriale della sua morte e della sua risurrezione, e comandò ai suoi Apostoli di celebrarla fino al suo ritorno, costituendoli «in quel momento sacerdoti della Nuova Alleanza».

1338 - I tre Vangeli sinottici e san Paolo ci hanno trasmesso il racconto dell'istituzione dell'Eucaristia; da parte sua, san Giovanni riferisce le parole di Gesù nella sinagoga di Cafarnao, parole che preparano l'isti­tuzione dell'Eucaristia: Cristo si definisce come il pane di vita, disceso dal cielo.

1339 - Gesù ha scelto il tempo della Pasqua per compiere ciò che aveva annunziato a Cafarnao: dare ai suoi discepoli il suo Corpo e il suo Sangue. «Venne il giorno degli Azzimi, nel quale si doveva immolare la vittima di Pasqua. Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: "Andate a preparare per noi la Pasqua, perché possiamo mangiare". (...) Essi andarono e prepararono la Pasqua. Quando fu l'ora, prese posto a tavola e gli Apostoli con lui, e disse: "Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio". (...) Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: "Questo è il mio Corpo che é dato per voi; fate questo ìn memorìa di me". Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese il calice dicendo: "Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio Sangue, che viene versato per voi" (Lc 22,7-20).

1340 - Celebrando l'ultima Cena con i suoi Apostoli durante un banchetto pasquale, Gesù ha dato alla Pasqua ebraica il suo significato definitivo. Infatti, la nuova Pasqua, il passaggio di Gesù al Padre attraverso la sua morte e la sua risurrezione, e anticipata nella Cena e celebrata nell'Eucaristia, che porta a compimento la Pasqua ebraica e anticipa la Pasqua finale della Chiesa nella gloria del Regno.

«FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME»

1341 - Quando Gesù comanda di ripetere i suoi gesti e le sue parole «finché egli venga» (Cor 11,26), non chiede soltanto che ci si ricordi di lui e di ciò che ha fatto. Egli ha di mira la celebrazione liturgica, per mezzo degli Apostoli e dei loro successori, del memoriale di Cristo, della sua vita, della sua morte, della sua risurrezione e della sua interces­sione presso il Padre.

1342 - Fin dagli inizi la Chiesa è stata fedele al comando del Signore. Della Chiesa di Gerusalemme è detto: «Erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli Apostoli e nell'unio­ne fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. (…) Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa pren­dendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At 2,42.46).

1343 - Soprattutto «il primo giorno della settimana», cioè la domenica, il giorno della risurrezione di Gesù, i cristiani si riunivano «per spezzare il pane» (At 20,7). Da quei tempi la celebrazione dell'Eucaristia si è perpetuata fino ai nostri giorni, così che oggi la ritroviamo ovunque nella Chiesa, con la stessa struttura fondamentale. Essa rimane il centro della vita della Chiesa.

1344 - Così, di celebrazione in celebrazione, annunziando il mistero pa­squale di Gesù «finché egli venga» (1 Cor 11,26), il popolo di Dio avanza «camminando per l'angusta via della croce» verso il banchet­to celeste, quando tutti gli eletti si siederanno alla mensa del Regno.

IV. La celebrazione liturgica dell'Eucaristia.

LA MESSA LUNGO I SECOLI

1345 - Fin dal secondo secolo, abbiamo la testimonianza di san Giusti­no martire riguardo alle linee fondamentali dello svolgimento della cele­brazione eucaristica. Esse sono rimaste invariate fino ai nostri giorni in tutte le grandi famiglie liturgiche. Ecco ciò che egli scrive, verso il 155, per spiegare all'imperatore pagano Antonino Pio (138-161) ciò che fan­no i cristiani: Nel giorno chiamato del sole ci si raduna tutti insieme, abitanti delle città o delle campagne. Si leggono le memorie degli Apostoli o gli scritti dei profeti, finché il tempo consente. Poi quando il lettore ha terminato, il preposto con un discorso ci am­monisce ed esorta ad imitare questi buoni esempi. Poi tutti insieme ci alziamo in piedi ed innalziamo preghiere» «sia per noi stessi […] sia per tutti gli altri, dovunque si trovino, affinché, appresa la verità, meritiamo di essere nei fatti buoni cittadini e fedeli custodi dei precetti, e di conseguire la salvezza eterna. Finite le preghiere, ci salutiamo l'un l'altro con un bacio. Poi al preposto dei fratelh vengono portati un pane e una coppa d'ac­qua e di vino temperato. Egli li prende ed innalza lode e gloria al Padre dell'universo nel nome del Figlio e dello Spirito Santo, e fa un rendimento di grazie per essere stati fatti degni da lui di questi doni. Quando egli ha terminato le preghiere ed il rendimento di grazie, tutto il popolo presente acclama: Amen. Dopo che il preposto ha fatto il rendimento di grazie e tutto il popolo ha acclamato, quelli che noi chiamiamo diaconi distribuiscono a ciascu­no dei presenti il pane, il vino e l'acqua "eucaristizzati" e ne portano agli assenti.

1346 - La liturgia dell'Eucaristia si svolge secondo una struttura fonda­mentale che, attraverso i secoli, si è conservata fino a noi. Essa si arti­cola in due grandi momenti, che formano un'unità originaria: - la convocazione, la liturgia della Parola, con le letture, l'omelia e la preghiera universale; - la liturgia eucaristica, con la presentazione del pane e del vino, l'azione di grazie consacratoria e la Comunione. Liturgia della Parola e liturgia eucaristica costituiscono insieme «un solo atto di culto»; la mensa preparata per noi nell'Eucaristia è infat­ti ad un tempo quella della Parola di Dio e quella del Corpo del Signore.

1347 - Non si è forse svolta in questo modo la Cena pasquale di Gesù risorto con i suoi discepoli? Lungo il cammino spiegò loro le Scritture, poi, messosi a tavola con loro, «prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro» (Lc 24,30).

LO SVOLGIMENTO DELLA CELEBRAZIONE

1348 - Tutti si riuniscono. I cristiani accorrono in uno stesso luogo per l'assemblea eucaristica. Li precede Cristo stesso, che è il protagonista principale dell'Eucaristia. È il Sommo Sacerdote della Nuova Alleanza. È lui stesso che presiede in modo invisibile ogni celebrazione eucaristi­ca. Proprio in quanto lo rappresenta, il Vescovo o il presbitero (agendo in persona Christi Capitis - nella persona di Cristo Capo) presiede l'as­semblea, prende la parola dopo le letture, riceve le offerte e proclama la preghiera eucaristica. Tutti hanno la loro parte attiva nella celebra­zione, ciascuno a suo modo: i lettori, coloro che presentano le offerte, coloro che distribuiscono la Comunione, e il popolo intero che manife­sta la propria partecipazione attraverso l'Amen.

1349 - La liturgia della Parola comprende «gli scritti dei profeti», cioè l'Antico Testamento, e «le memorie degli Apostoli», ossia le loro lette­re e i Vangeli; all'omelia, che esorta ad accogliere questa parola come è veramente, quale Parola di Dio e a metterla in pratica, seguono le in­tercessioni per tutti gli uomini, secondo la parola dell'Apostolo: «Rac­comando dunque, prima di tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere» (1 Tm 2,1-2).

1350 - La presentazione dei doni (l'offertorio): vengono recati poi all'al­tare, talvolta in processione, il pane e il vino che saranno offerti dal sa­cerdote in nome di Cristo nel sacrificio eucaristico, nel quale divente­ranno il suo Corpo e il suo Sangue. È il gesto stesso di Cristo nell'ulti­ma Cena, «quando prese il pane e il calice». «Soltanto la Chiesa può offrire al Creatore questa oblazione pura, offrendogli con rendimento di grazie ciò che proviene dalla sua creazione. La presentazione dei do­ni all'altare assume il gesto di Melchisedek e pone i doni del Creatore nelle mani di Cristo. È lui che, nel proprio sacrificio, porta alla perfe­zione tutti i tentativi umani di offrire sacrifici.

1351 - Fin dai primi tempi, i cristiani, insieme con il pane e con il vino per l'Eucaristia, presentano i loro doni perché siano condivisi con coloro che si trovano in necessità. Questa consuetudine della colletta, sem­pre attuale, trae ispirazione dall'esempio di Cristo che si è fatto povero per arricchire noi: «I facoltosi e quelli che lo desiderano, danno liberamente ciascuno quello che vuole, e ciò che si raccoglie viene depositato presso il prepo­sto. Questi soccorre gli orfani. le vedove, e chi é indigente per malattia o per qualche altra causa; e i carcerati e gli stranieri che si trovano presso di noi: insomma, si prende cura di chiunque sia nel bisogno».

1352 - L'anafora. Con la preghiera eucaristica, preghiera di rendimento di grazie e di consacrazione, arriviamo al cuore e al culmine della cele­brazione: nel prefazio la Chiesa rende grazie al Padre, per mezzo di Cristo, nello Spi­rito Santo, per tutte le sue opere, per la creazione, la redenzione e la santifica­zìone. In questo modo l'intera comunità si unisce alla lode incessante che la Chiesa celeste, gli angeli e tutti i santi cantano al Dio tre volte Santo.

1353 - Nell'epiclesi essa prega il Padre di mandare il suo Santo Spirito (la po­tenza della sua benedizione) sul pane e sul vino, affinché diventino, per la sua potenza, il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo e perché coloro che partecipano all'Eucaristia siano un solo corpo e un solo spirito (alcune tradizioni liturgiche situano l'epiclesi dopo l'anamnesi). Nel racconto dell'istituzione l'efficacia delle parole e dell'azione di Cristo, e la potenza dello Spirito Santo, rendono sacramentalmente presenti sotto le spe­cie del pane e del vino il suo Corpo e il suo Sangue, il suo sacrificio offerto sulla croce una volta per tutte.

1354 - Nell'anamnesi che segue, la Chiesa fa memoria della passione, della risur­rezione e del ritorno glorioso di Gesù Cristo; essa presenta al Padre l'offerta di suo Figlio che ci riconcilia con lui. Nelle intercessioni, la Chiesa manifesta che l'Eucaristia viene celebrata in comunione con tutta la Chiesa del cielo e della terra, dei vivi e dei defunti, e nella comunione con i Pastori della Chiesa, il Papa, il Vescovo della diocesi, il suo presbiterio e i suoi diaconi, e tutti i Vescovi del mondo con le loro Chiese.

1355 - Nella Comunione, preceduta dalla preghiera del Signore e dalla frazione del pane, i fedeli ricevono «il pane del cielo» e «il calice della salvezza», il Corpo e il Sangue di Cristo che si è dato «per la vita del mondo» (Gv 6,51). Poiché questo pane e questo vino sono stati «cucaristizzati» come tradizionalmente si dice, «questo cibo è chiamato da noi Eucaristia, e a nessuno è lecito parteciparne, se non a chi crede che i nostri insegnamenti sono veri, si è purificato con il lavacro per la remissione dei pec­cati e la rigenerazione, e vive così come Cristo ha insegnato.

V. Il sacrificio sacramentale: azione di grazie, memoriale, presenza.

1356 - Se i cristiani celebrano l'Eucaristia fin dalle origini e in una for­ma che, sostanzialmente, non è cambiata attraverso la grande diversità dei tempi e delle liturgie, è perché ci sappiamo vincolati dal comando del Signore, dato la vigilia della sua passione: «Fate questo in memoria di me» (I Cor 11,24-25).

1357 - A questo comando del Signore obbediamo celebrando il memo­riale o il suo sacrificio. Facendo questo, offriamo al Padre ciò che egli stesso ci ha dato: i doni della creazione, il pane e il vino, diventati, per la potenza dello Spirito Santo e per le parole di Cristo, il Corpo e il Sangue di Cristo: in questo modo Cristo è reso realmente e misteriosa­mente presente.

1358 - Dobbiamo dunque considerare l'Eucaristia come azione di grazie e lode al Padre, - come memoriale del sacrificio di Cristo e del suo corpo, come presenza di Cristo in virtù della potenza della sua parola e del suo Spirito.

L'AZIONE DI GRAZIE E LA LODE AL PADRE

1359 - L'Eucaristia, sacramento della nostra salvezza realizzata da Cri­sto sulla croce, è anche un sacrificio di lode in rendimento di grazie per l'opera della creazione. Nel sacrificio eucaristico, tutta la creazione amata da Dio è presentata al Padre attraverso la morte e la risurrezio­ne di Cristo. Per mezzo di Cristo, la Chiesa può offrire il sacrificio di lode in rendimento di grazie per tutto ciò che Dio ha fatto di buono, di bello e di giusto nella creazione e nell'umanità.

1360 - L'Eucaristia è un sacrificio di ringraziamento al Padre, una bene­dizione con la quale la Chiesa esprime la propria riconoscenza a Dio per tutti i suoi benefici, per tutto ciò che ha operato mediante la crea­zione, la redenzione e la santificazione. Eucaristia significa prima di tut­to: «azione di grazie».

1361 - L'Eucaristia è anche il sacrificio della lode, con il quale la Chie­sa canta la gloria di Dio in nome di tutta la creazione. Tale sacrificio di lode è possibile unicamente attraverso Cristo: egli unisce i fedeli alla sua persona, alla sua lode e alla sua intercessione, in modo che il sacri­ficio di lode al Padre è offerto da Cristo e con lui per essere accettato in lui.

IL MEMORIALE DEL SACRIFICIO DI CRISTO E DEL SUO CORPO, LA CHIESA

1362 - L'Eucaristia è il memoriale della pasqua di Cristo, l'attualizzazio­ne e l'offerta sacramentale del suo unico sacrificio, nella liturgia della Chiesa, che è il suo corpo. In tutte le preghiere eucaristiche, dopo le parole della istituzione, troviamo una preghiera chiamata anam­nesi o memoriale.

1363 - Secondo la Sacra Scrittura, il memoriale non è soltanto il ricordo degli avvenimenti del passato, ma la proclamazione delle meraviglie che Dio ha compiuto per gli uomini. Nella celebrazione liturgica di questi eventi, essi diventano in certo modo presenti e attuali. Proprio così Israele intende la sua liberazione dall'Egitto: ogni volta che viene cele­brata la Pasqua, gli avvenimenti dell'Esodo sono resi presenti alla me­moria dei credenti affinché conformino ad essi la propria vita.

1364 - Nel Nuovo Testamento il memoriale riceve un significato nuovo. Quando la Chiesa celebra l'Eucaristia, fa memoria della pasqua di Cri­sto, e questa diviene presente: il sacrificio che Cristo ha offerto una volta per tutte sulla croce rimane sempre attuale: «Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale “Cristo, nostra Pasqua, è stato immola­to” (1 Cor 5,7), viene celebrato sull'altare, si effettua l'opera della no­stra redenzione».

1365 - In quanto memoriale della pasqua di Cristo, l'Eucaristia è anche un sacrificio. Il carattere sacrificale dell'Eucaristia si manifesta nelle pa­role stesse dell'istituzione: «Questo è il mio Corpo che è dato per voi» e: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio Sangue, che viene versato per voi» (Lc 22,19-20). Nell'Eucaristia Cristo dona lo stesso corpo che ha consegnato per noi sulla croce, lo stesso sangue che egli ha «versato per molti, in remissione dei peccati» (Mt 26,28).

1366 - L'Eucaristia è dunque un sacrificio perché ripresenta (rende presente) i] sacrificio della croce, perché ne è il memoriale e perché ne applica il frutto: Cristo «Dio e Signore nostro, (…) si è immolato a Dio Padre una sola volta morendo sull'altare della croce per compiere una redenzione eter­na: poiché, tuttavia, il suo sacerdozio non doveva estinguersi con la morte (Eb 7,24.27), nell'ultima Cena, "nella notte ìn cui venìva tradito" (I Cor 11,23), [...] [volle] lasciare alla Chiesa, sua amata Sposa, un sa­crificio visibile (come esige l'umana natura), con cui venìsse significato quello cruento che avrebbe offerto una volta per tutte sulla croce, pro­lungandone la memoria fino alla fine del mondo, e applicando la sua efficacia salvifica alla remissione dei nostri peccati quotidiani.

 

1367 - Il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell'Eucaristia sono un unico sacrificio: «Si tratta infatti di una sola e identica vittima e lo stesso Ge­sù la offre ora per il ministero dei sacerdoti, egli che un giorno offrì se stesso sulla croce: diverso e solo il modo di offrirsi». «E poiché in questo divino sacrificio, che si compie nella Messa, è contenuto e im­molato in modo incruento lo stesso Cristo, che, “si offrì una sola volta in modo cruento” sull'altare della croce, [...] questo sacrificio [è] vera­mente propiziatorio».

1368 - L'Eucaristia è anche il sacrificio della Chiesa. La Chiesa, che è il corpo di Cristo - partecipa all'offerta del suo Capo. Con lui, essa stessa viene offerta tutta intera. Essa si unisce alla sua intercessione presso il Padre a favore di tutti gli uomini. Nell'Eucaristia il sacrificio di Cristo diviene pure il sacrificio delle membra del suo corpo. La vita dei fedeli, la loro lode, la loro sofferenza, la loro preghiera, il loro lavoro, sono uniti a quelli di Cristo e alla sua offerta totale, e in questo modo ac­quistano un valore nuovo. Il sacrificio di Cristo riattualizzato sull'altare offre a tutte le generazioni di cristiani la possibilità di essere uniti alla sua offerta. Nelle catacombe la Chiesa é spesso raffigurata come una donna in pre­ghiera, con le braccia spalancate, in atteggiamento di orante. Come Cristo ha steso le braccia sulla croce, così per mezzo di lui, con lui e in lui essa si offre e intercede per tutti gli uomini.

1369 - Tutta la Chiesa è unita all’offerta e all'intercessione di Cristo. Investito del ministero di Pietro nella Chiesa, il Papa è unito a ogni celebrazione dell'Eucaristia nella quale viene nominato come segno e servo dell'unità della Chiesa universale. Il Vescovo del luogo è sempre respon­sabile dell'Eucaristia, anche quando viene presieduta da un presbitero; in essa è pronunziato il suo nome per significare che egli presiede la Chiesa particolare, in mezzo al suo presbiterio e con l'assistenza dei diaconi. La comunità a sua volta intercede per tutti i ministri che, per lei e con lei, offrono il sacrificio eucaristico: «Si ritenga legittima solo quell'Eucaristia che viene celebrata dal Ve­scovo, o da chi è stato da lui autorizzato. «È attraverso il ministero dei presbiteri che il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto perché viene unito al sacrificio dì Cristo, uni­co mediatore; questo sacrificio, infatti, per mano dei presbiteri e in no­me di tutta la Chiesa, viene offerto nell'Eucaristia in modo incruento e sacramentale, fino al giorno della venuta del Signore.

1370 - All'offerta di Cristo si uniscono non soltanto i membri che sono ancora sulla terra, ma anche quelli che si trovano già nella gloria del cielo. La Chiesa offre infatti il sacrificio eucaristico in comunione con la santissima Vergine Maria, facendo memoria di lei, come pure di tutti i santi e di tutte le sante. Nell'Eucaristia la Chiesa, con Maria, è come ai piedi della croce, unita all'offerta e all'intercessione di Cristo.

1371 - Il sacrificio encaristico è offerto anche per i fedeli defunti «che sono morti in Cristo e non sono ancora pienamente purificati, affin­ché possano entrare nella luce e nella pace di Cristo: «Seppellite questo corpo dove che sia, senza darvene pena. Di una sola cosa vi prego: ricordatevi di me, dovunque siate, innanzi all’altare del Signore». «Poi [nell'anafora] preghiamo anche per i santi Padri e Vescovi e in ge­nerale per tutti quelli che si sono addormentati prima di noi, convinti che questo sia un grande vantaggio per le anime, per le quali viene of­ferta la supplica, mentre qui è presente la vittima santa e tremenda. (…) Presentando a Dio le preghiere per i defunti, anche se peccatori, resentiamo il Cristo immolato per i nostri peccati, cercando di rendere clemente per loro e per noi il Dio amico degli uomini.

1372 - Sant'Agostino ha mirabilmente riassunto questa dottrina che ci sollecita ad una partecipazione sempre più piena al sacrificio del nostro Redentore che celebriamo nell'Eucaristia: «Tutta quanta la città redenta, cioè l'assemblea e la società dei santi, offre un sacrificio universale [...] a Dio per opera di quel Sommo Sacer­dote che nella passione ha offerto anche se stesso per noi, assumendo la forma di servo, e costituendoci come corpo di un Capo tanto impor­tante. [...] Questo è il sacrificio dei cristiani: "Pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo" (Rm 12,5), e la Chiesa lo rinnova continuamente nel sacramento dell'altare, noto ai fedeli, dove si vede che, in ciò che offre, offre anche se stessa.

LA PRESENZA DI CRISTO OPERATA DALLA POTENZA DELLA SUA PAROLA E DELLO SPIRITO SANTO

1373 - «Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi» (Rm 8,34), è presente in molti modi alla sua Chiesa: nella sua parola, nella preghiera della Chiesa, «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20), nei poveri, nei malati, nei prigionieri, nei sacramenti di cui egli è l'au­tore, nel sacrificio della Messa e nella persona del ministro. Ma «soprattutto (è presente) sotto le specie eucaristiche».

1374 - Il modo della presenza di Cristo sotto le specie eucaristiche è unico. Esso pone l'Eucaristia al di sopra di tutti i sacramenti e ne fa «quasi il coronamento della vita spirituale e il fine al quale tendono tutti i sacramenti».Nel Santissimo Sacramento dell'Eucaristia è conte­nuto veramente, realmente, sostanzialmente il Corpo e il Sangue di no­stro Signore Gesù Cristo, con l'anima e la divinità e, quindi, il Cristo tutto intero. «Tale presenza si dice “reale” non per esclusione, quasi che le altre non siano “reali”, ma per antonomasia, perché è sostanziale, e in forza di essa Cristo, Dio e uomo, tutto intero si fa presente».

1375 - È per la conversione del pane e del vino nel suo Corpo e nel suo Sangue che Cristo diviene presente in questo sacramento. I Padri della Chiesa hanno sempre espresso con fermezza la fede della Chiesa nell'effica­cia della parola di Cristo e dell'azione dello Spirito Santo per operare que­sta conversione. San Giovanni Crisostomo, ad esempio, afferma: «Non è l'uomo che fa diventare le cose offerte Corpo e Sangue di Cristo, ma è Cristo stesso, che è stato crocifisso per noi. Il sacerdote, figura di Cristo, pronunzia quelle parole, ma la virtù e la grazia sono di Dio. Questo è il mio Corpo, dice. Questa parola trasforma le cose offerte. E sant'Ambrogio, parlando della conversione eucaristica, dice: Dobbiamo essere convinti che «non si tratta dell'elemento formato dalla natura, ma della sostanza prodotta dalla formula della consacrazione, ed è maggiore l'efficacia della consacrazione di quella della natura, per­ché, per l'effetto della consacrazione, la stessa natura viene trasforma­ta». «La parola di Cristo, che poté creare dal nulla ciò che non esi­steva, non può trasformare in una sostanza diversa ciò che esiste? Non è minore impresa dare una nuova natura alle cose che trasformarla».

1376 - Il Concilio di Trento riassume la fede cattolica dichiarando: «Poiché il Cristo, nostro Redentore, ha detto che ciò che offriva sotto la specie del pane era veramente il suo Corpo, nella Chiesa di Dio vi fu sempre la convinzione, e questo santo Concilio lo dichiara ora di nuo­vo, che con la consacrazione del pane e del vino si opera la conversio­ne di tutta la sostanza del pane nella sostanza del Corpo del Cristo, nostro Signore, e di tutta la sostanza del vino nella sostanza del suo Sangue. Questa conversione, quindi, in modo conveniente e appropriato è chiamata dalla santa Chiesa cattolica transustanziazione».

1377 - La presenza eucaristica di Cristo ha inizio al momento della con­sacrazione e continua finché sussistono le specie eucaristiche. Cristo è tutto e integro presente in ciascuna specie e in ciascuna sua parte; per­ciò la frazione del pane non divide Cristo.

1378 - Il culto dell’Eucaristia, nella liturgia della Messa esprimiamo la no­stra fede nella presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino, tra l'altro, con la genuflessione, o con un profondo inchino in segno di adorazione verso il Signore. «La Chiesa cattolica professa questo culto la­treutico al sacramento eucaristico non solo durante la Messa, ma anche fuori della sua celebrazione, conservando con la massima diligenza le ostie consacrate, presentandole alla solenne venerazione dei fedeli cristiani, por­tandole in processione con gaudio della folla cristiana.

1379 - La santa riserva (tabernacolo) era inizialmente destinata a custodire in modo degno l'Eucaristia perché potesse essere portata agli infermi e agli assen­ti, al di fuori della Messa. Approfondendo la fede nella presenza reale di Cristo nell'Eucaristia, la Chiesa ha preso coscienza del significato dell'adorazione silen­ziosa del Signore presente sotto le specie eucaristiche. Perciò, il tabernacolo deve essere situato in un luogo particolarmente degno della chiesa, e deve essere co­struito in modo da evidenziare e manifestare la verità della presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento.

1380 - È oltremodo conveniente che Cristo abbia voluto rimanere pre­sente alla sua Chiesa in questa forma davvero unica. Poiché stava per lasciare i suoi nel suo aspetto visibile, ha voluto donarci la sua presen­za sacramentale poiché stava per offrirsi sulla croce per la nostra sal­vezza, ha voluto che noi avessimo il memoriale dell'amore con il quale ci ha amati «sino alla fine» (Gv 13,1), fino al dono della propria vita. Nella sua presenza eucaristica, infatti, egli rimane misteriosamente in mezzo a noi come colui che ci ha amati e che ha dato se stesso per noi, e vi rimane sotto i segni che esprimono e comunicano questo amore: «La Chiesa e il mondo hanno grande bisogno del culto eucaristico. Ge­sù ci aspetta in questo sacramento dell'amore. Non risparmiamo il no­stro tempo per andare ad incontrarla nell'adorazione, nella contempla­zione piena di fede e pronta a riparare le grandi colpe e i delitti del mondo. Non cessi mai la nostra adorazione».

1381 - «Che in questo sacramento sia presente il vero Corpo e il vero Sangue di Cristo, come dice san Tommaso, "non si può apprendere coi sensi, ma con la sola fede, la quale si appoggia all'autorità di Dio. Per questo, commentando il passo di san Luca 22,19: Questo é il mio Corpo che viene dato per tutti, san Cirillo dice: Non mettere in dubbio se questo sia vero, ma piuttosto accetta con fede le parole del Salvatore: perché essendo egli la verità, non mentisce"»: Adoro te devote, latens Deitas... Ti adoro con devozione, o Dio che ti nascondi, che sotto queste figure veramente ti celi: a te il mio cuore si sottomette interamente, poiché, nel contemplarti, viene meno. La vista, il tatto e il gusto si ingannano a tuo riguardo, soltanto alla parola si crede con sicurezza. Credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio: nulla è più vero della sua parola di verità».

VI. Il banchetto pasquale,

1382 - La Messa è ad un tempo e inseparabilmente memoriale del sacrificio nel quale si perpetua il sacrificio della croce, e il sacro banchetto della Comunione al Corpo e al Sangue del Signore. Ma la celebrazione del sacrificio eucaristico è totalmente orientata all'unione intima dei fedeli con Cristo attraverso la Comunione. Comunicarsi è ricevere Cristo stesso che si è offerto per noi.

1383 - L'altare, attorno al quale la Chiesa è riunita nella celebrazione dell'Eucaristia, rappresenta i due aspetti di uno stesso mistero: l'altare del sacrificio e la mensa del Signore, e questo tanto più in quanto l'altare cristiano è il simbolo di Cristo stesso, presente in mezzo all'assem­blea dei suoi fedeli sia come vittima offerta per la nostra riconciliazio­ne, sia come alimento celeste che si dona a noi. «Che cosa è l'altare di Cristo se non l'immagine del Corpo di Cristo? dice sant'Ambrogio, e altrove: L'altare è l'immagine del corpo, e il Corpo di Cristo sta sull'altare». La liturgia esprime in molte preghiere questa unità del sa­crificio e della Comunione. La Chiesa di Roma, ad esempio, prega così nella sua anafora: «Ti supplichiamo, Dio onnipotente: fa' che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull'altare del cielo davanti alla tua maestà divina, perché su tutti noi che partecipiamo di questo altare, co­municando al santo mistero del Corpo e Sangue del tuo Figlio, scenda la pienezza di ogni grazia e benedizione del cielo».

«PRENDETE E MANGIATENE TUTTI»: LA COMUNIONE

1384 - Il Signore ci rivolge un invito pressante a riceverlo nel sacramen­to dell'Eucaristia: «In verità, in verità vi dico: se non mangiate la Car­ne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo Sangue, non avrete in voi la vita» (Gv 6,53).

1385 - Per rispondere a questo invito dobbiamo prepararci a questo mo­mento così grande e così santo. San Paolo esorta a un esame di co­scienza: «Chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, per­tanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna» (1 Cor 11,27-29). Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave, deve ricevere il sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla Comunione.

1386 - Davanti alla grandezza di questo sacramento, il fedele non può che fare sua con umiltà e fede ardente la supplica del centurione: «Domine, non sum dignus ut intres sub tectum meum: sed tantum dic ver­bo, et sanabitur anima mea» «O Signore, non sono degno di parteci­pare alla tua mensa: ma dì soltanto una parola e io sarò salvato». Nella divina liturgia di san Giovanni Crisostomo i fedeli pregano con lo stesso spirito: «O Figlio di Dio, fammi oggi partecipe del tuo mistico convito. Non svelerò il mistero ai tuoi nemici, e neppure ti darò il bacio di Giuda. Ma, come il ladrone, io ti dico: Ricordati di me, Signore, quando sarai nel tuo regno.

1387 - Per prepararsi in modo conveniente a ricevere questo sacramen­to, i fedeli osserveranno il digiuno prescritto nella loro Chiesa. L'at­teggiamento del corpo (gesti, abiti) esprimerà il rispetto, la solennità, la gioia di questo momento in cui Cristo diventa nostro ospite.

1388 - È conforme al significato stesso dell'Eucaristia che i fedeli, se hanno le disposizioni richieste, si comunichino quando partecipano alla Messa: «Si raccomanda molto quella partecipazione più perfetta alla Messa, per la quale i fedeli, dopo la Comunione del sacerdote, ricevono il Corpo del Signore dal medesimo sacrificio».

1389 - La Chiesa fa obbligo ai fedeli di «partecipare alla divina liturgia la domenica e le feste» e di ricevere almeno una volta all'anno l'Eu­caristia, possibilmente nel tempo pasquale, preparati dal sacramento della Riconciliazione. La Chiesa tuttavia raccomanda vivamente ai fedeli di ricevere la santa Eucaristia la domenica e i giorni festivi, o ancora più spesso, anche tutti i giorni.

1390 - In virtù della presenza sacramentale di Cristo sotto ciascuna spe­cie, la Comunione con la sola specie del pane permette di ricevere tutto il frutto di grazia dell'Eucaristia. Per motivi pastorali questo modo di fare la Comunione si è legittimamente stabilito come il più abituale nel rito latino. Tuttavia «la santa Comunione esprime con maggior pienez­za la sua forma di segno, se viene fatta sotto le due specie. In essa ri­sulta infatti più evidente il segno del banchetto eucaristico». Questa è la forma abituale di comunicarsi nei riti orientali.

I FRUTTI DELLA COMUNIONE

1391 - La Comunione accresce la nostra unione a Cristo. Ricevere l'Euca­ristia nella Comunione reca come frutto principale l'unione intima con Cristo Gesù. Il Signore infatti dice: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6,56). La vita in Cristo ha il suo fondamento nel banchetto eucaristico: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me» (Gv 6,57): Quando, nelle feste (del Signore), i fedeli ricevono il Corpo del Figlio, essi annunziano gli uni agli altri la Buona Notizia che è stata donata la caparra della vita, come quando l'angelo disse a Maria (di Magdala): "Cristo è risorto!". Ecco infatti che già ora la vita e la risurrezione sono elargite a colui che riceve Cristo.

1392 - Ciò che l'alimento materiale produce nella nostra vita fisica, la Comunione lo realizza in modo mirabile nella nostra vita spirituale. La Comunione alla Carne del Cristo risorto, «vivificata dallo Spirito Santo e vivificante», conserva, accresce e rinnova la vita di grazia ricevuta nel Battesimo. La crescita della vita cristiana richiede di essere alimentata dalla Comunione eucaristica, pane del nostro pellegrinaggio, fino al momento della morte, quando ci sarà dato come viatico.

1393 - La Comunione ci separa dal peccato. Il Corpo di Cristo che rice­viamo nella Comunione è «dato per noi», e il Sangue che beviamo è «sparso per molti in remissione dei peccati». Perciò l'Eucaristia non può unirci a Cristo senza purificarci, nello stesso tempo, dai peccati commessi e preservarci da quelli futuri: Ogni volta che lo riceviamo, annunziamo la morte del Signore. Se annunziamo la morte, annunziamo la remissione dei peccati. Se, ogni volta che il suo sangue viene sparso, viene sparso per la remissione dei peccati, devo riceverlo sempre, perché sempre mi rimetta i peccati. Io che pecco sempre, devo sempre disporre della medicina.

1394 - Come il cibo del corpo serve a restaurare le forze perdute, l'Eu­caristia fortifica la carità che, nella vita di ogni giorno, tende ad inde­bolirsi; la carità così vivificata cancella i peccati veniali. Donandosi a noi, Cristo ravviva il nostro amore e ci rende capaci di troncare gli attaccamenti disordinati alle creature e di radicarci in lui: «Cristo è morto per noi per amore. Perciò quando facciamo memoria della sua morte, durante il sacrificio, invochiamo la venuta dello Spirito Santo quale dono di amore. La nostra preghiera chiede quello stesso amore per cui Cristo si è degnato di essere crocifisso per noi. Anche noi, mediante la grazia dello Spirito Santo, possiamo essere crocifissi al mondo e il mondo a noi. [...] Avendo ricevuto il dono dell'amore moriamo al peccato e viviamo per Dio».

1395 - Proprio per la carità che accende in noi, l'Eucaristia ci preservo in futuro dai peccati mortali. Quanto più partecipiamo alla vita di Cristo e progrediamo nella sua amicizia, tanto più ci è difficile separarci da lui con il peccato mortale. L'Eucaristia non è ordinata al perdono dei pec­cati mortali. Questo è proprio del sacramento della Riconciliazione. Il proprio dell'Eucaristia è invece di essere il sacramento di coloro che sono nella piena comunione della Chiesa.

1396 - L'unità del corpo mistico: l'Eucaristia fa la Chiesa. Coloro che ri­cevono l'Eucaristia sono uniti più strettamente a Cristo. Per ciò stesso, Cristo li unisce a tutti i fedeli in un solo corpo: la Chiesa. La Comu­nione rinnova, fortifica, approfondisce questa incorporazione alla Chie­sa già realizzata mediante il Battesimo. Nel Battesimo siamo stati chia­mati a formare un solo corpo. L'Eucaristia realizza questa chiamata: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunio­ne con il Sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane» (1 Cor 10,16-17): Se voi siete il corpo e le membra di Cristo, sulla mensa del Signore è deposto il vostro mistero, ricevete il vostro mistero. A ciò che siete ri­spondete: Amen, e rispondendo lo sottoscrivete. Ti si dice infatti: Il Corpo di Cristo e tu rispondi: Amen. Sii membro del corpo di Cristo, perché sia veritiero il tuo Amen.

1397 - L'Eucaristia in pegno nei confronti dei poveri. Per ricevere nella ve­rità il Corpo e il Sangue di Cristo offerti per noi, dobbiamo riconoscere Cristo nei più poveri, suoi fratelli: «Tu hai bevuto il Sangue del Signore e non riconosci tuo fratello. [...] Tu disonori questa stessa mensa, non giudicando degno che condivida il tuo cibo colui che è stato ritenuto degno di partecipare a questa mensa. [...] Dio ti ha liberato da tutti i tuoi peccati e ti ha invitato a questo banchetto. E tu, nemmeno per questo, sei divenuto più miseri­cordioso.

1398 - L'Eucaristia e l'unità dei cristiani. Davanti alla sublimità di que­sto sacramento, sant'Agostino esclama: «O sacramentum pietatis! O si­gnum unitatis! O vinculum caritatis! - O sacramento di pietà! O segno di unità! O vincolo di carità!». Quanto più dolorosamente si fanno sentire le divisioni della Chiesa che impediscono la comune partecipa­zione alla mensa del Signore, tanto più pressanti sono le preghiere al Signore perché ritornino i giorni della piena unità di tutti Coloro che credono in lui.

1399 - Le Chiese Orientali che non sono nella piena comunione con la Chiesa cattolica celebrano l'Eucaristia con grande amore. «Quelle Chiese, quantunque separate, hanno veri sacramenti e soprattutto, in forza della successione aposto­lica, il sacerdozio e l'Eucaristia, per mezzo dei quali restano ancora unite a noi da strettissimi vincoli», quindi «una certa comunicazione nelle cose sacre, presentandosi opportune circostanze e con l'approvazione dell'autorità ecclesia­stica, non solo é possibile, ma anche consigliabile.

1400 - Le comunità ecclesiali sorte dalla Riforma, separate dalla Chiesa cattolica, «specialmente per la mancanza del sacramento dell'Ordine, non hanno con­servato la genuina ed integra sostanza del mistero eucaristico. Per questo motivo, non é possibile, per la Chiesa cattolica, l'intercomunione eucaristica con queste comunità. Tuttavia, queste comunità ecclesiali, «mentre nella santa Cena fanno memoria della morte e della risurrezione del Signore, professano che nella Comunione di Cristo è significata la vita e aspettano la sua venuta gloriosa.

1401 - La presenza di una grave necessità, a giudizio dell'Ordinario, i ministri cattolici possono amministrare i sacramenti (Eucaristia, Penitenza, Unzione de­gli infermi) agli altri cristiani che non sono in piena comunione con la Chiesa cattolica, purché li chiedano spontaneamente: è necessario in questi casi che essi manifestino la fede cattolica a riguardo di questi sacramenti e che si trovino nelle disposizioni richieste.

VII. L'Eucaristia - «Pegno della gloria futura».

1402 - In un'antica preghiera, la Chiesa acclama il mistero dell'Eucari­stia: «O sacrum convivium in quo Christus sumitur: recolitur memoria passionis eius, mens impletur gratia et futurae gloriae nobis pignus da­tur - O sacro convito nel quale ci nutriamo di Cristo: si fa memoria della sua passione, l'anima è ricolmata di grazia e ci è donato il pegno della gloria futura», Se l'Eucaristia è il memoriale della pasqua del Si­gnore, se mediante la nostra Comunione all'altare veniamo ricolmati «di ogni grazia e benedizione del cielo», l'Eucaristia è pure anticipa­zione della gloria del cielo.

1403 - Nell'ultima Cena il Signore stesso ha fatto volgere lo sguardo dei suoi discepoli verso il compimento della pasqua nel regno di Dio: «Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno del Padre mio» (Mt 26,29). Ogni volta che la Chiesa celebra l'Eucaristia, ricorda questa promessa e il suo sguardo si volge verso «Colui che viene» (Ap 1,4). Nella preghiera, essa invoca la sua venuta: «Marana tha» (1 Cor 16,22), «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20), «Venga la tua grazia e passi questo mondo!».

1404 - La Chiesa sa che, fin d'ora, il Signore viene nella sua Eucaristia e che egli è lì, in mezzo a noi. Tuttavia questa presenza è nascosta. È per questo che celebriamo l'Eucaristia «expectantes beatam spem et Adventum Salvatoris nostri Iesu Christi - nell'attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo», chiedendo «di ritrovarci insieme a godere della tua gloria quando, asciugata ogni lacrima, i nostri occhi vedranno il tuo volto e noi saremo simili a te, e canteremo per sempre la tua lode, in Cristo, nostro Signore».

1405 - Di questa grande speranza, quella dei nuovi cieli e della terra nuova nei quali abiterà la giustizia, non abbiamo pegno più sicuro, né segno più esplicito dell'Eucaristia. Ogni volta infatti che viene celebrato questo mistero, «si effettua l'opera della nostra redenzione», e noi spezziamo «l'unico pane, che è farmaco d'immortalità, antidoto per non morire, ma per vivere in Gesù Cristo per sempre».

In sintesi

1406 - Gesù dice: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivra' in eterno. [...] Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue ha lo vita eterna, [...] dimora in me e io in lui» Gv 6,51.54.56).

1407 - L'Eucaristia è il cuore e il culmine della vita della Chiesa, poiché in essa Cristo associa la sua Chiesa e tutti i suoi membri al proprio sacrificio di lode e di rendimento di grazie offerto al Padre una volta per tutte sulla croce; mediante questo sacrificio egli effonde le grazie della salvezza sul suo corpo, che é la Chiesa.

1408 - La celebrazione eucaristica comporta sempre: la proclamazione del­la Parola di Dio, l'azione di grazie a Dio Padre per tutti i suoi be­nefici, soprattutto per il dono del suo Figlio, la consacrazione del pane e del vino e la partecipazione al banchetto liturgico mediante la ricezione del Corpo e del Sangue del Signore. Questi elementi costituiscono un solo e medesimo atto di culto.

1409 - L'Eucaristia è il memoriale della pasqua di Cristo, cioè dell'opera della salvezza compiuta per mezzo della vita, della morte e della ri­surrezione di Cristo, opera che viene resa presente dall'azione liturgico.

1410 - È Cristo stesso, Sommo ed eterno Sacerdote della Nuova Alleanza, che, agendo attraverso il ministero dei sacerdoti, offre il sacrificio eucaristico. Ed è ancora lo stesso Cristo, realmente presente sotto le specie del pane e del vino, l'offerta del sacrificio eucaristico.

1411 - Soltanto i sacerdoti validamente ordinati possono presiedere l'Euca­ristia e consacrare il pane e il vino perché diventino il Corpo e il Sangue del Signore.

1412 - I segni essenziali del sacramento eucaristico sono il pane di grano e il vino della vite, sui quali viene invocata la benedizione dello Spirito Santo e il sacerdote pronunzia le parole dello consacrazione dette da Gesù durante l'ultima Cena: «Questo è il mio Corpo doto per voi. (…) Questo è il calice del mio Sangue».

1413 - Mediante la consacrazione si opera la transustanziazione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo. Sotto le specie consacra­te del pane e del vino, Cristo stesso, vivente e glorioso, è presente in maniera vera, reale e sostanziale, il suo Corpo e Sangue con la sua anima e divinità.

1414 - In quanto sacrificio, l'Eucaristia viene anche offerta in riparazione dei peccati dei vivi e dei defunti, e al fine di ottenere da Dio benefici spirituali o temporali.

1415 - Chi vuole ricevere Cristo nella Comunione eucaristica deve essere in stato di grazia. Se uno è consapevole di aver peccato mortalmente, non deve accostarsi all'Eucaristia senza prima aver ricevuto l'assoluzione nel sacramento della Penitenza.

1416 - La santa Comunione al Corpo e al Sangue di Cristo accresce in colui che si comunica l'unione con il Signore, gli rimette i peccati veniali e lo preservo dai peccati gravi. Poiché vengono rafforzati i vincoli di carità tra colui che si comunica e Cristo, ricevere questo sacramento rafforza l'unità della Chiesa, corpo mistico di Cristo.

1417 - La Chiesa raccomanda vivamente ai fèdeli di ricevere la santa Comunione quando partecipano alla celebrazione dell'Eucaristia; ne fa loro obbligo almeno una volta all'anno.

1418 - Poiché Cristo stesso è presente nel Sacramento dell'altare, bisogna onorario con un culto di adorazione. La visita al Santissimo Sacramento «è prova di gratitudine, segno di amore e debito di ricono­scenza a Cristo Signor ».

1419 - Poiché Cristo è passato da questo mondo al Padre, nell'Eucaristia ci dona il pegno della gloria futura presso di lui:la partecipazione al san­to sacrificio ci identifica con il suo cuore, sostiene le nostre fede lungo il pellegrinaggio di questa vita, ci fà desiderare la vita eterna e già ci unisce alla Chiesa del cielo, allo beatissimo Vergine e a tutti i santi.

CAPITOLO SECONDO

I SACRAMENTI DI GUARIGIONE

1420 - Attraverso i sacramenti dell'iniziazione cristiana, l'uomo riceve la vi­ta nuova di Cristo. Ora, questa vita, noi la portiamo «in vasi di creta» (2 Cor 4,7). Adesso è ancora «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). Noi siamo ancora nella nostra abitazione terrena, sottomessa alla sofferenza, alla malattia e alla morte. Questa vita nuova di figlio di Dio può essere indebolita e persino perduta a causa del peccato.

1421 - Il Signore Gesù Cristo, medico delle nostre anime e dei nostri corpi, colui che ha rimesso i peccati al paralitico e gli ha reso la salute del corpo, ha voluto che la sua Chiesa continui, nella forza dello Spi­rito Santo, la sua opera di guarigione e di salvezza, anche presso le proprie membra. È lo scopo dei due sacramenti di guarigione: del sacramento della Penitenza e dell'Unzione degli infermi.

Articolo 4

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA E DELLA RICONCILIAZIONE

1422 - «Quelli che si accostano al sacramento della Penitenza ricevono dalla misericordia di Dio il perdono delle offese fatte a lui e insieme si riconciliano con la Chiesa, alla quale hanno inflitto una ferita col peccato e che coopera alla loro conversione con la carità, l'esempio e la preghiera».

I. Come viene chiamato questo sacramento?

1423 - È chiamato sacramento della Conversione poiché realizza sacramentalmente l'appello di Gesù alla conversione, il cammino di ritorno al Padre da cui ci si è allontanati con il peccato. È chiamato sacramento della Penitenza poiché consacra un cammi­no personale ed ecclesiale di conversione, di pentimento e di soddisfa­zione del cristiano peccatore.

1424 - È chiamato sacramento della Confessione poiché l'accusa, la con­fessione dei peccati davanti al sacerdote è un elemento essenziale di questo sacramento. In un senso profondo esso è anche una «confessio­ne», riconoscimento e lode della santità di Dio e della sua misericordia verso l'uomo peccatore. È chiamato sacramento del Perdono poiché, attraverso l'assoluzione sacramentale del sacerdote, Dio accorda al penitente «il perdono e la pace». È chiamato sacramento della Riconciliazione perché dona al peccato­re l'amore di Dio che riconcilia: « Lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,20). Colui che vive dell'amore misericordioso di Dio è pronto a rispondere all'invito del Signore: «Va' prima a riconciliarti con il tuo fratello» (Mi 5,24)

II. Perché un sacramento della Riconciliazione dopo il Battesimo?

1425 - «Siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio!» (1 Cor 6,11). Bisogna rendersi conto della grandezza del dono di Dio, che ci è fatto nei sacramenti dell'iniziazione cristiana, per capire fino a che pun­to il peccato è cosa non ammessa per colui che si è rivestito di Cristo. L'apostolo san Giovanni però afferma anche: «Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi» (1 Gv 1,8). E il Signore stesso ci ha insegnato a pregare: «Perdonaci i nostri peccati» (Lc 11,4), legando il mutuo perdono delle nostre offese al per­dono che Dio accorderà alle nostre colpe.

1426 - La conversione a Cristo, la nuova nascita dal Battesimo, il dono dello Spirito Santo, il Corpo e il Sangue di Cristo ricevuti in nutrimen­to, ci hanno resi «santi e immacolati al suo cospetto» (Ef' 1,4), come la Chiesa stessa, Sposa di Cristo, è «santa e immacolata» (Ef 5,27) da­vanti a lui. Tuttavia, la vita nuova ricevuta nell'iniziazione cristiana non ha soppresso la fragilità e la debolezza della natura umana, né l'in­clinazione al peccato che la tradizione chiama concupiscenza, la quale ri­mane nei battezzati perché sostengano le loro prove nel combattimento della vita cristiana, aiutati dalla grazia di Cristo. Si tratta del combat­timento della conversione in vista della santità e della vita eterna alla quale il Signore non cessa di chiamarci

III. La conversione dei battezzati.

1427 - Gesù chiama alla conversione. Questo appello è una componente essenziale dell'annuncio del Regno: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è ormai vicino; convertitevi e credete al Vangelo» (Mc l,T5). Nella predicazione della Chiesa questo invito si rivolge dapprima a quanti non conoscono ancora Cristo e il suo Vangelo. Il Battesimo è quindi il luogo principale della prima e fondamentale conversione. E mediante la fede nella Buona Novella e mediante il Battesimo che si rinuncia al male e si acquista la salvezza, cioè la remissione di tutti i peccati e il dono della vita nuova.

1428 - Ora, l'appello di Cristo alla conversione continua a risuonare nella vita dei cristiani. Questa seconda conversione è un impegno conti­nuo per tutta la Chiesa che «comprende nel suo seno i peccatori» e che, «santa insieme e sempre bisognosa di purificazione, incessantemen­te si applica alla penitenza e al suo rinnovamento »~" Questo sforzo di conversione non è soltanto un'opera umana. È il dinamismo del «cuore 1996 contrito » attirato e mosso dalla grazia 1a rispondere all'amore mise­ricordioso di Dio che ci ha amati per primo.

1429 - Lo testimonia la conversione di san Pietro dopo il triplice rinne­gamento del suo Maestro. Lo sguardo d'infinita misericordia di Gesù provoca le lacrime del pentimento e, dopo la risurrezione del Signore, la triplice confessione del suo amore per lui. La seconda conversione ha pure una dimensione comunitaria. Ciò appare nell'appello del Signo­re ad un'intera Chiesa: « Ravvediti! » (Ap 2,5.T6

IV. La penitenza interiore.

1430 - Come già nei profeti, l'appello di Gesù alla conversione e alla penitenza non riguarda anzitutto opere esteriori, «il sacco e la cenere», i digiuni e le mortificazioni, ma la conversione del cuore, la penitenza in­tenore. Senza di essa, le opere di penitenza rimangono sterili e menzo­gnere; la conversione interiore spinge invece all'espressione i questo at­teggiamento in segni visibili, gesti e opere di penitenza.

1431 - La penitenza interiore è un radicale nuovo orientamento di tutta la vita, un ritorno, una conversione a Dio con tutto il cuore, una rottu­ra con il peccato, un'avversione per il male, insieme con la riprovazione nei confronti delle cattive azioni che abbiamo commesse. Nello stesso tempo, essa comporta il desiderio e la risoluzione di cambiare vita con la speranza nella misericordia di Dio e la fiducia nell'aiuto della sua grazia. Questa conversione del cuore è accompagnata da un dolore e da una tristezza salutari, che i Padri hanno chiamato «animi cruciatus [af­flizione dello spirito]», «compunctio cordis [contrizione del cuore]

1432 - Il cuore dell'uomo è pesante e indurito. Bisogna che Dio conceda all'uomo un cuore nuovo. La conversione è anzitutto un'opera della gra­zia di Dio che fa ritornare a lui i nostri cuori: «Facci ritornare a te, Si­gnore, e noi ritorneremo» (Lam 5,21). Dio ci dona la forza di ricomincia­re. E scoprendo la grandezza dell'amore di Dio che il nostro cuore viene scosso dall'orrore e dal peso del peccato e comincia a temere di offendere Dio con il peccato e di essere separato da lui. Il cuore umano si converte guardando a colui che è stato trafitto dai nostri peccati. «Teniamo fisso lo sguardo sul sangue di Cristo, e consideriamo quanto sia prezioso per Dio, suo Padre; infatti, sparso per la nostra salvezza, offri al mondo intero la grazia della conversione».

1433 - Dopo la pasqua, è lo Spirito Santo che convince il mondo quan­to al peccato, cioè al fatto che il mondo non ha creduto in colui che il Padre ha inviato. Ma questo stesso Spirito, che svela il peccato, è il Consolatore che dona al cuore dell'uomo la grazia del pentimento e della conversione

V. Le molteplici forme della penitenza nella vita cristiana.

1434 - La penitenza interiore del cristiano può avere espressioni molto varie. La Scrittura e i Padri insistono soprattutto su tre forme: il digiuno, la preghiera, l'e­lemosina che esprimono la conversione in rapporto a se stessi, in rapporto a Dio e in rapporto agli altri. Accanto afla purificazione radicale Operata dal Bat­tesimo o dal martirio, essi indicano, come mezzo per ottenere il perdono dei peccati, gli sforzi compiuti per riconciliarsi con il prossimo, le lacrime di peni­tenza, la preoccupazione per la salvezza del prossimo,27 l'intercessione dei santi e la pratica della carità che «copre una moltitudine di peccati» (1 Pt 4,8).

1435 - La conversione si realizza nella vita quotidiana attraverso gesti di ricon­ciliazione, attraverso la sollecitudine per i poveri, l'esercizio e la difesa della giustizia e del diritto, attraverso la confessione delle colpe ai fratelli, la corre­zione fraterna, la revisione di vita, l'esame di coscienza, la direzione spirituale, l'accettazione delle sofferenze, la perseveranza nella persecuzione a causa della giustizia. Prendere la propria croce, ogni giorno, e seguire Gesù è la via più si­cura della penitenza.

1436 - Eucaristia e Penitenza. La conversione e la penitenza quotidiane trovano la lor~ sorgente e il loro alimento nefl'Eucaristia, poiché in essa è reso presente il sacrificio di Cristo che ci ha riconciliati coli Dio; per suo mezzo vengono nu­triti e fortificati coloro che vivono defla vita di Cristo; essa «è come l'antidoto con cui essere liberati dalle colpe di ogni giorno e preservati dai peccati mortali».

1437 - La lettura della Sacra Scrittura, la preghiera della liturgia delle Ore e del «Padre nostro», ogni atto sincero di culto o di pietà ravviva in noi lo spirito di conversione e di penitenza e contribuisce al perdono dei nostri peccati.

1438 - I tempi e i giorni di penitenza nel corso dell'anno liturgico (il tempo defla Quaresima, ogni venerdì in memoria della morte del Signore) sono momenti forti della pratica penitenziale della Chiesa. Questi tempi sono particolarmente adatti per gli esercizi spirituali, le liturgie penitenziali, i pellegrinaggi in segno di penitenza, le privazioni volontarie come il digiuno e l'elemosina, la condivi­sione fraterna (opere caritative e missionarie).

1439 - Il dinamismo della conversione e della penitenza è stato meravigliosamente descritto da Gesù nella parabola detta «del figlio prodigo» il cui centro è «il padre misericordioso»: il fascino di una libertà illusoria, l'abbandono della casa paterna; la miseria estrema nella quale il figlio viene a trovarsi dopo aver dilapidato la sua fortuna; l'umiliazione profonda di vedersi costretto a pascola­re i porci, e, peggio ancora, quella di desiderare di nutrirsi delle carrube che mangiavano i maiali; la riflessione sui beni perduti; il pentimento e la decisione di dichiararsi colpevole davanti a suo padre; il cammino del ritorno; l'acco­glienza generosa da parte del padre; la gioia del padre: ecco alcuni tratti propri del processo di conversione. L'abito bello, l'anello e il banchetto di festa sono simboli della vita nuova, pura, dignitosa, piena di gioia che è la vita dell'uomo che ritorna a Dio e in seno alla sua famiglia, la Chiesa. Soltanto il cuore di Cristo, che conosce le profondità dell'amore di suo Padre, ha potuto rivelarci l'abisso della sua misericordia in una maniera così piena dì semplicità e di bellezza.

VI. Il sacramento della Penitenza e della Riconciliazione.

1440 - Il peccato è anzitutto offesa a Dio, rottura della comunione con lui. Nello stesso tempo esso attenta alla comunione con la Chiesa. Per questo motivo la conversione arreca ad un tempo il perdono di Dio e la riconciliazione con la Chiesa, ciò che il sacramento della Penitenza e della Riconciliazione esprime e realizza liturgicamente.

DIO SOLO PERDONA IL PECCATO

1441 - Dio solo perdona i peccati. Poiché Gesù è il Figlio di Dio, egli dice di se stesso: «Il Figlio dell'uomo ha il potere sulla terra di rimette­re i peccati» (Mc 2,10) ed esercita questo potere divino: «Ti sono rimessi i tuoi peccati!» (Mc 2,5. Ancor di più: in virtù della sua autorità divina dona tale potere agli uomini affinché lo esercitino nel suo nome.

1442 - Cristo ha voluto che la sua Chiesa sia tutta intera, nella sua pre­ghiera, nella sua vita e nelle sue attività, il segno e lo strumento del perdono e della riconciliazione che egli ci ha acquistato a prezzo del suo sangue. Ha tuttavia affidato l'esercizio del potere di assolvere i pec­cati al ministero apostolico. A questo è affidato il «ministero della ri­conciliazione» (2 Cor 5,18). L'Apostolo è inviato «nel nome di Cristo», ed è Dio stesso che, per mezzo di lui, esorta e supplica: «Lasciatevi riconciliare con Dio» (2 Cor 5,20).

RICONCILIAZIONE CON LA CHIESA

1443 - Durante la sua vita pubblica, Gesù non ha soltanto perdonato i peccati; ha pure manifestato l'effetto di questo perdono: egli ha reinte­grato i peccatori perdonati nella comunità del popolo di Dio, dalla quale il peccato li aveva allontanati o persino esclusi. Un segno chiaro di ciò è il fatto che Gesù ammette i peccatori alla sua tavola; più anco­ra, egli stesso siede alla loro mensa, gesto che esprime in modo scon­volgente il perdono di Dio e, nello stesso tempo, il ritorno in seno al popolo di Dio.

1444 - Rendendo gli Apostoli partecipi del suo proprio potere di perdo­nare i peccati, il Signore dà loro anche l'autorità di riconciliare i pecca­tori con la Chiesa. Tale dimensione ecclesiale del loro ministero trova la sua più chiara espressione nella solenne parola di Cristo a Simon Pietro: «A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sa­rà sciolto nei cieli» (Mt 16,19). Questo «incarico di legare e dì scioglie­re, che è stato dato a Pietro, risulta essere stato pure concesso al colle­gio degli Apostoli, unito col suo capo (cf Mt 18,18; 28,16-20)».

1445 - Le parole legare e sciogliere significano: colui che voi escluderete dalla vostra comunione sarà escluso dalla comunione con Dio; colui che voi accoglierete di nuovo nella vostra comunione, Dio lo accoglierà anche nella sua. La riconciliazione con la Chiesa è inseparabile dalla riconciliazione con Dio.

IL SACRAMENTO DEL PERDONO

1446 - Cristo ha istituito il sacramento della Penitenza per tutti i mem­bri peccatori della sua Chiesa, in primo luogo per coloro che, dopo il Battesimo, sono caduti in peccato grave e hanno così perduto la grazia battesimale e inflitto una ferita alla comunione ecclesiale. A costoro il sacramento della Penitenza offre una nuova possibilità di convertirsi e di recuperare la grazia della giustificazione. I Padri della Chiesa presen­tano questo sacramento come «la seconda tavola [di salvezza] dopo il naufragio della grazia perduta.

1447 - Nel corso dei secoli la forma concreta, secondo la quale la Chiesa ha esercitato questo potere ricevuto dal Signore, ha subito molte variazioni. Du­rante i primi secoli, la riconciliazione dei cristiani che avevano commesso pecca­ti particolarmente gravi dopo il loro Battesimo (per esempio l'idolatria, l'omici­dio o l'adulterio), era legata ad una disciplina molto rigorosa, secondo la quale i penitenti dovevano fare pubblica penitenza per i loro peccati, spesso per lun­ghi anni, prima di ricevere la riconciliazione. A questo ordine dei penitenti (che riguardava soltanto certi peccati gravi) non si era ammessi che raramente e, in talune regioni, una sola volta durante la vita. Nel settimo secolo, ispirati dalla tradizione monastica d'Oriente, i missionari irlandesi portarono nell'Euro­pa continentale la pratica «privata» della penitenza, che non esige il compi­mento pubblico e prolungato di opere di penitenza prima di ricevere la riconci­liazione con la Chiesa. Il sacramento si attua ormai in una maniera più segreta tra il penitente e il sacerdote. Questa nuova pratica prevedeva la possibilità del­la reiterazione e apriva così la via ad una frequenza regolare di questo sacra­mento. Essa permetteva di integrare in una sola celebrazione sacramentale il perdono dei peccati gravi e dei peccati veniali. È questa, a grandi linee, la for­ma di Penitenza che la Chiesa pratica fino ai nostri giorni.

1448 - Attraverso i cambiamenti che la disciplina e la celebrazione di questo sacramento hanno conosciuto nel corso dei secoli, si discerne la medesima struttura fondamentale. Essa comporta due elementi ugual­mente essenziali: da una parte, gli atti dell'uomo che si converte sotto l'azione dello Spirito Santo: cioè la contrizione, la confessione e la sod­disfazione; dall'altra parte, l'azione di Dio attraverso l'intervento della Chiese. La Chiesa che, mediante il Vescovo e i suoi presbìteri, concede nel nome dì Gesù Cristo il perdono dei peccati e stabilisce la modalità della soddisfazione, prega anche per il peccatore e fa penitenza con lui. Così il peccatore viene guarito e ristabilito nella comunione ecclesiale.

1449 - La formula di assoluzione in uso nella Chiesa latina esprime gli elementi essenziali di questo sacramento: il Padre delle misericordie è la sorgente di ogni perdono. Egli realizza la riconciliazione dei peccatori mediante la pasqua del suo Figlio e il dono del suo Spirito, attraverso la preghiera e il ministero della Chiesa: «Dio, Padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo nella morte e risurrezione del suo Figlio, e ha effuso lo Spirito Santo per la remissione dei peccati, ti conceda, mediante il ministero della Chiesa, il perdono e la pace. E io ti assolvo dai tuoi peccati nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo».

VII. Gli atti del penitente.

1450 - «La penitenza induce il peccatore a sopportare di buon animo ogni sofferenza; nel suo cuore vi sia la contrizione, nella sua bocca la confessione, nelle sue opere tutta l'umiltà e la feconda soddisfazione».

LA CONTRIZIONE

1451 - Tra gli atti del penitente, la contrizione occupa il primo posto. Essa è «il dolore dell'animo e la riprovazione del peccato commesso, accompagnati dal proposito di non peccare più in avvenire.

1452 - Quando proviene dall'amore di Dio amato sopra ogni cosa, la contrizione è detta «perfetta » (contrizione di carità). Tale contrizione rimette le colpe veniali; ottiene anche il perdono dei peccati mortali, qualora comporti la ferma risoluzione di ricorrere, appena possibile, al­la confessione sacramentale.

1453 - La contrizione detta «imperfetta» (o «attrizione») è, anch'essa, un dono di Dio, un impulso dello Spirito Santo. Nasce dalla considera­zione della bruttura del peccato o dal timore della dannazione eterna e delle altre pene la cui minaccia incombe sul peccatore (contrizione da timore). Quando la coscienza viene così scossa, può aver inizio un'evoluzione interiore che sarà portata a compimento, sotto l'azione della grazia, dall'assoluzione sacramentale. Da sola, tuttavia, la contrizione imperfetta non ottiene il perdono dei peccati gravi, ma dispone a rice­verlo nel sacramento della Penitenza.

1454 - È bene prepararsi a ricevere questo sacramento con un esame di coscien­za fatto alla luce della Parola di Dio. I testi più adatti a questo scopo sono da cercarsi nel Decalogo e nella catechesi morale dei Vangeli e delle lettere degli Apostoli: il discorso della montagna, gli insegnamenti apostolici.

LA CONFESSIONE DEI PECCATI

1455 - La confessione dei peccati (l'accusa), anche da un punto di vista semplicemente umano, ci libera e facilita la nostra riconciliazione con gli altri. Con l'accusa, l'uomo guarda in faccia i peccati di cui si è reso colpevole; se ne assume la responsabilità e, in tal modo, si apre nuova­mente a Dio e alla comunione della Chiesa al fine di rendere possibile un nuovo avvenire.

1456 - La confessione al sacerdote costituisce una parte essenziale del sacramento della Penitenza: «È necessario che i penitenti enumerino nella confessione tutti i peccati mortali, di cui hanno consapevolezza dopo un diligente esame di coscienza, anche se si tratta dei peccati più nascosti e commessi soltanto contro i due ultimi comandamenti del De­calogo, perché spesso feriscono più gravemente l'anima e si rivelano più pericolosi di quelli chiaramente commessi»: «I cristiani [che] si sforzano di confessare tutti i peccati che vengono loro in mente, senza dubbio li mettono tutti davanti alla divina miseri­cordia perché li perdoni. Quelli, invece, che fanno diversamente e tac­ciono consapevolmente qualche peccato, é come se non sottoponessero nulla alla divina bontà perché sia perdonato per mezzo del sacerdote. “Se infatti l'ammalato si vergognasse di mostrare al medico la ferita, il medico non può curare quello che non conosce“.

1457 - Secondo il precetto della Chiesa, Ogni fedele, raggiunta l'età della di­screzione, è tenuto all'obbligo di confessare fedelmente i propri peccati gravi, almeno una volta nell'anno. Colui che è consapevole di aver commesso un peccato mortale non deve ricevere la santa Comunione, anche se prova una grande contrizione, senza aver prima ricevuto l'assoluzione sacramentale, a meno che non abbia un motivo grave per comunicarsi e non gli sia possibile accedere a un confessore. I fanciulli devono accostarsi al sacramento della Pe­nitenza prima di ricevere per la prima volta la santa Comunione.

1458 - Sebbene non sia strettamente necessaria, la confessione delle col­pe quotidiane (peccati veniali) è tuttavia vivamente raccomandata dalla Chiesa. In effetti, la confessione regolare dei peccati veniali ci aiuta a formare la nostra coscienza, a lottare contro le cattive inclinazioni, a lasciarci guarire da Cristo, a progredire nella vita dello Spirito. Rice­vendo più frequentemente, attraverso questo sacramento, il dono della misericordia del Padre, siamo spinti ad essere misericordiosi come lui: «Chi riconosce i propri peccati e li condanna, è già d'accordo con Dio. Dio condanna i tuoi peccati; e se anche tu li condanni, ti unisci a Dio. L'uomo e il peccatore sono due cose distinte: l'uomo è opera di Dio, il peccatore è opera tua, o uomo. Distruggi ciò che tu hai fatto, affinché Dio salvi ciò che egli ha fatto. […] Quando comincia a dispiacerti ciò che hai fatto, allora cominciano le tue opere buone, perché condanni le tue opere cattive. Le opere buone cominciano col riconoscimento delle opere cattive. Operi la verità, e così vieni alla Luce »

LA SODDISFAZIONE

1459 - Molti peccati recano offesa al prossimo. Bisogna fare il possibile per riparare (ad esempio restituire cose rubate, ristabilire la reputazione di chi è stato calunniato, risanare le ferite). La semplice giustizia lo esi­ge. Ma, in più, il peccato ferisce e indebolisce il peccatore stesso, come anche le sue relazioni con Dio e con il prossimo. L'assoluzione toglie il peccato, ma non porta rimedio a tutti i disordini che il peccato ha causato. Risollevato dal peccato, il peccatore deve ancora recuperare la piena salute spirituale. Deve dunque fare qualcosa di più per riparare le proprie colpe: deve «soddisfare» in maniera adeguata o «espiare» i suoi peccati. Questa soddisfazione si chiama anche «penitenza».

1460 - La penitenza che il confessore impone deve tener conto della si­tuazione personale del penitente e cercare il suo bene spirituale. Essa deve corrispondere, per quanto possibile, alla gravità e alla natura dei peccati commessi. Può consistere nella preghiera, in un'offerta, nelle opere di misericordia, nel servizio del prossimo, in privazioni volonta­rie, in sacrifici, e soprattutto nella paziente accettazione della croce che dobbiamo portare. Tali penitenze ci aiutano a configurarci a Cristo che, solo, ha espiato per i nostri peccati una volta per tutte. Esse ci per­mettono di diventare coeredi di Cristo risorto, dal momento che «par­tecipiamo alle sue sofferenze» (Rm 8,17): «Ma questa soddisfazione, che campiamo per i nostri peccati, non è talmente nostra da non esistere per mezzo di Gesù Cristo: noi, infatti, che non possiamo nulla da noi stessi. col suo aiuto “possiamo tutto in lui che ci dà la forza”. Quindi l'uomo non ha di che gloriarsi; ma ogni nostro vanto è riposto in Cristo, [...] in cui offriamo soddisfazione, “fa­cendo opere degne della conversione”, che da lui traggono il loro va­lore, da lui sono offerte al Padre e grazie a lui sono accettate dal Padre».

VIII. Il ministro di questo sacramento.

1461 - Poiché Cristo ha affidato ai suoi Apostoli il ministero della riconciliazione, i Vescovi, loro successori, e i presbiteri, collaboratori dei Vescovi, continuano ad esercitare questo ministero. Infatti sono i Ve­scovi e i presbiteri che hanno, in virtù del sacramento dell'Ordine, il potere di perdonare tutti i peccati «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo».

1462 - Il perdono dei peccati riconcilia con Dio ma anche con la Chie­sa. Il Vescovo, capo visibile della Chiesa particolare, è dunque considerato a buon diritto, sin dai tempi antichi, come colui che principalmen­te ha il potere e il ministero della riconciliazione: è il moderatore della disciplina penitenziale. I presbiteri, suoi collaboratori, esercitano tale potere nella misura in cui ne hanno ricevuto l'ufficio sia dal proprio Vescovo (o da un superiore religioso), sia dal Papa, in base al diritto della Chiesa.

1463 - Alcuni peccati particolarmente gravi sono colpiti dalla scomunica, la pe­na ecclesiastica più severa, che impedisce di ricevere i sacramenti e di compiere determinati atti ecclesiastici, e la cui assoluzione, di conseguenza, non può es­sere accordata, secondo il diritto della Chiesa, che dal Papa, dal Vescovo del luogo o da presbiteri da loro autorizzati. In caso di pericolo di morte, ogni sacerdote, anche se privo della facoltà di ascoltare le confessioni, può assolvere da qualsiasi peccato e da qualsiasi scomunica.

1464 - I sacerdoti devono incoraggiare i fedeli ad accostarsi al sacra­mento della Penitenza e devono mostrarsi disponibili a celebrare questo sacramento ogni volta che i cristiani ne facciano ragionevole richiesta.

1465 - Celebrando il sacramento della Penitenza, il sacerdote compie il ministero del buon pastore che cerca la pecora perduta, quello del buon Samaritano che medica le ferite, del padre che attende il figlio prodigo e lo accoglie al suo ritorno, del giusto giudice che non fa distinzione di persone e il cui giudizio è ad un tempo giusto e misericordioso. Insom­ma, il sacerdote è il segno e lo strumento dell'amore misericordioso di Dio verso il peccatore.

1466 - Il confessore non è il padrone, ma il servitore del perdono di Dio. Il ministro di questo sacramento deve unirsi all'intenzione e alla carità di Cristo. Deve avere una provata conoscenza del comportamen­to cristiano, l'esperienza delle realtà umane, il rispetto e la delicatezza nei confronti di colui che è caduto; deve amare la verità, essere fedele al Magistero della Chiesa e condurre con pazienza il penitente verso la guarigione e la piena maturità. Deve pregare e fare penitenza per lui, affidandolo alla misericordia del Signore.

1467 - Data la delicatezza e la grandezza di questo ministero e il rispet­to dovuto alle persone, la Chiesa dichiara che ogni sacerdote che ascol­ta le confessioni è obbligato, sotto pene molto severe, a mantenere un segreto assoluto riguardo ai peccati che i suoi penitenti gli hanno con­fessato. Non gli è lecito parlare neppure di quanto viene a conoscere, attraverso la confessione, della vita dei penitenti. Questo segreto, che non ammette eccezioni, si chiama il «sigillo sacramentale», poiché ciò che il penitente ha manifestato al sacerdote rimane «sigillato» dal sacramento.

IX. Gli effetti di questo sacramento.

1468 - «Tutto il valore della Penitenza consiste nel restituirci alla grazia di Dio stringendoci a lui in intima e grande amicizia». Il fine e l'effet­to di questo sacramento sono dunque la riconciliazione con Dio. Coloro che ricevono il sacramento della Penitenza con cuore contrito e in una disposizione religiosa conseguono «la pace e la serenità della coscienza insieme a una vivissima consolazione dello spirito». Infatti, il sacra­mento della Riconciliazione con Dio opera una autentica «risurrezione spirituale», restituisce la dignità e i beni della vita dei figli di Dio, di cui il più prezioso è l'amicizia di Dio.

1469 - Questo sacramento ci riconcilia con la Chiesa. Il peccato incrina o infrange la comunione fraterna. Il sacramento della Penitenza la ripara o la restaura. In questo senso, non guarisce soltanto colui che viene ri­stabilito nella comunione ecclesiale, ma ha pure un effetto vivificante sulla vita della Chiesa che ha sofferto a causa del peccato di uno dei suoi membri. Ristabilito o rinsaldato nella comunione dei santi, il pec­catore viene fortificato dallo scambio dei beni spirituali tra tutte le membra vive del corpo di Cristo, siano esse ancora nella condizione di pellegrini o siano già nella patria celeste. «Bisogna aggiungere che tale riconciliazione con Dio ha come conse­guenza, per così dire, altre riconciliazioni, che rimediano ad altrettante rotture, causate dal peccato: il penitente perdonato si riconcilia con se stesso nel fondo più intimo del proprio essere, in cui ricupera la pro­pria verità interiore; si riconcilia con i fratelli, da lui in qualche modo offesi e lesi; si riconcilia con la Chiesa; si riconcilia con tutto il creato».

1470 - In questo sacramento, il peccatore, rimettendosi al giudizio misericordioso di Dio, anticipa in un certo modo il giudizio al quale sarà sottoposto al termine di questa esistenza terrena. E’ infatti ora, in que­sta vita, che ci è offerta la possibilità di scegliere tra la vita e la morte, ed è soltanto attraverso il cammino della conversione che possiamo en­trare nel regno di Dio, dal quale il peccato grave esclude. Converten­dosi a Cristo mediante la penitenza e la fede, il peccatore passa dalla morte alla vita «e non va incontro al giudizio» (Gv 5,24).

X. Le indulgenze.

1471 - La dottrina e la pratica delle indulgenze nella Chiesa sono strettamente legate agli effetti del sacramento della Penitenza.

CHE COSE’ L'INDULGENZA?

«L'indulgenza è la remissione dinanzi a Dio della pena temporale per i peccati, già rimessi quanto alla colpa, remissione che il fedele, debitamente di­sposto e a determinate condizioni, acquista per intervento della Chiesa, la qua­le, come ministra della redenzione, autoritativamente dispensa ed applica il tesoro delle soddisfazioni di Cristo e dei santi». «L'indulgenza è parziale o plenaria secondo che libera in parte o in tutto dalla pena temporale dovuta per i peccati». «Ogni fedele può acquisire le indulgenze [...] per se stesso o applicarle ai defunti».

LE PENE DEL PECCATO

1472 - Per comprendere questa dottrina e questa pratica della Chiesa bisogna tener presente che il peccato ha una duplice conseguenza. Il peccato grave ci pri­va della comunione con Dio e perciò ci rende incapaci di conseguire la vita eterna, la cui privazione è chiamata la «pena eterna» del peccato. D'altra par­te, ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha bisogno di purificazione, sia quaggiù, sia dopo la morte, nello stato chiamato purgatorio. Tale purificazione libera dalla cosiddetta «pena tempora­le» del peccato. Queste due pene non devono essere concepite come una specie di vendetta, che Dio infligge dall'esterno, bensì come derivanti dalla natura stessa del peccato. Una conversione, che procede da una fervente carità, può arrivare alla totale purificazione del peccatore, così che non sussista più alcuna pena.

1473 - Il perdono del peccato e la restaurazione della comunione con Dio com­portano la remissione delle pene eterne del peccato. Rimangono, tuttavia, le pe­ne temporali del peccato. Il cristiano deve sforzarsi, sopportando pazientemente le sofferenze e le prove di ogni genere e, venuto il giorno, affrontando serena­mente la morte, di accettare come una grazia queste pene temporali del pecca­to; deve impegnarsi, attraverso le opere di misericordia e di carità, come pure mediante la preghiera e le varie pratiche di penitenza, a spogliarsi completa­mente dell'«uomo vecchio» e a rivestire «l'uomo nuovo».

NELLA COMUNIONE DEI SANTI

1474 - Il cristiano che si sforza di purificarsi del suo peccato e di santificarsi con l'aiuto della grazia di Dio, non si trova solo. «La vita dei singoli figli di Dio in Cristo e per mezzo di Cristo viene congiunta con legame meraviglioso alla vita di tutti gli altri fratelli cristiani nella soprannaturale unità del corpo mistico dì Cristo, fin quasi a formare una sola mistica persona.

1475 - Nella comunione dei santi «tra i fedeli, che già hanno raggiunto la pa­tria celeste o che stanno espiando le loro colpe nel purgatorio, o che ancora so­no pellegrini sulla terra, esiste certamente un vincolo perenne di carità ed un abbondante scambio di tutti i beni». In questo ammirabile scambio, la santità dell'uno giova agli altri, ben al di là del danno che il peccato dell'uno ha potu­to causare agli altri. In tal modo, il ricorso alla comunione dei santi permette al peccatore contrito di essere in più breve tempo e più efficacemente purificato dalle pene del peccato.

1476 - Questi beni spirituali della comunione dei santi sono anche chiamati il tesoro della Chiesa, che non «si deve considerare come la somma di beni mate­riali, accumulati nel corso dei secoli, ma come l'infinito ed inesauribile valore che le espiazioni e i meriti dì Cristo hanno presso il Padre, offerti perché tutta l'umanità sia liberata dal peccato e pervenga alla comunione con il Padre; è lo stesso Cristo Redentore, in cui sono e vivono le soddisfazioni ed i meriti della sua redenzione».

1477 - Appartiene inoltre a questo tesoro il valore veramente immenso in­commensurabile e sempre nuovo che presso Dio hanno le preghiere e le buone opere della beata Vergine Maria e di tutti i santi, i quali, seguendo le orme di Cristo Signore per grazia sua, hanno santificato la loro vita e condotto a com­pimento la missione affidata loro dal Padre; in tal modo, realizzando la loro salvezza, hanno anche cooperato alla salvezza dei propri fratelli nell'unità del corpo mistico».

OTTENERE L'INDULGENZA DI DIO MEDIANTE LA CHIESA

1478 - L'indulgenza si ottiene mediante la Chiesa che, in virtù del potere di le­gare e di sciogliere accordatole da Gesù Cristo, interviene a favore di un cri­stiano e gli dischiude il tesoro dei meriti di Cristo e dei santi perché ottenga dal Padre delle misericordie la remissione delle pene temporali dovute per i suoi peccati. Così la Chiesa non vuole soltanto venire in aiuto a questo cristiano, ma anche spingerlo a compiere opere di pietà, di penitenza e di carità.

1479 - Poiché i fedeli defunti in via di purificazione sono anch'essi membri della medesima comunione dei santi, noi possiamo aiutarli, tra l'altro, ottenendo per loro indulgenze, in modo tale che siano sgravati dalle pene temporali dovute per i loro peccati

XI. La celebrazione del sacramento della Penitenza.

1480 - Come tutti i sacramenti, la Penitenza è un'azione liturgica. Que­sti sono ordinariamente gli elementi della celebrazione: il saluto e la be­nedizione del sacerdote; la lettura della Parola di Dio per illuminare la coscienza e suscitare la contrizione, e l'esortazione al pentimento; la confessione che riconosce i peccati e li manifesta al sacerdote; l'imposi­zione e l'accettazione della penitenza; l'assoluzione da parte del sacerdo­te; la lode con rendimento di grazie e il congedo con la benedizione da parte del sacerdote.

1481 - La liturgia bizantina usa più formule di assoluzione, a carattere depreca­tivo, le quali mirabilmente esprimono il mistero del perdono: «Il Dio che, at­traverso il profeta Natan, ha perdonato a Davide quando confessò i propri peccati, e a Pietro quando pianse amaramente, e alla peccatrice quando versò la­crime sui suoi piedi, e al pubblicano e al prodigo, questo stesso Dio ti perdoni, attraverso me, peccatore, in questa vita e nell'altra, e non ti condanni quando apparirai al suo tremendo tribunale, egli che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

1482 - Il sacramento della Penitenza può anche aver luogo nel quadro di una celebrazione comunitaria, nella quale ci si prepara insieme alla confessione e in­sieme si rende grazie per il perdono ricevuto. In questo caso, la confessione personale dei peccati e l'assoluzione individuale sono inserite in una liturgia della Parola di Dio, con letture e omelia, esame di coscienza condotto in comu­ne, richiesta comunitaria del perdono, preghiera del «Padre nostro» e ringra­ziamento comune. Tale celebrazione comunitaria esprime più chiaramente il ca­rattere ecclesiale della penitenza. Tuttavia, in qualunque modo venga celebrato, il sacramento della Penitenza é sempre, per sua stessa natura, un'azione liturgi­ca, quindi ecclesiale e pubblica.

1483 - In casi di grave necessità si può ricorrere alla celebrazione comunitaria della Riconciliazione con confessione generale e assoluzione generale. Tale grave necessità può presentarsi qualora vi sia un imminente pericolo di morte senza che il sacerdote o i sacerdoti abbiano il tempo sufficiente per ascoltare la con­fessione di ciascun penitente. La necessità grave può verificarsi anche quando, in considerazione del numero dei penitenti, non vi siano confessori in numero sufficiente per ascoltare debitamente le confessioni dei singoli entro un tempo ragionevole, così che i penitenti, senza loro colpa, rimarrebbero a lungo privati della grazia sacramentale o della santa Comunione. In questo caso i fedeli, per­ché sia valida l'assoluzione, devono fare il proposito di confessare individual­mente i propri peccati gravi a tempo debito. Spetta al Vescovo diocesano giu­dicare se ricorrano le condizioni richieste per l'assoluzione generale. Una con­siderevole affluenza di fedeli in occasione di grandi feste o di pellegrinaggi non costituisce un caso di tale grave necessità.

1484 - «La confessione individuale e completa, con la relativa assolu­zione, resta l'unico modo ordinario grazie al quale i fedeli si riconcilia­no con Dio e con la Chiesa, a meno che un'impossibilità fisica o mora­le non li dispensi da una tale confessione». Ciò non è senza motiva­zioni profonde. Cristo agisce in ogni sacramento. Si rivolge personal­mente a ciascun peccatore: «Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati»(Mc 2,5); è il medico che si china sui singoli malati che hanno bisogno di lui per guarirli; li rialza e li reintegra nella comunione fraterna. La confessione personale è quindi la forma più significativa della riconcilia­zione con Dio e con la Chiesa.

In sintesi

1485 - La sera di pasqua, il Signore Gesù si mostrò ai suoi Apostoli e dis­se loro: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimettere te, resteranno non rimessi» (Gv 20,22-23).

1486 - Il perdono dei peccati commessi dopo il Battesimo e accordato me­diante un sacramento apposito chiamato sacramento della Conver­sione, della Confessione, della Penitenza o della Riconciliazione.

1487 - Colui che pecca ferisce l'onore di Dio e il suo amore, la propria di­gnità di uomo chiamato ad essere figlio di Dio e la salute spirituale della Chiesa di cui ogni cristiano deve essere una pietra viva.

1488 - Agli occhi della fede, nessun male é più grave del peccato, e niente ha conseguenze peggiori per gli stessi peccatori, per la Chiesa e per il mondo intero.

1489 - Ritornare alla comunione con Dio dopo averla perduta a causa del peccato, e un movimento nato dalla grazia di Dio ricco di miseri­cordia e sollecito della salvezza degli uomini. Bisogna chiedere que­sto dono prezioso per sé e per gli altri.

1490 - Il cammino di ritorno a Dio, chiamato conversione e pentimento, impli­ca un dolore e una repulsione per i peccati commessi, e il fermo propo­sito di non peccare più in avvenire. La conversione riguarda dunque il passato e il futuro; essa si nutre della speranza nella misericordia divina.

1491 - Il sacramento della Penitenza è costituito dall'insieme dei tre atti compiuti dal penitente e dall'assoluzione da parte del sacerdote. Gli atti del penitente sono: il pentimento, la confessione o manifestazio­ne dei peccati al sacerdote e il proposito di compiere la soddisfazio­ne e le opere di soddisfazione.

1492 - Il pentimento (chiamato anche contrizione) deve essere ispirato da motivi dettati dalla fede. Se il pentimento nasce dall'amore di carità verso Dio, lo si dice «perfetto»; se è fondato su altri motivi, lo si chiama «imperfetto».

1493 - Colui che vuole ottenere la riconciliazione con Dio e con la Chiesa deve confessare al sacerdote tutti i peccati gravi che ancora non ha confessato e di cui si ricorda dopo aver accuratamente esaminato la propria coscienza. Sebbene non sia in sé necessaria, la confessione delle colpe veniali è tuttavia vivamente raccomandata dalla Chiesa.

1494 - Il confessore propone al penitente il compimento di certi atti di «soddi­#azione» o di «penitenza», al fine di riparare il danno causato dal peccato e ristabilire gli atteggiamenti consoni al discepolo di Cristo.

1495 - Soltanto i sacerdoti che hanno ricevuto dall'autorità della Chiesa la facoltà di assolvere possono perdonare i peccati nel nome di Cristo.

1496 - Gli effetti spirituali del sacramento della Penitenza sono: la riconciliazione con Dio mediante la quale il penitente ricupera la grazia; la riconciliazione con la Chiesa; la remissione della pena eterna meritata a causa dei peccati mortali, la remissione, almeno in parte, delle pene temporali, conseguenze del peccato; la pace e la serenità della coscienza, e la consolazione spirituale; l'accrescimento delle forze spirituali per il combattimento cristiano.

1497 - La confessione individuale e completa dei peccati gravi seguita dal­l'assoluzione rimane l'unico mezzo ordinario per la riconciliazione con Dio e con la Chiesa.

1498 - Mediante le indulgenze i fedeli possono ottenere per se stessi, e an­che per le anime del purgatorio, la remissione delle pene temporali, conseguenze dei peccati.

Articolo 5

L'UNZIONE DEGLI INFERMI

1499 - «Con la sacra Unzione degli infermi e la preghiera dei presbite­li, tutta la Chiesa raccomanda gli ammalati al Signore sofferente e glo­rificato, perché alleggerisca le loro pene e li salvi, anzi li esorta a unirsi spontaneamente alla passione e alla morte di Cristo, per contribuire così al bene del popolo di Dio».

I. Suoi fondamenti nell'Economia della salvezza

LA MALATTIA NELLA VITA UMANA

1500 - La malattia e la sofferenza sono sempre state tra i problemi più gravi che mettono alla prova la vita umana. Nella malattia l'uomo fa l'esperienza della propria impotenza, dei propri limiti e della propria finitezza. Ogni malattia può farci intravvedere la morte.

1501 - La malattia può condurre all'angoscia, al ripiegamento su di sé, talvolta persino alla disperazione e alla ribellione contro Dio. Ma essa può anche rendere la persona più matura, aiutarla a discernere nella propria vita ciò che non è essenziale per volgersi verso ciò che lo è. Molto spesso la malattia provoca una ricerca di Dio, un ritorno a lui.

IL MALATO DI FRONTE A DIO

1502 - L'uomo dell'Antico Testamento vive la malattia di fronte a Dio. È davanti a Dio che egli versa le sue lacrime sulla propria malattia è da lui, il Signore della vita e della morte, che egli implora la guarigio­ne. La malattia diventa cammino di conversione e il perdono di Dio dà inizio alla guarigione. Israele sperimenta che la malattia è legata, in un modo misterioso, al peccato e al male, e che la fedeltà a Dio, secon­do la sua Legge, ridona la vita: «Perché io sono il Signore, colui che ti guarisce!» (Es 15,26). Il profeta intuisce che la sofferenza può anche avere un valore redentivo per i peccati altrui. Infine Isaia annuncia che Dio farà sorgere per Sion un tempo in cui perdonerà ogni colpa e guarirà ogni malattia.

CRISTO-MEDICO

1503 - La compassione di Cristo verso i malati e le sue numerose guari­gioni di infermi di ogni genere sono un chiaro segno del fatto che Dio ha visitato il suo popolo e che il regno di Dio è vicino. Gesù non ha soltanto il potere di guarire, ma anche di perdonare i peccati: è venuto a guarire l'uomo tutto intero, anima e corpo; è il medico di cui i malati hanno bisogno. La sua compassione verso tutti coloro che soffrono si spinge così lontano che egli si identifica con loro: «Ero ma­lato e mi avete visitato» (Mt 25,36). Il suo amore di predilezione per gli infermi non ha cessato, lungo i secoli, di rendere i cristiani partico­larmente premurosi verso tutti coloro che soffrono nel corpo e nello spirito. Esso sta all'origine degli instancabili sforzi per alleviare le loro pene.

1504 - Spesso Gesù chiede ai malati di credere.107 Si serve di segni per guarire: saliva e imposizione delle mani,'08 fango e abluzione.109 I malati cercano di toccarlo '~ «perché da lui usciva una forza che sanava tutti» (Lc 6,19). Così, nei sacramenti, Cristo continua a «toccarci» per guarirci.

1505 - Commosso da tante sofferenze, Cristo non soltanto si lascia toc­care dai malati, ma fa sue le loro miserie: «Egli ha preso le nostre in­fermità e si è addossato le nostre malattie» (Mt 8,17). Non ha guarito però tutti i malati. Le sue guarigioni erano segni della venuta del re­gno di Dio. Annunciavano una guarigione più radicale: la vittoria sul peccato e sulla morte attraverso la sua pasqua. Sulla croce, Cristo ha preso su di sé tutto il peso del male e ha tolto il «peccato del mon­do» (Gv 1,29), di cui la malattia non è che una conseguenza. Con la sua passione e la sua morte sulla croce, Cristo ha dato un senso nuovo alla sofferenza: essa può ormai configurarci a lui e unirci alla sua pas­sione redentrice.

«GUARITE GLI INFERMI…»

1506 - Cristo invita i suoi discepoli a seguirlo prendendo anch'essi la loro croce. Seguendolo, assumono un nuovo modo di vedere la malat­tia e i malati. Gesù li associa alla sua vita di povertà e di servizio. Li rende partecipi del suo ministero di compassione e di guarigione: «E partiti, predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demo­ni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano» (Mc 6,12-13).

1507 - Il Signore risorto rinnova questo invio («Nel mio nome (…) im­porranno le mani ai malati e questi guariranno»: Mc 16,17-18) e lo conferma per mezzo dei segni che la Chiesa compie invocando il suo nome. Questi segni manifestano in modo speciale che Gesù è veramente «Dio che salva».

1508 - Lo Spirito Santo dona ad alcuni un carisma speciale di guarigio­ne per manifestare la forza della grazia del Risorto. Tuttavia, neppure le preghiere più intense ottengono la guarigione di tutte le malattie. Co­sì san Paolo deve imparare dal Signore: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12,9), e che le sofferenze da sopportare possono avere questo significato: «Io completo ella mia carne ciò che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).

1509 - «Guarite gli infermi!» (Mt 10,8). La Chiesa ha ricevuto questo compito dal Signore e cerca di attuarlo sia attraverso le cure che presta ai malati sia mediante la preghiera di intercessione con la quale li ac­compagna. Essa crede nella presenza vivificante di Cristo, medico delle anime e dei corpi. Questa presenza è particolarmente operante nei sacramenti e in modo tutto speciale nell'Eucaristia, pane che dà la vita eterna e al cui legame con la salute del corpo san Paolo allude.

1510 - La Chiesa apostolica conosce tuttavia un rito specifico in favore degli infermi, attestato da san Giacomo: «Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (Gc 5,14-I 5). La Tradizione ha riconosciuto in questo rito uno dei sette sacramenti della Chiesa.

UN SACRAMENTO DEGLI INFERMI

1511 - La Chiesa crede e professa che esiste, tra i sette sacramenti, un sacramento destinato in modo speciale a confortare coloro che sono provati dalla malattia: l'Unzione degli infermi: «Questa Unzione sacra dei malati è stata istituita come vero e proprio sacramento del Nuovo Testamento dal Signore nostro Gesù Cristo. Ac­cennato da Marco, è stato raccomandato ai fedeli e promulgato da Giacomo, apostolo e fratello del Signore».

1512 - Nella tradizione liturgica, tanto in Oriente quanto in Occidente, si hanno fin dall'antichità testimonianze di unzioni di infermi praticate con olio benedet­to. Nel corso - dei secoli, l'Unzione degli infermi è stata conferita sempre più esclusivamente a coloro che erano in punto di morte. Per questo motivo aveva ricevuto il nome di «Estrema Unzione». Malgrado questa evoluzione, la litur­gia non ha mai tralasciato di pregare il Signore affinché il malato riacquisti la salute, se ciò può giovare alla sua salvezza.

1513 - La Costituzione apostolica «Sacram Unctionem infirmorum» (30 novembre 1972), in linea con il Concilio Vaticano ha stabilito che, per l'avvenire, sia osservato nel rito romano quanto segue: «Il sacramento dell'Unzione degli infermi viene conferito ai malati in grave pericolo ungendoli sulla fronte e sulle mani con olio debitamente benedetto olio di oliva o altro olio vegetale dicendo una sola volta: “Per questa santa Unzione e per la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito Santo e, liberandoti dai peccati, ti salvi e nella sua bontà ti sollevi».

II. Chi riceve e chi amministra questo sacramento?

IN CASO DI MALATTIA GRAVE...

1514 - L'Unzione degli infermi «non è il sacramento soltanto di coloro che sono in fin di vita. Perciò il tempo opportuno per riceverla si ha certamente già quando il fedele, per malattia o per vecchiaia, incomin­cia ad essere in pericolo di morte».

1515 - Se un malato che ha ricevuto l'Unzione riacquista la salute, può, in caso di un'altra grave malattia, ricevere nuovamente questo sacra­mento. Nel corso della stessa malattia il sacramento può essere ripetuto se si verifica un peggioramento. È opportuno ricevere l'Unzione degli infermi prima di un intervento chirurgico rischioso. Lo stesso vale per le persone anziane la cui debolezza si accentua.

«…CHIAMI A SÉ I PRESBITERI DELLA CHIESA»

1516 - Soltanto i sacerdoti (Vescovi e presbiteri) sono i ministri dell'Un­zione degli infermi. È dovere dei Pastori istruire i fedeli sui benefici di questo sacramento. I fedeli incoraggino i malati a ricorrere al sacerdote per ricevere tale sacramento. I malati si preparino a riceverlo con buo­ne disposizioni, aiutati dal loro Pastore e da tutta la comunità ecclesia­le, che è invitata a circondare in modo tutto speciale i malati con le sue preghiere e le sue attenzioni fraterne

III. Come si celebra questo sacramento?

1517 - Come tutti i sacramenti, l'Unzione degli infermi è una celebrazione liturgica e comunitaria, sia che abbia luogo in famiglia, all'ospe­dale o in chiesa, per un solo malato o per un gruppo di infermi. E’ molto opportuno che sia celebrata durante l'Eucaristia, memoriale della pasqua del Signore. Se le circostanze lo consigliano, la celebrazione del sacramento può essere preceduta dal sacramento della Penitenza e se­guita da quello dell'Eucaristia. In quanto sacramento della pasqua di Cristo, l'Eucaristia dovrebbe sempre essere l'ultimo sacramento del pellegrinaggio terreno, il «viatico» per il «passaggio» alla vita eterna.

1518 - Parola e sacramento costituiscono un tutto inseparabile. La litur­gia della Parola, preceduta da un atto penitenziale, apre la celebrazione. Le parole di Cristo, la testimonianza degli Apostoli ravvivano la fede del malato e della comunità per chiedere al Signore la forza del suo Spirito.

1519 - La celebrazione del sacramento comprende principalmente i se­guenti elementi: «i presbiteri della Chiesa» impongono - in silen­zio - le mani ai malati; pregano sui malati nella fede della Chiesa: l'epiclesi propria di questo sacramento; quindi fanno l'unzione con l'olio, benedetto, possibilmente, dal Vescovo. Queste azioni liturgiche indicano quale grazia tale sacramento con­ferisce ai malati.

IV. Gli effetti della celebrazione di questo sacramento.

1520 - Un dono particolare dello Spirito Santo. La grazia fondamentale di questo sacramento è una grazia di conforto, di pace e di coraggio per superare le difficoltà proprie dello stato di malattia grave o della fragilità della vecchiaia. Questa grazia è un dono dello Spirito Santo che rinnova la fiducia e la fede in Dio e fortifica contro le tentazioni del maligno, cioè contro la tentazione di scoraggiamento e di angoscia di fronte alla morte. Questa assistenza del Signore attraverso la forza del suo Spirito vuole portare il malato alla guarigione dell'anima, ma anche a quella del corpo, se tale è la volontà di Dio. Inoltre, «se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (Gc 5,15).

1521 - L'unione alla passione di Cristo. Per la grazia di questo sacramen­to il malato riceve la forza e il dono di unirsi più intimamente alla pas­sione di Cristo: egli viene in certo qual modo consacrato per portare frutto mediante la configurazione alla passione redentrice del Salvatore. La sofferenza, conseguenza del peccato originale, riceve un senso nuo­vo: diviene partecipazione all'opera salvifica di Gesù.

1522 - Una grazia ecclesiale. I malati che ricevono questo sacramento, unendosi «spontaneamente alla passione e alla morte di Cristo», con­tribuiscono «al bene del popolo di Dio». Celebrando questo sacra­mento, la Chiesa, nella comunione dei santi, intercede per il bene del malato. E l'infermo, a sua volta, per la grazia di questo sacramento, contribuisce alla santificazione della Chiesa e al bene di tutti gli uomini per i quali la Chiesa soffre e si offre, per mezzo di Cristo, a Dio Padre.

1523 - Una preparazione all'ultimo passaggio. Se il sacramento dell'Un­zione degli infermi è conferito a tutti coloro che soffrono di malattie e di infermità gravi, a maggior ragione è dato a coloro che stanno per uscire da questa vita («in exitu vitae constituti»), per cui lo si è anche chiamato «sacramentum exeuntium». L'Unzione degli infermi porta a compimento la nostra conformazione alla morte e alla risurrezione di Cristo, iniziata dal Battesimo. Essa completa le sante unzioni che segna­no tutta la vita cristiana; quella del Battesimo aveva suggellato in noi la vita nuova; quella della Confermazione ci aveva fortificati per il combattimento di questa vita. Quest'ultima unzione munisce la fine della nostra esistenza terrena come di un solido baluardo in vista delle ultime lotte prima dell'ingresso nella Casa del Padre

. V. Il viatico, ultimo sacramento del cristiano

1524 - A coloro che stanno per lasciare questa vita, la Chiesa offre, ol­tre all'Unzione degli infermi, l'Eucaristia come viatico. Ricevuta in que­sto momento di passaggio al Padre, la comunione al Corpo e al Sangue di Cristo ha un significato e un'importanza particolari. E seme di vita eterna e potenza di risurrezione, secondo le parole del Signore: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno» (Gv 6,54). Sacramento di Cristo morto e risorto, l'Eucaristia è, qui, sacramento del passaggio dalla morte alla vita, da questo mondo al Padre.

1525 - Come i sacramenti del Battesimo, della Confermazione e dell'Eu­caristia costituiscono una unità chiamata «i sacramenti dell'iniziazione cristiana», così si può dire che la Penitenza, la santa Unzione e l'Euca­ristia, in quanto viatico, costituiscono, al termine della vita cristiana, «i sacramenti che preparano alla Patria» o i sacramenti che concludono il pellegrinaggio terreno.

In sintesi

1526 - «Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la pre­ghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (Gc 5,14-15).

1527 - Il sacramento dell'Unzione degli infermi ha lo scopo di conferire una grazia speciale al cristiano che sperimenta le difficoltà inerenti allo stato di malattia grave o alla vecchiaia.

1528 - Il momento opportuno per ricevere la santa Unzione è certamente quello in cui il fedele comincia a trovarsi in pericolo di morte per malattia o vecchiaia.

1529 - Ogni volta che un cristiano cade gravemente malato, può ricevere la santa Unzione, come pure quando, dopo averla giù ricevuta, si veri­fica un aggravarsi della malattia.

1530 - Soltanto i sacerdoti (presbiteri e Vescovi) possono amministrare il sacramento dell'Unzione degli infermi; per conferirlo usano olio benedetto dal Vescovo o, all'occorrenza, dallo stesso presbitero cele­brante.

1531 - L'essenziale della celebrazione di questo sacramento consiste nell'un­zione sulla fronte e sulle mani del malato (nel rito romano) o su altre parti del corpo (in Oriente), unzione accompagnata dalla preghiera liturgica del sacerdote celebrante che implora la grazia speciale di questo sacramento.

1532 - La grazia speciale del sacramento dell'Unzione degli infermi ha come effetti: l'unione del malato alla passione di Cristo, per il suo bene e per quello di tutta la Chiesa; il conforto, la pace e il coraggio per sopportare cristianamente le sofferenze della malattia o della vecchiaia; il perdono dei peccati, se il malato non ha potuto ottenerlo con il sacramento della Penitenza; il recupero della salute, se ciò giova alla salvezza spirituale; la preparazione al passaggio alla vita eterna.

CAPITOLO TERZO

I SACRAMENTI AL SERVIZIO DELLA COMUNIONE

1533 - Il Battesimo, la Confermazione e l'Eucaristia sono i sacramenti dell'iniziazione cristiana. Essi fondano la vocazione comune di tutti i di­scepoli di Cristo, vocazione alla santità e alla missione di evangelizzare il mondo. Conferiscono le grazie necessarie per vivere secondo lo Spiri­to in questa vita di pellegrini in cammino verso la patria.

1534 - Due altri sacramenti, l'Ordine e il Matrimonio, sono ordinati al­la salvezza altrui. Se contribuiscono anche alla salvezza personale, que­sto avviene attraverso il servizio degli altri. Essi conferiscono una mis­sione particolare nella Chiesa e servono all'edificazione del popolo di Dio.

1535 - In questi sacramenti, coloro che sono già stati consacrati me­diante il Battesimo e la Confermazione per il sacerdozio comune di tut­ti i fedeli, possono ricevere consacrazioni particolari. Coloro che ricevo­no il sacramento dell'Ordine sono consacrati per essere «posti, in nome di Cristo, a pascere la Chiesa con la parola e la grazia di Dio». Da parte loro, «i coniugi cristiani sono corroborati e come consacrati da uno speciale sacramento per i doveri e la dignità del loro stato».

Articolo 6

IL SACRAMENTO DELL'ORDINE

1536 - L'Ordine è il sacramento grazie al quale la missione affidata da Cristo ai suoi Apostoli continua ad essere esercitata nella Chiesa sino alla fine dei tempi: è, dunque, il sacramento del ministero apostolico. Comporta tre gradi: l'Episcopato, il presbiterato e il diaconato. (Qui si tratta soltanto della via sacramentale attraverso la quale tale ministero viene trasmesso.)

I. Perché il nome di sacramento dell'Ordine?

1537 - La parola Ordine, nell'antichità romana, designava corpi costitui­ti in senso civile, soprattutto il corpo di coloro che governano. «Ordi­natio» - ordinazione - indica l'integrazione in un «ordo» - ordine -. Nella Chiesa ci sono corpi costituiti che la Tradizione, non senza fon­damenti scritturistici, chiama sin dai tempi antichi con il nome di (…) (in greco), di ordines: così la liturgia parla dell'«ordo Episcopo­rum» - ordine dei Vescovi - dell'«ordo presbyterorum» - ordine dei presbileri - dell'«ordo diaconorum» - ordine dei diaconi. Anche altri gruppi ricevono questo nome di «ordo»: i catecumeni, le vergini, gli sposi, le vedove...

1538 - L'integrazione in uno di questi corpi ecclesiali avveniva con un rito chiamato ordinatio, atto religioso e liturgico che consisteva in una consacrazione, una benedizione o un sacramento. Oggi la parola «ordi­natio» è riservata all'atto sacramentale che integra nell'ordine dei Ve­scovi, dei presbiteri e dei diaconi e che va al di là di una semplice elezione, designazione, delega o istituzione da parte della comunità, poiché conferisce un dono dello Spirito Santo che permette di esercitare una potestà sacra («sacra potestas»), la quale non può venire che da Cri­sto stesso, mediante la sua Chiesa. L'ordinazione è chiamata anche «consecratio» - consacrazione - poiché è una separazione e una investi­tura da parte di Cristo stesso, per la sua Chiesa. L'imposizione delle mani del Vescovo, insieme con la preghiera consacratoria, costituisce il segno visibile di tale consacrazione.

Il. Il sacramento dell'Ordine nell'Economia della salvezza.

IL SACERDOZIO DELL'ANTICA ALLEANZA

1539 - Il popolo eletto fu costituito da Dio come «un regno di sacerdo­ti e una nazione santa» (Es 19,6). Ma, all'interno del popolo di Israe­le, Dio scelse una delle dodici tribù, quella di Levi, riservandola per il servizio liturgico; Dio stesso è la sua parte di eredità. Un rito pro­prio ha consacrato le origini del sacerdozio dell'Antica Alleanza. In essa i sacerdoti sono costituiti «per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati».

1540 - Istituito per annunciare la parola di Dio e per ristabilire la comunione con Dio mediante i sacrifici e la preghiera, tale sacerdozio resta tuttavia impotente a operare la salvezza, avendo bisogno di offrire continuamente sacrifici e non potendo portare ad una santificazione definitiva, che soltanto il sacrificio di Cristo avrebbe operato.

1541 - La liturgia della Chiesa vede tuttavia nel sacerdozio di Aronne e nel servizio dei leviti, come pure nell'istituzione dei settanta «Anzia­ni», prefigurazioni del ministero ordinato della Nuova Alleanza. Così, nel rito latino, la Chiesa si esprime nella preghiera consacratoria del­l'ordinazione dei Vescovi: «O Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, [...] con la parola di salvezza hai dato norme di vita nella tua Chiesa: tu, dal principio, hai eletto Abramo come padre dei giusti, hai costituito capi e sacerdoti per non lasciare mai senza ministero il tuo santuario...».

1542 - Nell'ordinazione dei sacerdoti, la Chiesa prega: «Signore, Padre santo, [...] nell'Antica Alleanza presero forma e figura vari uffici istituiti per il servizio liturgico. A Mosè e ad Aronne, da te prescelti per reggere e santificare il tuo popolo, associasti collaboratori che li seguivano nel grado e nella dignità. Nel cammino dell'esodo comunicasti a settanta uomini saggi e prudenti lo spirito di Mosé tuo ser­vo [...]. Tu rendesti partecipi i figli di Aronne della pienezza del loro padre».

1543 - E nella preghiera consacratoria per l'ordinazione dei diaconi, la Chiesa confessa: «Dio onnipotente, [...] tu hai formato la Chiesa [...]; hai disposto che mediante i tre gradi del ministero da te istituito cresca e si edifichi il nuovo tempio, come in antico scegliesti i figli di Levi a servizio del tabernacolo santo».

L'UNICO SACERDOZIO DI CRISTO

1544 - Tutte le prefigurazioni del sacerdozio dell'Antica Alleanza trova­no il loro compimento in Cristo Gesù, «unico [...] mediatore tra Dio e gli uomini» (1 Tm 2,5). Melchisedek, «sacerdote del Dio altissimo» (Gn 14,18), è considerato dalla Tradizione cristiana come una prefigura­zione del sacerdozio di Cristo, unico «sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek» (Eb 5,10; 6,20), «santo, innocente, senza macchia» (Eb 7,26), il quale «con un'unica oblazione [...] ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati» (Eb 10,14), cioè con l'unico sacrificio della sua croce.

1545 - Il sacrificio redentore di Cristo è unico, compiuto una volta per tutte. Tuttavia è reso presente nel sacrificio eucaristico della Chiesa. Lo stesso vale per l'unico sacerdozio di Cristo: esso è reso presente dal sa­cerdozio ministeriale senza che venga diminuita l'unicità del sacerdozio di Cristo. «Infatti solo Cristo è il vero Sacerdote, mentre gli altri sono i suoi ministri».

DUE PARTECIPAZIONI ALL'UNICO SACERDOZIO DI CRISTO

1546 - Cristo, Sommo Sacerdote e unico mediatore, ha fatto della Chie­sa un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre. Tutta la comunità dei credenti è, come tale, sacerdotale. I fedeli esercitano il loro sacerdozio battesimale attraverso la partecipazione, ciascuno secondo la vocazione sua propria, alla missione di Cristo, Sacerdote, Profeta e Re. È per mezzo dei sacramenti del Battesimo e della Confermazione che i fedeli «vengono consacrati a formare (…) un sacerdozio santo».

1547 - Il sacerdozio ministeriale o gerarchico dei Vescovi e dei sacerdoti e il sacerdozio comune di tutti i fedeli, anche se «l'uno e l'altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano all'unico sacerdozio di Cristo», differiscono tuttavia essenzialmente, pur essendo «ordinati l'uno all'al­tro». In che senso? Mentre il sacerdozio comune dei fedeli si realizza nello sviluppo della grazia battesimale vita di fede, di speranza e di carità, vita secondo lo Spirito, il sacerdozio ministeriale è al servizio del sacerdozio comune, è relativo allo sviluppo della grazia battesimale di tutti i cristiani. È uno dei mezzi con i quali Cristo continua a co­struire e a guidare la sua Chiesa. Proprio per questo motivo viene tra­smesso mediante un sacramento specifico, il sacramento dell'Ordine.

IN PERSONA DI CRISTO CAPO…

1548 - Nel servizio ecclesiale del ministero ordinato è Cristo stesso che è presente alla sua Chiesa in quanto Capo del suo corpo, Pastore del suo gregge, Sommo Sacerdote del sacrificio redentore, Maestro di veri­tà. È ciò che la Chiesa esprime dicendo che il sacerdote, in virtù del sa­cramento dell'Ordine, agisce «in persona Christi Capitis» - in persona di Cristo Capo: «È il medesimo Sacerdote, Cristo Gesù, di cui realmente il ministro fa le veci. Costui se, in forza della consacrazione sacerdotale che ha rice­vuto, è in verità assimilato al Sommo Sacerdote, gode della potestà di agire con la potenza dello stesso Cristo che rappresenta (“virtute ac persona ipsius Christi”)». «Cristo è la fonte di Ogni sacerdozio: infatti il sacerdote della Leg­ge [antica] era figura di lui, mentre il sacerdote della nuova Legge agi­sce in persona di lui».

1549 - Attraverso il ministero ordinato, specialmente dei Vescovi e dei sacerdoti, la presenza di Cristo quale Capo della Chiesa è resa visibile in mezzo alla comunità dei credenti. Secondo la bella espressione di sant’Ignazio di Antiochia, il Vescovo è (…) come l'imma­gine vivente di Dio Padre.

1550 - Questa presenza di Cristo nel ministro non deve essere intesa co­me se costui fosse premunito contro ogni debolezza umana, lo spirito di dominio, gli errori, persino il peccato. La forza dello Spirito Santo non garantisce nello stesso modo tutti gli atti dei ministri. Mentre nell'am­ministrazione dei sacramenti viene data questa garanzia, così che nep­pure il peccato del ministro può impedire il frutto della grazia, esistono molti altri atti in cui l'impronta umana del ministro lascia tracce che non sono sempre segno della fedeltà al Vangelo e che di conseguenza possono nuocere alla fecondità apostolica della Chiesa.

1551 - Questo sacerdozio è ministeriale. «Questo ufficio che il Signore ha affidato ai Pastori del suo popolo è un vero servizio». Esso è inte­ramente riferito a Cristo e agli uomini. Dipende interamente da Cristo e dal suo unico sacerdozio ed è stato istituito in favore degli uomini e della comunità della Chiesa. Il sacramento dell'Ordine comunica «una potestà sacra», che è precisamente quella di Cristo. L'esercizio di tale autorità deve dunque misurarsi sul modello di Cristo, che per amore è fatto l'ultimo e il servo di tutti. «Il Signore ha esplicitamente detto che la sollecitudine per il suo gregge era una prova di amore verso di lui».

«A NOME DI TUTTA LA CHIESA»

1552 - Il sacerdozio ministeriale non ha solamente il compito di rappre­sentare Cristo - Capo della Chiesa - di fronte all'assemblea dei fedeli; esso agisce anche a nome di tutta la Chiesa allorché presenta a Dio la preghiera della Chiesa e soprattutto quando offre il sacrificio eucari­stico.

1553 - «A nome di tutta la Chiesa». Ciò non significa che i sacerdoti siano i delegati della comunità. La preghiera e l'offerta della Chiesa sono inseparabili dalla preghiera e dall'offerta di Cristo, suo Capo. È sempre il culto di Cristo nella sua Chiesa e per mezzo di essa. È tutta la Chiesa, corpo di Cristo, che prega e si offre, «per ipsum et cum ipso et in ipso» - per lui, con lui e in lui nell'unità dello Spirito Santo, a Dio Padre. Tutto il corpo, «Caput et membra» - Capo e membra - prega e si offre; per questo coloro che, nel corpo, sono suoi ministri in senso proprio, vengono chiamati ministri non solo di Cristo, ma anche della Chiesa. Proprio perché rappresenta Cristo, il sacerdozio ministe­riale può rappresentare la Chiesa

III. I tre gradi del sacramento dell'Ordine.

1554 - «Il ministero ecclesiastico di istituzione divina viene esercitato in diversi ordini da quelli che già anticamente sono chiamati Vescovi, pre­sbiteri, diaconi». La dottrina cattolica, espressa nella liturgia, nel Ma­gistero e nella pratica costante della Chiesa, riconosce che esistono due gradi di partecipazione ministeriale al sacerdozio di Cristo: l'Episcopato e il presbiterato. Il diaconato è finalizzato al loro aiuto e al loro servi­zio. Per questo il termine «sacerdos» - sacerdote - designa, nell'uso at­tuale, i Vescovi e i presbiteri, ma non i diaconi. Tuttavia, la dottrina cattolica insegna che i gradi di partecipazione sacerdotale (Episcopato e presbiterato) e il grado di servizio (diaconato) sono tutti e tre conferiti da un atto sacramentale chiamato «ordinazione», cioè dal sacramento dell'Ordine: «Tutti rispettino i diaconi come lo stesso Gesù Cristo, e il Vescovo come l'immagine del Padre, e i presbiteri come senato di Dio e come collegio apostolico: senza di loro non c'è Chiesa».

L'ORDINAZIONE EPISCOPALE PIENEZZA DEL SACRAMENTO DELL'ORDINE 1555 - «Fra i vari ministeri che fin dai primi tempi si esercitano nella Chiesa, secondo la testimonianza della tradizione, tiene il primo posto l'ufficio di quelli che, costituiti nell'Episcopato, per successione che risale all'origine, possiedono i tralci del seme apostolico».

1556 - Per adempiere alla loro alta missione, «gli Apostoli sono stati arricchiti da Cristo con una speciale effusione dello Spirito Santo discendente su loro, ed essi stessi, con l'imposizione delle mani, hanno trasmesso questo dono dello Spirito ai loro collaboratori, dono che è stato trasmesso fino a noi nella consacrazione episcopale. 1557 - Il Concilio Vaticano Il insegna che «con la consacrazione epi­scopale viene conferita la pienezza del sacramento dell'Ordine, quella cioè che dalla consuetudine liturgica della Chiesa e dalla voce dei santi Pa­dri viene chiamata sommo sacerdozio, vertice [“summa”] del sacro mini­stero».

1558 - «La consacrazione episcopale conferisce pure, con l'ufficio di santificare, gli uffici di insegnare e di governare [...]. Infatti (…) con l'imposizione delle mani e con le parole della consacrazione la grazia dello Spirito Santo viene conferita e viene impresso un sacro carattere, in maniera che i Vescovi, in modo eminente e visibile, sostengano le parti dello stesso Cristo Maestro, Pastore e Pontefice, e agiscano in sua persona [“in Eius persona agant”] «Perciò i Vescovi, per virtù dello Spirito Santo, che loro è stato dato, sono divenuti veri e autentici Mae­stri della fede, Pontefici e Pastori».

1559 - «Uno viene costituito membro del Corpo episcopale in virtù del­la consacrazione episcopale e mediante la comunione gerarchica col ca­po del Collegio e con i membri. Il carattere e la natura collegiale del­l'ordine episcopale si manifestano, tra l'altro, nell'antica prassi della Chiesa che per la consacrazione di un nuovo Vescovo vuole la parteci­pazione di più Vescovi. Per l'ordinazione legittima di un Vescovo, oggi è richiesto un intervento speciale del Vescovo di Roma, per il fatto che egli è il supremo vincolo visibile della comunione delle Chiese particola­ri nell'unica Chiesa e il garante della loro libertà.

1560 - Ogni Vescovo ha, quale vicario di Cristo, l'ufficio pastorale della Chiesa particolare che gli è stata affidata, ma nello stesso tempo porta collegialmente con tutti i fratelli nell'Episcopato la sollecitudine per tutte le Chiese: «Se ogni Vescovo è propriamente Pastore soltanto della porzione del gregge affidata alle sue cure, la sua qualità di legittimo successore degli Apostoli, per istituzione divina, lo rende solidalmente responsabile della missione apostolica della Chiesa».

1561 - Quanto è stato detto Spiega perché l'Eucaristia celebrata dal Vescovo ha un significato tutto speciale come espressione della Chiesa riunita attorno all'altare sotto la presidenza di colui che rappresenta visibilmente Cristo, Buon Pastore e Capo della sua Chiesa.

L'ORDINAZIONE DEI PRESBITERI COOPERATORI DEI VESCOVI

1562 - «Cristo, consacrato e mandato nel mondo dal Padre, per mezzo dei suoi Apostoli ha reso partecipi della sua consacrazione e della sua missione i loro successori, cioè i Vescovi, i quali hanno legittimamente affidato, secondo diversi gradi, l'ufficio del loro ministero a vari sogget­ti nella Chiesa. «La [loro] funzione ministeriale fu trasmessa in gra­do subordinato ai presbiteri, affinché questi, costituiti nell'ordine del presbiterato, fossero cooperatori dell'ordine episcopale, per il retto assol­vimento della missione apostolica affidata da Cristo.

1563 - «La funzione dei presbiteri, in quanto strettamente unita all'ordine episcopale, partecipa dell'autorità con la quale Cristo stesso fa crescere, santifica e governa il proprio corpo. Per questo motivo, il sacerdozio dei presbiteri, pur presupponendo i sacramenti dell'inizia­zione cristiana, viene conferito da quel particolare sacramento per il quale i presbiteri, in virtù dell'unzione dello Spirito Santo, sono segnati da uno speciale carattere che si configura a Cristo Sacerdote, in modo da poter agire in nome e nella persona di Cristo Capo».

1564 - «I presbiteri, pur non possedendo il vertice del sacerdozio e dipendendo dai Vescovi nell'esercizio della loro potestà, sono tuttavia a loro uniti nell'onore sacerdotale e in virtù del sacramento dell'Ordine, a immagine di Cristo, Sommo ed eterno Sacerdote, sono consacrati per predicare il Vangelo, pascere i fedeli e celebrare il culto divino, quali veri sacerdoti del Nuovo Testamento.

1565 - In virtù del sacramento dell'Ordine i sacerdoti partecipano alla dimensione universale della missione affidata da Cristo agli Apostoli. Il dono spirituale che hanno ricevuto nell'ordinazione non li prepara ad una missione limitata e ristretta, bensì a una vastissima e universale missione di salvezza, «fino agli ultimi confini della terra» (At 1,8) «pronti nel loro animo a predicare dovunque il Vangelo.

1566 - Essi «soprattutto esercitano la loro funzione sacra nel culto o assemblea eucaristica, dove, agendo in persona di Cristo, e proclamando il suo mistero, uniscono i voti dei fedeli al sacrificio del loro Capo e nel sacrificio della Messa rendono presente e applicano, fino alla venu­ta del Signore, l'unico sacrificio del Nuovo Testamento, il sacrificio cioè di Cristo, che una volta per tutte si offre al Padre quale vittima immacolata». Da questo unico sacrificio tutto il loro ministero sacer­dotale trae la sua forza.

1567 - «I presbiteri, saggi collaboratori dell'ordine episcopale e suo aiu­to e strumento, chiamati al servizio del popolo di Dio, costituiscono col loro Vescovo un unico presbiterio, sebbene destinato a uffici diversi. Nelle singole comunità locali di fedeli rendono, per così dire, presente il Vescovo, cui sono uniti con animo fiducioso e grande, condividono in parte le sue funzioni e la sua sollecitudine e le esercitano con dedizione quotidiana». I sacerdoti non possono esercitare il loro ministero se non in dipendenza dal Vescovo e in comunione con lui. La promessa di obbedienza che fanno al Vescovo al momento dell'ordinazione e il ba­cio di pace del Vescovo al termine della liturgia dell'ordinazione signifi­cano che il Vescovo li considera come suoi collaboratori, suoi figli, suoi fratelli e suoi amici, e che, in cambio, essi gli devono amore e obbedienza.

1568 - «I presbiteri, costituiti nell'ordine del presbiterato mediante l'or­dinazione, sono tutti tra loro uniti da intima fraternità sacramentale; ma in modo speciale essi formano un unico presbiterio nella diocesi al cui servizio sono assegnati sotto il proprio Vescovo». L'unità del pre­sbiterio trova un'espressione liturgica nella consuetudine secondo la quale, durante il rito dell'ordinazione, i presbiteri, dopo il Vescovo, im­pongono anch'essi le mani.

L'ORDINAZIONE DEI DIACONI «PER IL SERVIZIO»

1569 - «In un grado inferiore della gerarchia stanno i diaconi, ai quali sono imposte le mani «”non per il sacerdozio, ma per il servizio”». Per l'ordinazione al diaconato soltanto il Vescovo impone le mani, signifi­cando cosi che il diacono è legato in modo speciale al Vescovo nei compiti della sua «diaconia».

1570 - I diaconi partecipano in una maniera particolare alla missione e alla grazia di Cristo. Il sacramento dell'Ordine imprime in loro un sigillo («carattere») che nulla può cancellare e che li configura a Cristo, il quale si è fatto «diacono», cioè servo di tutti. Compete ai diaconi, tra l'altro, assistere il Vescovo e i presbiteri nella celebrazione dei divini misteri, Soprattutto dell'Eucaristia, distribuirla, assistere e benedire il Matrimonio, proclamare il Vangelo e predicare, presiedere ai funerali e dedicarsi ai vari servizi della carità.

1571 - Dopo il Concilio Vaticano li la Chiesa latina ha ripristinato il diaconato «come un grado proprio e permanente della gerarchia mentre le Chiese d'Oriente lo avevano sempre conservato. Il diaconato permanente, che può essere conferito a uomini sposati, costituisce un importante arricchimento per la mis­sione della Chiesa. In realtà, è conveniente e utile che gli uomini che nella Chiesa adempiono un ministero veramente diaconale, sia nella vita liturgica e pastorale, sia nelle opere sociali e caritative «siano fortificati per mezzo dell'im­posizione delle mani, trasmessa dal tempo degli Apostoli, e siano più strettamente uniti all'altare, per poter esplicare più fruttuosamente il loro ministero con l'aiuto della grazia sacramentale del diaconato»

IV. La celebrazione di questo sacramento.

1572 - La celebrazione dell'ordinazione di un Vescovo, di presbiteri o di diaconi, data la sua importanza per la vita della Chiesa particolare, ri­chiede il concorso del maggior numero possibile di fedeli. Avrà luogo preferibilmente la domenica e nella cattedrale, con quella solennità che si addice alla circostanza. Le tre ordinazioni, del Vescovo, del presbite­ro, e del diacono, hanno la medesima configurazione. Il loro posto è in seno alla liturgia eucaristica.

1573 - Il rito essenziale del sacramento dell'Ordine è costituito, per i tre gradi, dall'imposizione delle mani, da parte del Vescovo, sul capo dell'ordinando come pure dalla specifica preghiera consacratoria che domanda a Dio l'effusione dello Spirito Santo e dei suoi doni adatti al ministero per il quale il candidato viene ordinato.

1574 - Come in tutti i sacramenti, accompagnano la celebrazione alcuni riti an­nessi. Pur variando notevolmente nelle diverse tradizioni liturgiche, essi hanno in comune la proprietà di esprimere i molteplici aspetti della grazia sacramenta­le. Cosi, nel rito latino, i riti di introduzione la presentazione e l'elezione del­l'ordinando, l'omelia del Vescovo, l'interrogazione dell'ordinando, le litanie dei santi - attestano che la scelta del candidato é stata fatta in conformità alla prassi della Chiesa e preparano l'atto solenne della consacrazione. A questa fanno seguito altri riti che esprimono e completano in maniera simbolica il mi­siero che si è compiuto: per il Vescovo e il presbitero l'unzione del santo cri­sma, segno dell'unzione speciale dello Spirito Santo che rende fecondo il loro ministero; la consegna del libro dei Vangeli, dell'anello, della mitra e del pasto­rale al Vescovo, come segno della sua missione apostolica di annunziare la Pa­rola di Dio, della sua fedeltà alla Chiesa, Sposa di Cristo, del suo compito di Pastore del gregge del Signore; la consegna, al sacerdote, della patena e del ca­lice, l'offerta del popolo santo, che egli è chiamato a presentare a Dio; la con­segna del libro dei Vangeli al diacono, che ha ricevuto la missione di annunzia-re il Vangelo di Cristo.

V. Chi può conferire questo sacramento?

1575 - È Cristo che ha scelto gli Apostoli e li ha resi partecipi della sua missione e della sua autorità. Innalzato alla destra del Padre, non abban­dona il suo gregge, ma lo custodisce e lo protegge sempre per mezzo degli Apostoli e ancora lo conduce sotto la guida di quegli stessi Pastori che continuano oggi la sua opera. È dunque Cristo che stabilisce alcuni come Apostoli, altri come Pastori. Egli continua ad agire per mezzo dei Vescovi.

1576 - Poiché il sacramento dell'Ordine è il sacramento del ministero apostolico, spetta ai Vescovi in quanto successori degli Apostoli tra­smettere «questo dono dello Spirito» «il seme apostolico». I Vesco­vi validamente ordinati, che sono cioè nella linea della successione apo­stolica, conferiscono validamente i tre gradi del sacramento dell'Ordine.

VI. Chi può ricevere questo sacramento?

1577 - «Riceve validamente la sacra ordinazione esclusivamente il battezza­to di sesso maschile ["vir"]». Il Signore Gesù ha scelto uomini ["viri"] per formare il collegio dei dodici Apostoli, e gli Apostoli hanno fatto lo stesso quando hanno scelto i collaboratori che sarebbero loro succeduti nel ministero. Il collegio dei Vescovi, con i quali i presbiteri sono uniti nel sacerdozio, rende presente e attualizza fino al ritorno di Cristo il colle­gio dei Dodici. La Chiesa si riconosce vincolata da questa scelta fatta dal Signore stesso. Per questo motivo l'ordinazione delle donne non è possibile.

1578 - Nessuno ha un diritto a ricevere il sacramento dell'Ordine. Infatti nessuno può attribuire a se stesso questo ufficio. Ad esso si è chiamati da Dio. Chi crede di riconoscere i segni della chiamata di Dio al mini­stero ordinato, deve sottomettere umilmente il proprio desiderio all'au­torità della Chiesa, alla quale spetta la responsabilità e il diritto di chiamare qualcuno a ricevere gli Ordini. Come ogni grazia, questo sa­cramento non può essere ricevuto che come dono immeritato.

1579 - Tutti i ministri ordinati della Chiesa latina, ad eccezione dei dia­coni permanenti, sono normalmente scelti fra gli uomini credenti che vi­vono da celibi e che intendono conservare il celibato «per il regno dei cieli» (Mt 19,12). Chiamati a consacrarsi con cuore indiviso al Signore e alle «sue cose», essi si donano interamente a Dio e agli uomini. Il celibato è un segno di questa vita nuova al cui servizio il ministro della Chiesa viene consacrato; abbracciato con cuore gioioso, esso annuncia in modo radioso il regno di Dio.

1580 - Nelle Chiese Orientali, da secoli, è in vigore una disciplina diver­sa: mentre i Vescovi sono scelti unicamente fra coloro che vivono nel celibato, uomini sposati possono essere ordinati diaconi e presbiteri. Tale prassi è da molto tempo considerata come legittima; questi presbi­teri esercitano un ministero fruttuoso in seno alle loro comunità. al­tro canto il celibato dei presbiteri è in grande onore nelle Chiese Orien­tali, e numerosi sono i presbiteri che l'hanno scelto liberamente, per il regno di Dio. In Oriente come in Occidente, chi ha ricevuto il sacra­mento dell'Ordine non può più sposarsi

VII. Gli effetti del sacramento dell'Ordine.

IL CARATTERE INDELEBILE

1581 - Questo sacramento configura a Cristo in forza di una grazia spe­ciale dello Spirito Santo, allo scopo di servire da strumento di Cristo per la sua Chiesa. Per mezzo dell'ordinazione si viene abilitati ad agire come rappresentanti di Cristo, Capo della Chiesa, nella sua triplice fun­zione di sacerdote, profeta e re.

1582 - Come nel caso del Battesimo e della Confermazione, questa par­tecipazione alla funzione di Cristo è accordata una volta per tutte. Il sacramento dell'Ordine conferisce, anch'esso, un carattere spirituale inde­lebile e non può essere ripetuto né essere conferito per un tempo limitato.

1583 - Un soggetto validamente ordinato può, certo, per gravi motivi, essere di­spensato dagli obblighi e dalle funzioni connessi all'ordinazione o gli può essere fatto divieto di esercitarli, ma non può più ridiventare laico in senso stretto, poiché il carattere impresso dall'ordinazione rimane per sempre. La vocazione e la missione ricevute nel giorno della sua ordinazione lo segnano in modo per­manente.

1584 - Poiché in definitiva è Cristo che agisce e opera la salvezza me­diante il ministro ordinato, l'indegnità di costui non impedisce a Cristo di agire. Sant'Agostino lo dice con forza: «Un ministro superbo va messo assieme al diavolo; ma non per questo viene contaminato il dono di Cristo, che attraverso di lui continua a fluire nella sua purezza e per mezzo di lui arriva limpido a fecondare la terra. [...] La virtù spirituale del sacramento é infatti come la luce: giunge pura a coloro che devono essere illuminati e, anche se deve pas­sare attraverso esseri immondi, non viene contaminata».

LA GRAZIA DELLO SPIRITO SANTO

1585 - La grazia dello Spirito Santo propria di questo sacramento con­siste in una configurazione a Cristo Sacerdote, Maestro e Pastore del quale l'ordinato è costituito ministro.

1586 - Per il Vescovo è innanzi tutto una grazia di fortezza («Il tuo Spirito che regge e guida»: Preghiera consacratoria del Vescovo nel rito latino: la grazia di guidare e di difendere con forza e prudenza la sua Chiesa come padre e pastore, con un amore gratuito verso tutti e una predilezione per i poveri, gli ammalati e i bisognosi. Questa grazia lo spinge ad annunciare a tutti il Vangelo, ad essere il modello del suo gregge, a precederlo sul cammino della santificazione identificandosi nell'Eucaristia con Cristo Sacerdote e Vittima, senza temere di dare la vita per le sue pecore: «Concedi, Padre che conosci i cuori, a questo servo che hai scelto per l'Episcopato, di pascere il tuo santo gregge e di esercitare in maniera ir­reprensibile e in tuo onore la massima dignità sacerdotale, servendoti notte e giorno; di rendere il tuo volto incessantemente propizio e di of­frirti i doni della tua santa Chiesa; di avere, in virtù dello spirito del sommo sacerdozio, il potere di rimettere i peccati secondo il tuo co­mando, di distribuire i compiti secondo la tua volontà e di sciogliere ogni legame in virtù del potere che hai dato agli Apostoli; di esserti ac­cetto per la sua mansuetudine e per la purezza del suo cuore, offrendoti un profumo soave per mezzo di Gesù Cristo tuo Figlio...».

1587 - Il dono spirituale conferito dall'ordinazione presbiterale è espres­so da questa preghiera propria del rito bizantino. Il Vescovo, imponen­do le mani, dice tra l'altro: «Signore, riempi di Spirito Santo colui che ti sei degnato di elevare alla dignità sacerdotale, affinché sia degno di stare irreprensibile davanti al tuo altare, di annunciare il Vangelo del tuo regno, di compiere il mini­stero della tua parola di verità, di offrirti doni e sacrifici spirituali, di rinnovare il tuo popolo mediante il lavacro della rigenerazione; in mo­do che egli stesso vada incontro al nostro grande Dio e Salvatore Gesù Cristo, tuo unico Figlio, nel giorno della sua seconda venuta, e riceva dalla tua immensa bontà la ricompensa di un fedele adempimento del suo ministero».

1588 - Quanto ai diaconi, «sostenuti dalla grazia sacramentale, servono il popolo di Dio nel ministero della liturgia, della parola e della carità, in comunione con il Vescovo e il suo presbiterio.

1589 - Dinanzi alla grandezza della grazia e dell'ufficio sacerdotali, i santi dottori hanno avvertito l'urgente appello alla conversione al fine di corrispondere con tutta la loro vita a colui di cui sono divenuti ministri mediante il sacramento. Così, san Gregorio Nazianzeno, giovanis­simo sacerdote, esclama: «Bisogna cominciare col purificare se stessi prima di purificare gli altri; bisogna essere istruiti per poter istruire; bisogna divenire luce per illu­minare, avvicinarsi a Dio per avvicinare a lui gli altri, essere santificati per santificare, condurre per mano e consigliare con intelligenza». So di chi siamo i ministri, a quale altezza ci troviamo e chi è colui verso il quale ci dirigiamo. Conosco la grandezza di Dio e la debolezza dell'uomo, ma anche la sua forza." «[Chi è dunque il sacerdote? È] il difensore della verità, che si eleva con gli angeli, glorifica con gli arcan­geli, fa salire sull'altare del cielo le vittime dei sacrifici, condivide il sacerdozio di Cristo, riplasma la creatura, restaura [in essa] l'immagine [di Dio], la ricrea per il mondo di lassù, e, per dire ciò che vi è di più sublime, è divinizzato e divinizza». Il santo Curato d'Ars: «È il sacerdote che continua l'opera di reden­zione sulla terra. [...] Se si comprendesse bene il sacerdote qui in terra, si morirebbe non di spavento, ma di amore». «Il sacerdozio è l'amore del cuore di Gesù».

In sintesi

1590 - San Paolo dice al suo discepolo Timoteo: «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani» (2 Tm 1,6), e: «Se uno aspira all'Episcopato, desidera un nobile lavoro» (1 Tm 3,1). A Tito diceva: «Per questo ti ho lasciato a Creta, per­ché regolassi ciò che rimane da fare e perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato» (Tt 1,5).

1591 - Tutta la Chiesa è un popolo sacerdotale. Grazie al battesimo, tutti i fedeli partecipano al sacerdozio di Cristo. Tale partecipazione si chiama «sacerdozio comune dei fedeli». Sulla sua base e al suo servizio esiste un 'altra partecipazione alla missione di Cristo: quella del ministero conferito dal sacramento dell'Ordine, la cui funzione e' di servire a nome e in persona di Cristo Capo in mezzo alla comunità.

1592 - Il sacerdozio ministeriale differisce essenzialmente dal sacerdozio co­mune dei fedeli poiché conferisce un potere sacro per il servizio dei fedeli. I ministri ordinati esercitano il loro servizio presso il popolo di Dio attraverso l'insegnamento (munus docenti), il culto divino (munus liturgicum) e il governo pastorale (munus regendi).

1593 - Fin dalle origini, il ministero ordinato è stato conferito ed esercitato in tre gradi: quello dei Vescovi, quello dei presbiteri e quello dei diaconi. I ministeri confériti dall'ordinazione sono insostituibili per la struttura organica della Chiesa: senza il Vescovo, i presbiteri e i diaconi, non si può parlare di Chiesa.

1594 - Il Vescovo riceve la pienezza del sacramento dell'Ordine che lo inse­risce nel Collegio episcopale e fa di lui il capo visibile della Chiesa particolare che gli è affidata. I Vescovi, in quanto successori degli Apostoli e membri del Collegio, hanno parte alla responsabilità apo­stolica e alla missione di tutta la Chiesa sotto l'autorità del Papa, Successore di san Pietro.

1595 - I presbiteri sono uniti ai Vescovi nella dignità sacerdotale e nello stesso tempo dipendono da essi nell'esercizio delle loro funzioni pa­storali; sono chiamati ad essere i saggi collaboratori dei Vescovi; riuniti attorno al loro Vescovo formano il «presbiterio», che insie­me con lui porta la responsabilità della Chiesa particolare. Essi ri­cevono dal Vescovo la responsabilità di una comunità parrocchiale o di una determinata funzione ecclesiale.

1596 - I diaconi sono ministri ordinati per gli incarichi di servizio della Chiesa; non ricevono il sacerdozio ministeriale, ma l'ordinazione conferisce loro funzioni importanti nel ministero della parola, del culto divino, del governo pastorale e del servizio della carità, compi­ti che devono assolvere sotto l'autorità pastorale del loro Vescovo.

1597 - Il sacramento dell'Ordine è conferito mediante l'imposizione delle mani seguita da una preghiera consacratoria solenne che chiede a Dio per l'ordinando le grazie dello Spirito Santo richieste per il suo ministero. L'ordinazione imprime un carattere sacramentale indelebile.

1598 - La Chiesa conferisce il sacramento dell'Ordine soltanto a uomini (viri) battezzati, le cui attitudini per l'esercizio del ministero sono state debitamente riconosciute. Spetta all'autorità della Chiesa la responsabilità e il diritto di chiamare qualcuno a ricevere gli ordini.

1599 - Nella Chiesa latina il sacramento dell'Ordine per il presbiterato è conferito normalmente solo a candidati disposti ad abbracciare libe­ramente il celibato e che manifestano pubblicamente la loro volontà di osservano per amore del regno di Dio e del servizio degli uomini.

1600 - Spetta ai Vescovi conferire il sacramento dell'Ordine nei tre gradi.

Articolo 7

IL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO

1601 - «Il patto matrimoniale con cui l'uomo e la donna stabiliscono tra loro la comunità di tutta la vita, per sua natura ordinata al bene dei coniugi e alla procreazione e educazione della prole, tra i battezzati è stato elevato da Cristo Signore alla dignità di sacramento

I. Il Matrimonio nel disegno di Dio.

1602 - La Sacra Scrittura si apre con la creazione dell'uomo e della donna ad immagine e somiglianza di Dio e si chiude con la visione delle «nozze dell'Agnello» (Ap l9,9). Da un capo all'altro la Scrittura parla del Matrimonio e del suo mistero, della sua istituzione e del senso che Dio gli ha dato, della sua origine e del suo fine, delle sue diverse realizzazioni lungo tutta la storia della salvezza, delle sue difficoltà deri­vate dal peccato e del suo rinnovamento «nel Signore» (1 Cor 7,39), nella Nuova Alleanza di Cristo e della Chiesa.

IL MATRIMONIO NELL'ORDINE DELLA CREAZIONE

1603 - «L'intima comunione di vita e di amore coniugale, fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è stabilita dal patto coniugale (…). Dio stesso è l'autore del matrimonio. La vocazione al matrimo­nio è iscritta nella natura stessa dell'uomo e della donna, quali sono usciti dalla mano del Creatore. Il matrimonio non è un'istituzione puramente umana, malgrado i numerosi mutamenti che ha potuto subire nel corso dei secoli, nelle varie culture, strutture sociali e attitudini spiritua­li. Queste diversità non devono far dimenticare i tratti comuni e perma­nenti. Sebbene la dignità di questa istituzione non traspaia ovunque con la stessa chiarezza, esiste tuttavia in tutte le culture un certo senso del­la grandezza dell'unione matrimoniale. «La salvezza della persona e della società umana e cristiana è strettamente connessa con una felice situazione della comunità coniugale e familiare».

1604 - Dio, che ha creato l'uomo per amore, lo ha anche chiamato al­l'amore, vocazione fondamentale e innata di ogni essere umano. Infatti l'uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio che «è amore» (1 Gv 4,8.16). Avendolo Dio creato uomo e donna, il loro reciproco amore di­venta un'immagine dell'amore assoluto e indefettibile con cui Dio ama l'uomo. E’ cosa buona, molto buona, agli occhi del Creatore. E questo amore che Dio benedice è destinato ad essere fecondo e a realizzarsi nel­l'opera comune della custodia della creazione: «Dio li benedisse e disse lo­ro: "Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela"» (Gn 1,28).

1605 - Che l'uomo e la donna siano creati l'uno per l'altro, lo afferma la Sacra Scrittura: «Non è bene che l'uomo sia solo» (Gn 2,18). La donna, «carne della sua carne», sua eguale, del tutto prossima a lui, gli è dona­ta da Dio come «aiuto», rappresentando così Dio dal quale viene il no­stro aiuto. «Per questo l'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne» (Gn 2,24). Che ciò significhi un'unità indefettibile delle loro due esistenze, il Signore stesso lo mostra ricordando quale sia stato, «da principio», il disegno del Creato­re: «Così che non sono più due, ma una carne sola» (Mt 19,6).

IL MATRIMONIO SOTTO IL REGIME DEL PECCATO

1606 - Ogni uomo fa l'esperienza del male, attorno a sé e in sé stesso. Questa esperienza si fa sentire anche nelle relazioni fra l'uomo e la donna. Da sempre la loro unione è stata minacciata dalla discordia, dallo spirito di dominio, dall'infedeltà, dalla gelosia e da conflitti che possono arrivare fino all'odio e alla rottura. Questo disordine può ma­nifestarsi in modo più o meno acuto, e può essere più o meno supera­to, secondo le culture, le epoche, gli individui, ma sembra proprio avere un carattere universale.

1607 - Secondo la fede, questo disordine che noi constatiamo con dolore, non deriva dalla natura dell'uomo e della donna, né dalla natura delle loro relazioni, ma dal peccato. Rottura con Dio, il primo peccato ha come prima conseguenza la rottura della comunione originale del­l'uomo e della donna. Le loro relazioni sono distorte da accuse recipro­che; la loro mutua attrattiva, dono proprio del Creatore, si cambia in rapporti di dominio e di bramosia; la splendida vocazione dell'uo­mo e della donna ad essere fecondi, a moltiplicarsi e a soggiogare la terra è gravata dai dolori del parto e dalle fatiche del lavoro.

1608 - Tuttavia, anche se gravemente sconvolto, l'ordine della creazione permane. Per guarire le ferite del peccato, l'uomo e la donna hanno bi­sogno dell'aiuto della grazia che Dio, nella sua infinita misericordia, non ha loro mai rifiutato. Senza questo aiuto l'uomo e la donna non possono giungere a realizzare l'unione delle loro vite, in vista della qua­le Dio li ha creati «da principio».

IL MATRIMONIO SOTTO LA PEDAGOGIA DELLA LEGGE

1609 - Nella sua misericordia, Dio non ha abbandonato l'uomo pecca­tore. Le sofferenze che derivano dal peccato, i dolori del parto, il la­voro «con il sudore del tuo volto» (Gn 3,19) costituiscono anche dei rimedi che attenuano i danni del peccato. Dopo la caduta, il matrimo­nio aiuta a vincere il ripiegamento su di sé, «l'egoismo», la ricerca del proprio piacere, e ad aprirsi all'altro, all'aiuto vicendevole, al dono di sé.

1610 - La coscienza morale riguardante l'unità e l'indissolubilità del matrimonio si è sviluppata sotto la pedagogia della Legge antica. La poligamia dei patriarchi e dei re non è ancora esplicitamente rifiutata. Tut­tavia, la Legge data a Mosè mira a proteggere la donna contro l'arbi­trarietà del dominio da parte dell'uomo, sebbene anch'essa porti, secon­do la parola del Signore, le tracce della «durezza del cuore» dell'uo­mo, a motivo della quale Mosè ha permesso il ripudio della donna.

1611 - Vedendo l'Alleanza di Dio con Israele sotto l'immagine di un amore coniugale esclusivo e fedele, i profeti hanno preparato la co­scienza del popolo eletto ad una intelligenza approfondita dell'unicità e dell'indissolubilità del matrimonio. I libri di Rut e di Tobia offrono testimonianze commoventi di un alto senso del matrimonio, della fedel­tà e della tenerezza degli sposi. La Tradizione ha sempre visto nel Can­tico dei Cantici un'espressione unica dell'amore umano, in quanto è ri­flesso dell'amore di Dio, amore «forte come la morte» che «le grandi acque non possono spegnere» (Ct 8,6-7). IL MATRIMONIO NEL SIGNORE

1612 - L'Alleanza nuziale tra Dio e il suo popolo Israele aveva prepara­to l'Alleanza nuova ed eterna nella quale il Figlio di Dio, incarnandosi e offrendo la propria vita, in certo modo ha unito a sé tutta l'umanità da lui salvata, preparando così «le nozze dell'Agnello».

1613 - Alle soglie della sua vita pubblica, Gesù compie il suo primo se­gno su richiesta di sua Madre durante una festa nuziale. La Chie­sa attribuisce una grande importanza alla presenza di Gesù alle nozze di Cana. Vi riconosce la conferma della bontà del matrimonio e l'an­nuncio che ormai esso sarà un segno efficace della presenza di Cristo.

1614 - Nella sua predicazione Gesù ha insegnato senza equivoci il senso originale dell'unione dell'uomo e della donna, quale il Creatore l'ha voIuta all'origine: il permesso, dato da Mosè, di ripudiare la propria mo­glie, era una concessione motivata dalla durezza del cuore; l'unione matrimoniale dell'uomo e della donna è indissolubile: Dio stesso l'ha conclusa: «Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo sepa­ri» (Mt 19,6).

1615 - Questa inequivocabile insistenza sull'indissolubilità del vincolo matrimoniale ha potuto lasciare perplessi e apparire come un'esigenza irrealizzabile. Tuttavia Gesù non ha caricato gli sposi di un fardello impossibile da portare e troppo gravoso, più pesante della Legge di Mosè. Venendo a ristabilire l'ordine iniziale della creazione sconvolto dal peccato, egli stesso dona la forza e la grazia per vivere il matrimo­nio nella nuova dimensione del regno di Dio. Seguendo Cristo, rinne­gando se stessi, prendendo su di sé la propria croce, gli sposi potran­no «capire» il senso originale del matrimonio e viverlo con l'aiuto di Cristo. Questa grazia del Matrimonio cristiano è un frutto della croce di Cristo, sorgente di ogni vita cristiana.

1616 - É ciò che l'Apostolo Paolo lascia intendere quando dice: «Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa e ha da­to se stesso per lei, per renderla santa» (Ef 5,25-26), e aggiunge subito: «Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà alla sua donna e i due formeranno una carne sola. Questo mistero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!» (Ef 5,31-32).

1617 - Tutta la vita cristiana porta il segno dell'amore sponsale di Cri­sto e della Chiesa. Già il Battesimo, che introduce nel popolo di Dio, è un mistero nuziale: è, per così dire, il lavacro di nozze che precede il banchetto di nozze, l'Eucaristia. Il Matrimonio cristiano diventa, a sua volta, segno efficace, sacramento dell'Alleanza di Cristo e della Chiesa. Poiché ne significa e ne comunica la grazia, il Matrimonio fra battezza­ti è un vero sacramento della Nuova Alleanza.

LA VERGINITÀ PER IL REGNO

1618 - Cristo è il centro di ogni vita cristiana. Il legame con lui occupa il primo posto rispetto a tutti gli altri legami, familiari o sociali. Fin dall'inizio della Chiesa, ci sono stati uomini e donne che hanno rinun­ciato al grande bene del matrimonio per seguire l'Agnello dovunque va­da, per preoccuparsi delle cose del Signore e cercare di piacergli, per andare incontro allo Sposo che viene. Cristo stesso ha invitato certuni a seguirlo in questo genere di vita, di cui egli rimane il modello: «Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire, capisca» (Mt 19,12).

1619 - La verginità per il regno dei cieli è uno sviluppo della grazia battesimale, un segno possente della preminenza del legame con Cristo, dell'attesa ardente del suo ritorno, un segno che ricorda pure come il matrimonio sia una realtà del mondo presente che passa.

1620 - Entrambi, il sacramento del Matrimonio e la verginità per il re­gno di Dio, provengono dal Signore stesso. È lui che dà loro senso e concede la grazia indispensabile per viverli conformemente alla sua volontà. La stima della verginità per il Regno e il senso cristiano del Matrimonio sono inseparabili e si favoriscono reciprocamente: «Chi denigra il matrimonio, sminuisce anche la gloria della verginità; chi lo loda, aumenta l'ammirazione che è dovuta alla verginità (…). In­fatti, ciò che sembra bello solo in rapporto a ciò che è brutto non può essere molto bello; quello che invece è la migliore delle cose considerate buone, è la cosa più bella in senso assoluto»

Il. La celebrazione del Matrimonio.

1621 - Nel rito latino, la celebrazione del Matrimonio tra due fedeli catto­lici ha luogo normalmente durante la santa Messa, a motivo del legame di tutti i sacramenti con il mistero pasquale di Cristo. Nell'Eucaristia si rea­lizza il memoriale della Nuova Alleanza, nella quale Cristo si è unito per sempre alla Chiesa, sua diletta Sposa per la quale ha dato se stesso. E’ dunque conveniente che gli sposi suggellino il loro consenso a donarsi l'uno all'altro con l'offerta delle loro proprie vite, unendola all'offerta di Cristo per la sua Chiesa, resa presente nel sacrificio eucaristico, e riceven­do l'Eucaristia, affinché, nel comunicare al medesimo Corpo e al medesi­mo Sangue di Cristo, essi «formino un corpo solo» in Cristo.

1622 - «In quanto gesto sacrarnentale di santificazione, la celebrazione li­turgica del Matrimonio [...] deve essere per sé valida, degna e fruttuo­sa». Conviene quindi che i futuri sposi si dispongano alla celebrazione del loro Matrimonio ricevendo il sacramento della Penitenza.

1623 - Secondo la tradizione latina, sono gli sposi, come ministri della grazia di Cristo, a conferirsi mutuamente il sacramento del Matrimonio esprimendo davanti alla Chiesa il loro consenso. Nelle tradizioni delle Chiese Orientali, i sacerdoti - Vescovi o presbiteri - sono testimoni del reciproco consenso scambiato tra gli sposi, ma anche la loro benedi­zione è necessaria per la validità del sacramento.

1624 - Le diverse liturgie sono ricche di preghiere di benedizione e di epiclesi che chiedono a Dio la sua grazia e la benedizione sulla nuova coppia, specialmente sulla sposa. Nell'epiclesi di questo sacramento gli sposi ricevono lo Spirito Santo come comunione di amore di Cristo e della Chiesa. È lui il sigillo della loro alleanza, la sorgente sempre of­ferta del loro amore, la forza in cui si rinnoverà la loro fedeltà

III. Il consenso matrimoniale.

1625 - I protagonisti dell'alleanza matrimoniale sono un uomo e una donna battezzati, liberi di contrarre il matrimonio e che esprimono libe­ramente il loro consenso. «Essere libero» vuol dire: non subire costrizioni; non avere impedimenti in base ad una legge naturale o ecclesiastica.

1626 - La Chiesa considera lo scambio del consenso tra gli sposi come l'elemento indispensabile «che costituisce il Matrimonio». Se il con­senso manca, non c'è Matrimonio.

1627 - Il consenso consiste in un «atto umano col quale i coniugi mu­tuamente si danno e si ricevono» «Io prendo te come mia sposa...» «Io prendo te come mio sposo…» Questo consenso che lega gli sposi tra loro trova il suo compimento nel fatto che i due diventano «una carne sola».

1628 - Il consenso deve essere un atto della volontà di ciascuno dei contraenti, libero da violenza o da grave costrizione esterna. Nessuna potestà umana può sostituirsi a questo consenso. Se tale libertà man­ca, il Matrimonio è invalido.

1629 - Per questo motivo (o per altre cause che rendono nullo e non avvenuto il Matrimonio la Chiesa può, dopo esame della situazione da parte del tribu­nale ecclesiastico competente, dichiarare «la nullità del Matrimonio», vale a di­re che il Matrimonio non è mai esistito. In questo caso i contraenti sono liberi di sposarsi, salvo il rispetto degli obblighi naturali derivanti da una precedente unione.

1630 - Il sacerdote (o il diacono) che assiste alla celebrazione del Matrimonio, accoglie il consenso degli sposi a nome della Chiesa e dà la benedizione della Chiesa. La presenza del ministro della Chiesa (e anche dei testimoni) esprime visibilmente che il Matrimonio è una realtà ecclesiale.

1631 - È per questo motivo che la Chiesa normalmente richiede per i suoi fedeli la forma ecclesiastica della celebrazione del Matrimonio. Diverse ragioni concorrono a spiegare questa determinazione: il Matrimonio sacramentale è un atto liturgico. È quindi conveniente che venga celebrato nella liturgia pubblica della Chiesa; il Matrimonio introduce in un ordo ordine - ecclesiale, crea diritti e doveri nella Chiesa, fra gli sposi e verso i figli; poiché il Matrimonio è uno stato di vita nella Chiesa, è necessario che vi sia certezza sul Matrimonio (da qui l'obbligo di avere dei testimoni); il carattere pubblico del consenso protegge il consenso una volta dato e aiuta a rimanervi fedele.

1632 - Perché il «Si» degli sposi sia un atto libero e responsabile, e l'alleanza matrimoniale abbia delle basi umane e cristiane solide e dura­ture, la preparazione al Matrimonio è di fondamentale importanza. L'esempio e l'insegnamento dati dai genitori e dalle famiglie restano il cammino privilegiato di questa preparazione. Il ruolo dei Pastori e della comunità cristiana come «famiglia di Dio» è indi­spensabile per la trasmissione dei valori umani e cristiani del matrimonio e del­la famiglia, tanto più che nel nostro tempo molti giovani conoscono l'esperien­za di focolari distrutti che non assicurano più sufficientemente questa iniziazione: I giovani devono essere adeguatamente e tempestivamente istruiti, so­prattutto in seno alla propria famiglia, sulla dignità dell'amore coniuga­le, sulla sua funzione e le sue espressioni; così che, formati nella stima della castità, possano ad età conveniente passare da un onesto fidanza­mento alle nozze».

I MATRIMONI MISTI E LA DISPARITÀ DI CULTO

1633 - In numerosi paesi si presenta assai di frequente la situazione del matri­monio misto (fra cattolico e battezzato non cattolico). Essa richiede un'attenzio­ne particolare dei coniugi e dei Pastori. Il caso di matrimonio con disparità di colto (fra cattolico e non-battezzato) esige una circospezione ancora maggiore.

1634 - La diversità di confessione fra i coniugi non costituisce un ostacolo in­sormontabile per il matrimonio, allorché essi arrivano a mettere in comune ciò che ciascuno di loro ha ricevuto nella propria comunità, e ad apprendere l'uno dall'altro il modo in cui ciascuno vive la sua fedeltà a Cristo. Ma le difficoltà dei matrimoni misti non devono neppure essere sottovalutate. Esse sono dovute al fatto che la separazione dei cristiani non è ancora superata. Gli sposi rischiano di risentire il dramma della disunione dei cristiani all'interno stesso del loro focolare. La disparità di culto può aggravare ulteriormente queste difficoltà. Divergenze concernenti la fede, la stessa concezione del matrimonio, ma anche mentalità religiose differenti possono costituire una sorgente di tensioni nel ma­trimonio, soprattutto a proposito dell'educazione dei figli. Una tentazione può allora presentarsi: l'indifferenza religiosa.

1635 - Secondo il diritto in vigore nella Chiesa latina, un matrimonio misto ne­cessita, per la sua liceità, dell'espressa licenza dell'autorità ecclesiastica. In caso di disparità di culto è richiesta, per la validità del Matrimonio, una espressa di­spensa dall'impedimento. Questa licenza o questa dispensa suppongono che en­trambe le parti conoscano e non escludano i fini e le proprietà essenziali del Matrimonio; inoltre che la parte cattolica confermi gli impegni, portati a cono­scenza anche della parte acattolica, di conservare la propria fede e di assicurare il Battesimo e l'educazione dei figli nella Chiesa cattolica.

1636 - In molte regioni, grazie al dialogo ecumenico, le comunità cristiane inte­ressate hanno potuto organizzare una pastorale comune per i matrimoni misti. Suo compito è di aiutare queste coppie a vivere la loro situazione particolare alla luce della fede. Essa deve anche aiutarle a superare le tensioni fra gli obbli­ghi reciproci dei coniugi e quelli verso le loro comunità ecclesiali. Deve inco­raggiare lo sviluppo di ciò che è loro comune nella fede, e il rispetto di ciò che li separa.

1637- Nei matrimoni con disparità di culto lo sposo cattolico ha un compito particolare: «Infatti il marito non credente viene reso santo dalla moglie cre­dente e la moglie non credente viene resa santa dal marito credente» (1 Cor 7,14). È una grande gioia per il coniuge cristiano e per la Chiesa se questa «santificazione» conduce alla libera conversione dell'altro coniuge alla fede cri­stiana. L'amore coniugale sincero, la pratica umile e paziente delle virtù fami­liari e la preghiera perseverante possono preparare il coniuge non credente ad accogliere la grazia della conversione.

IV. Gli effetti del sacramento del Matrimonio.

1638 - «Dalla valida celebrazione del Matrimonio sorge tra i coniugi un vincolo di sua natura perpetuo ed esclusivo; inoltre nel Matrimonio cri­stiano i coniugi, per i compiti e la dignità del loro stato, vengono cor­roborati e come consacrati da uno speciale sacramento».

IL VINCOLO MATRIMONIALE

1639 - Il consenso, mediante il quale gli sposi si donano e si ricevono mutuamente, è suggellato da Dio stesso. Dalla loro alleanza «nasce, anche davanti alla società, l'istituto [del matrimonio] che ha stabilità per ordinamento divino», L'alleanza degli sposi è integrata nell'Al­leanza di Dio con gli uomini: «L'autentico amore coniugale è assunto nell'amore divino».

1640 - Il vincolo matrimoniale è dunque stabilito da Dio stesso, così che il Matrimonio concluso e consumato tra battezzati non può mai essere sciolto. Questo vincolo, che risulta dall'atto umano libero degli sposi e dalla consumazione del matrimonio, è una realtà ormai irrevocabile e dà origine ad un'alleanza garantita dalla fedeltà di Dio. Non è in pote­re della Chiesa pronunciarsi contro questa disposizione della sapienza divina. LA GRAZIA DEL SACRAMENTO DEL MATRIMONIO

1641 - I coniugi cristiani «hanno, nel loro stato di vita e nel loro ordi­ne, il proprio dono in mezzo al popolo di Dio». Questa grazia pro­pria del sacramento del Matrimonio è destinata a perfezionare l'amore dei coniugi, a rafforzare la loro unità indissolubile. In virtù di questa grazia essi «si aiutano a vicenda per raggiungere la santità nella vita coniugale, nell'accettazione e nell'educazione della prole».

1642 - Cristo e' la sorgente di questa grazia. «Come un tempo Dio venne incontro al suo popolo con un Patto di amore e di fedeltà, così ora il Salvatore degli uomini e Sposo della Chiesa viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento del Matrimonio». Egli rimane con loro, dà loro la forza di seguirlo prendendo su di sé la propria croce, di rialzarsi dopo le loro cadute, di perdonarsi vicendevolmente, di por­tare gli uni i pesi degli altri, di essere «sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo» (Ef 5,21) e di amarsi di un amore soprannaturale, te­nero e fecondo. Nelle gioie del loro amore e della loro vita familiare egli concede loro, fin da quaggiù, una pregustazione del banchetto delle nozze dell'Agnello: «Come sarò capace di esporre la felicità di quel matrimonio che la Chiesa unisce, l'offerta eucaristica conferma, la benedizione suggella, gli angeli annunciano e il Padre celeste ratifica? [...] Quale giogo quello di due fedeli uniti in un'unica speranza, in un unico desiderio, in un'unica osservanza, in un unico servizio! Entrambi sono figli dello stesso Padre, servi dello stesso Signore; non vi è nessuna divisione quanto allo spirito e quanto alla carne. Anzi, sono veramente due in una sola carne e dove la carne è unica, unico è lo spirito».

V. I beni e le esigenze dell'amore coniugale.

1643 - «L'amore coniugale comporta una totalità in cui entrano tutte le componenti della persona - richiamo del corpo e dell'istinto, forza del sentimento e dell'affettività, aspirazione dello spirito e della volontà; esso mira a una unità profondamente personale, quella che, al di là del­l'unione in una sola carne, conduce a non fare che un cuore solo e un'anima sola; esso esige l'indissolubilità e la fedeltà della donazione re­ciproca definitiva e si apre sulla fecondità. In una parola, si tratta di caratteristiche normali di ogni amore coniugale, ma con un significato nuovo che non solo le purifica e le consolida, ma anche le eleva al punto di farne l'espressione di valori propriamente cristiani».

L'UNITÀ E L'INDISSOLUBILITÀ DEL MATRIMONIO

1644 - L'amore degli sposi esige, per sua stessa natura, l'unità e l'indis­solubilità della loro comunità di persone che abbraccia tutta la loro vi­ta: «Così che non sono più due, ma una carne sola» (Mt 19,6).157 Essi «sono chiamati a crescere continuamente nella loro comunione attra­verso la fedeltà quotidiana alla promessa matrimoniale del reciproco dono totale». Questa comunione umana è confermata, purificata e condotta a perfezione mediante la comunione in Cristo Gesù, donata dal sacramento del Matrimonio. Essa si approfondisce mediante la vita di comune fede e mediante l'Eucaristia ricevuta insieme.

1645 - «L'unità del Matrimonio confermata dal Signore appare in maniera lampante anche dalla uguale dignità personale sia dell'uomo che della donna, che deve essere riconosciuta nel mutuo e pieno amore », La poligamia è contraria a questa pari dignità e all'amore coniugale che è unico ed esclusivo.

LA FEDELTÀ DELL'AMORE CONIUGALE

1646 - L'amore coniugale esige dagli sposi, per sua stessa natura, una fedeltà inviolabile. È questa la conseguenza del dono di se stessi che gli sposi si fanno l'uno all'altro. L'amore vuole essere definitivo. Non può essere «fino a nuovo ordine». «Questa intima unione, in quanto mu­tua donazione di due persone, come pure il bene dei figli, esigono la piena fedeltà dei coniugi e ne reclamano l'indissolubile unità».

1647 - La motivazione più profonda si trova nella fedeltà di Dio alla sua Alleanza, di Cristo alla sua Chiesa. Dal sacramento del Matrimonio gli sposi sono abilitati a rappresentare tale fedeltà e a darne testimo­nianza. Dal sacramento, l'indissolubilità del Matrimonio riceve un senso nuovo e più profondo.

1648 - Può sembrare difficile, persino impossibile, legarsi per tutta la vi­ta a un essere umano. È perciò quanto mai necessario annunciare la Buona Novella che Dio ci ama di un amore definitivo e irrevocabile, che gli sposi sono partecipi di questo amore, che egli li conduce e li so­stiene, e che attraverso la loro fedeltà possono essere testimoni dell'a­more fedele di Dio. I coniugi che, con la grazia di Dio, danno questa testimonianza, spesso in condizioni molto difficili, meritano la gratitudi­ne e il sostegno della comunità ecclesiale.

1649 - Esistono tuttavia situazioni in cui la coabitazione matrimoniale diventa praticamente impossibile per le più varie ragioni. In tali casi la Chiesa ammette la separazione fisica degli sposi e la fine della coabitazione. I coniugi non cessa­no di essere marito e moglie davanti a Dio; non sono liberi di contrarre una nuova unione. In questa difficile situazione, la soluzione migliore sarebbe, se possibile, la riconciliazione. La comunità cristiana è chiamata ad aiutare queste persone a vivere cristianamente la loro situazione, nella fedeltà al vincolo del loro matrimonio che resta indissolubile.

1650 - Oggi, in molti paesi, sono numerosi i cattolici che ricorrono al divorzio secondo le leggi civili e che contraggono civilmente una nuova unione. La Chie­sa sostiene, per fedeltà alla parola di Gesù Cristo («Chi ripudia la propria mo­glie e ne sposa un altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio»: (Mc 10,1 1-12), che non può riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il primo matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la Legge di Dio. Perciò essi non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione. Per lo stesso motivo non possono esercitare certe responsabilità ecclesiali. La ricon­ciliazione mediante il sacramento della Penitenza non può essere accordata se non a coloro che si sono pentiti di aver violato il segno dell'Alleanza e della fe­deltà a Cristo, e si sono impegnati a vivere in una completa continenza.

1651 - Nei confronti dei cristiani che vivono in questa situazione e che spesso conservano la fede e desiderano educare cristianamente i loro figli, i sacerdoti e tutta la comunità devono dare prova di una attenta sollecitudine affinché essi non si considerino come separati dalla Chiesa, alla vita della quale possono e devono partecipare in quanto battezzati: «Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il Sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a edu­care i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di peni­tenza, per implorare cosi, di giorno in giorno, la grazia di Dio.

L'APERTURA ALLA FECONDITÀ

1652 - «Per sua indole naturale, l'istituto stesso del matrimonio e l'amore coniugale sono ordinati alla procreazione e all'educazione della prole e in queste trovano il loro coronamento»: «I figli sono il preziosissimo dono del matrimonio e contribuiscono moltissimo al bene degli stessi genitori. Lo stesso Dio che disse: “Non è bene che l'uomo sia solo” (Gn 2,18) e che “creò all'inizio l'uomo ma­schio e femmina” (Mt 19,4), volendo comunicare all'uomo una certa speciale partecipazione nella sua opera creatrice, benedisse l'uomo e la donna, dicendo loro: “Crescete e moltiplicatevi” (Gn 1,28). Di conse­guenza la vera pratica dell'amore coniugale e tutta la struttura della vi­ta familiare che ne nasce, senza posporre gli altri fini del matrimonio, a questo tendono che i coniugi, con fortezza d'animo, siano disposti a cooperare con l'amore del Creatore e del Salvatore, che attraverso di loro continuamente dilata e arricchisce la sua famiglia».

1653 - La fecondità dell'amore coniugale si estende ai frutti della vita morale, spirituale e soprannaturale che i genitori trasmettono ai loro fi­gli attraverso l'educazione. I genitori sono i primi e principali educatori dei loro figli. In questo senso il compito fondamentale del matrimonio e della famiglia è di essere al servizio della vita.

1654 - I coniugi ai quali Dio non ha concesso di avere figli, possono nondimeno avere una vita coniugale piena di senso, umanamente e cri­stianamente. Il loro matrimonio può risplendere di una fecondità di carità, di accoglienza e di sacrificio.

VI. La Chiesa domestica.

1655 - Cristo ha voluto nascere e crescere in seno alla santa Famiglia di Giuseppe e di Maria. La Chiesa non è altro che la «famiglia di Dio». Fin dalle sue origini, il nucleo della Chiesa era spesso costituito da co­loro che, insieme con tutta la loro famiglia, erano divenuti credenti. Allorché si convertivano, desideravano che anche «tutta la loro fami­glia» fosse salvata. Queste famiglie divenute credenti erano piccole isole di vita cristiana in un mondo incredulo.

1656 - Ai nostri giorni, in un mondo spesso estraneo e persino ostile alla fede, le famiglie credenti sono di fondamentale importanza, come focolari di fede viva e irradiante. È per questo motivo che il Concilio Vaticano Il, usando un'antica espressione, chiama la famiglia «Ecclesia domestica» - Chiesa domestica. È in seno alla famiglia che «i genitori devono essere per i loro figli, con la parola e con l'esempio, i primi annunciatori della fede, e secondare la vocazione propria di ognuno, e quella sacra in modo speciale».

1657 - È qui che si esercita in maniera privilegiata il sacerdozio battesi­male del padre di famiglia, della madre, dei figli, di tutti i membri della famiglia, «con la partecipazione ai sacramenti, con la preghiera e il rin­graziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l'abnegazione e l'operosa carità. Il focolare è così la prima scuola di vita cristiana e «una scuola di umanità più ricca». È qui che si apprende la fatica e la gioia del lavoro, l'amore fraterno, il perdono generoso, sempre rin­novato, e soprattutto il culto divino attraverso la preghiera e l'offerta della propria vita.

1658 - Bisogna anche ricordare alcune persone che, a causa delle condi­zioni concrete in cui devono vivere e spesso senza averlo voluto so­no particolarmente vicine al cuore di Gesù e meritano quindi affetto e premurosa sollecitudine da parte della Chiesa e in modo speciale dei Pastori: il gran numero di persone celibi. Molte di loro restano senza fa­miglia umana, spesso a causa di condizioni di povertà. Ve ne sono di quelle che vivono la loro situazione nello spirito delle beatitudini, ser­vendo Dio e il prossimo in maniera esemplare. A tutte loro bisogna aprire le porte dei focolari, «Chiese domestiche», e della grande fami­glia che è la Chiesa. «Nessuno è privo della famiglia in questo mondo: la Chiesa è casa e famiglia per tutti, specialmente per quanti sono “affaticati e oppressi” (Mt 11,28)».

In sintesi

1659 - San Paolo dice: «Voi, mariti, amate le vostre mogli, come Cristo ha amato la Chiesa [...]. Questo mistero é grande; lo dico in riferi­mento a Cristo e alla Chiesa» (Ef 5,25.32).

1660 - L'alleanza matrimoniale, mediante la quale un uomo e una donna costituiscono fra loro un'intima comunione di vita e di amore, è stata fondata e dotata di sue proprie leggi dal Creatore. Per sua natura è ordinata al bene dei coniugi così come alla generazione e all'educazione della prole. Tra battezzati essa è stata elevata da Cristo Signore alla dignità di sacramento.

1661 - Il sacramento del Matrimonio e segno dell'unione di Cristo e della Chiesa. Esso dona agli sposi la grazia di amarsi con l'amore con cui Cristo ha amato la sua Chiesa, la grazia del sacramento perfeziona casi l'amore umano dei coniugi, consolida la loro unità indis­solubile e li santifica nel cammino della vita eterna.

1662 - Il matrimonio si fonda sul consenso dei contraenti, cioè sulla volon­tà di donarsi mutuamente e definitivamente, allo scopo di vivere un'alleanza d'amore fedele e fecondo.

1663 - Poiché il matrimonio stabilisce i coniugi in una stato pubblico di vi­ta nella Chiesa, è opportuno che la sua celebrazione sia pubblica, inserita in una celebrazione liturgica, alla presenza del sacerdote (o del testimone qualificato della Chiesa), dei testimoni e dell'assem­blea dei fedeli.

1664 - L'unità, l'indissolubilità e l'apertura alla fecondità sono essenziali al matrimonio. La poligamia è incompatibile con l'unità del matrimo­nio; il divorzio separa ciò che Dio ha unito; il rifiuto della fecondità priva la vita coniugale del sua «preziosissimo dono», il figlio.

1665 - Il nuovo matrimonio dei divorziati, mentre è ancora vivo il coniuge legittimo, con travviene al disegno e alla Legge di Dio insegnati da Cristo. Costoro non sono separati dalla Chiesa, ma non possono accedere alla Comunione eucaristica. Vivranno la loro vita cristiana particolarmente educando i loro figli nella fede.

1666 - Il focolare cristiano è il luogo in cui i figli ricevono il primo annun­cio della fede. Perciò la casa familiare è chiamata a buon diritto «la Chiesa domestica», comunità di grazia e di preghiera, scuola delle virtù umane e della carità cristiana.

CAPITOLO QUARTO

LE ALTRE CELEBRAZIONI LITURGICHE

Articolo 1

I SACRAMENTALI

1667 - «La santa Madre Chiesa ha istituito i sacramentali. Questi sono segni sacri per mezzo dei quali, con una certa imitazione dei sacramen­ti, sono significati e, per impetrazione della Chiesa, vengono ottenuti ef­fetti soprattutto spirituali. Per mezzo di essi gli uomini vengono disposti a ricevere l'effetto principale dei sacramenti e vengono santificate le varie circostanze della vita».

I TRATTI CARATTERISTICI DEI SACRAMENTALI

1668 - Essi sono istituiti dalla Chiesa per la santificazione di alcuni mi­nisteri ecclesiastici, di alcuni stati di vita, di circostanze molto varie del­la vita cristiana, così come dell'uso di cose utili all'uomo. Secondo le decisioni pastorali dei Vescovi, possono anche rispondere ai bisogni, al­la cultura e alla storia propri del popolo cristiano di una regione o di un'epoca. Comportano sempre una preghiera, spesso accompagnata da un determinato segno, come l'imposizione della mano, il segno della croce, l'aspersione con l'acqua benedetta (che richiama il Battesimo).

1669 - Essi derivano dal sacerdozio battesimale: ogni battezzato è chia­mato ad essere una benedizione e a benedire. Per questo anche i laici possono presiedere alcune benedizioni; più una benedizione riguarda la vita ecclesiale e sacramentale, più la sua presidenza è riservata al mi­nistro ordinato (Vescovo, presbiteri o diaconi).

1670 - I sacramentali non conferiscono la grazia dello Spirito Santo alla maniera dei sacramenti; però mediante la preghiera della Chiesa prepa­rano a ricevere la grazia e dispongono a cooperare con essa. «Ai fedeli ben disposti è dato di santificare quasi tutti gli avvenimenti della vita per mezzo della grazia divina che fluisce dal mistero pasquale della pas­sione, morte e risurrezione di Cristo, mistero dal quale derivano la loro efficacia tutti i sacramenti e i sacramentali; e così ogni uso onesto delle cose materiali può essere indirizzato alla santificazione dell'uomo e alla lode di Dio».

LE VARIE FORME DI SACRAMENTALI

1671 - Fra i sacramentali ci sono innanzi tutto le benedizioni (di persone, della mensa, di oggetti, di luoghi). Ogni benedizione è lode di Dio e preghiera per ottenere i suoi doni. In Cristo, i cristiani sono benedetti da Dio Padre «con ogni benedizione spirituale» (Ef 1,3). Per questo la Chiesa impartisce la benedi­zione invocando il nome di Gesù, e facendo normalmente il santo segno della croce di Cristo.

1672 - Alcune benedizioni hanno una portata duratura: hanno per effetto di consacrare persone a Dio e di riservare oggetti e luoghi all'uso liturgico. Fra quelle che sono destinate a persone da non confondere con l'ordinazione sacramentale figurano la benedizione dell'abate o dell'abbadessa di un monastero, la consacrazione delle vergini e delle vedove, il rito della professione religiosa e le benedizioni per alcuni ministeri ecclesiastici (lettori, accoliti, cate­chisti, ecc). Come esempio delle benedizioni che riguardano oggetti, si può se­gnalare la dedicazione o la benedizione di una chiesa o di un altare, la benedi­zione degli olii santi, dei vasi e delle vesti sacre, delle campane, ecc.

1673 - Quando la Chiesa domanda pubblicamente e con autorità, in nome di Gesù Cristo, che una persona o un oggetto sia protetto contro l'influenza del maligno e sottratto al suo dominio, si parla di esorcismo. Gesù l'ha praticato; è da lui che la Chiesa deriva il potere e il compito di esorcizzare. In una for­ma semplice, l'esorcismo è praticato durante la celebrazione del Battesimo. L'esorcismo solenne, chiamato «grande esorcismo», può essere praticato solo da un presbitero e con il permesso del Vescovo. In ciò bisogna procedere con prudenza, osservando rigorosamente le norme stabilite dalla Chiesa. L'esorci­smo mira a scacciare i demoni o a liberare dall'influenza demoniaca, e ciò me­diante l'autorità spirituale che Gesù ha affidato alla sua Chiesa. Molto diverso è il caso di malattie, soprattutto psichiche, la cui cura rientra nel campo della scienza medica. È importante, quindi, accertarsi, prima di celebrare l'esorcismo, che si tratti di una presenza del maligno e non di una malattia.

LA RELIGIOSITÀ POPOLARE

1674 - Oltre che della liturgia dei sacramenti e dei sacramentali, la cate­chesi deve tener conto delle forme della pietà dei fedeli e della religiosi­tà popolare. Il senso religioso del popolo cristiano, in ogni tempo, ha trovato la sua espressione nelle varie forme di pietà che accompagnano la vita sacramentale della Chiesa, quali la venerazione delle reliquie, le visite ai santuari, i pellegrinaggi, le processioni, la «via crucis», le dan­ze religiose, il Rosario, le medaglie, ecc.

1675 - Queste espressioni sono un prolungamento della vita liturgica della Chie­sa, ma non la sostituiscono: «Bisogna che tali esercizi, tenuto conto dei tempi liturgici, siano ordinati in modo da essere in armonia con la sacra liturgia, deri­vino in qualche modo da essa, e ad essa, data la sua natura di gran lunga su­periore, conducano il popolo cristiano».

1676 - E’ necessario un discernimento pastorale per sostenere e favorire la reli­giosità popolare e, all'occorrenza, per purificare e rettificare il senso religioso che sta alla base di tali devozioni e per far progredire nella conoscenza del mi­stero di Cristo. Il loro esercizio è sottomesso alla cura e al giudizio dei Vescovi e alle norme generali della Chiesa. «La religiosità popolare, nell'essenziale, è un insieme di valori che, con saggezza cristiana, risponde ai grandi interrogativi dell'esistenza. Il buon senso popolare cattolico è fatto di capacità di sintesi per l'esistenza. E’ così che esso unisce, in modo creativo, il divino e l'umano, Cristo e Maria, lo spirito e il corpo, la comunione e l'istituzione, la persona e la comunità, la fede e la patria, l'intelligenza e il sentimento. Questa sag­gezza è un umanesimo cristiano che afferma radicalmente la dignità di ogni essere in quanto figlio di Dio, instaura una fraternità fondamentale, insegna a porsi in armonia con la natura e anche a comprendere il lavoro, e offre motivazioni per vivere nella gioia e nella serenità, pur in mezzo alle traversie dell'esistenza. Questa saggezza è anche, per il popolo, un principio di discernimento, un istinto evangelico che gli fa spontaneamente percepire quando il Vangelo è al primo posto nella Chiesa, o quando esso è svuotato del suo contenuto e soffocato da altri interessi.

In sintesi

1677 - Si chiamano sacramentali i sacri segni istituiti dalla Chiesa il cui scopo è di preparare gli uomini a ricevere il frutto dei sacramenti e di santificare le varie circostanze della vita.

1678 - Fra i sacramentali, le benedizioni occupano un posto importante. Esse comportano ad un tempo la lode di Dio per le sue opere e i suoi doni, e l'intercessione della Chiesa affinché gli uomini possano usare i doni di Dio secondo lo spirito del Vangelo.

1679 - Oltre che della liturgia, la vita cristiana si nutre di varie forme di pietà popolare, radicate nelle diverse culture. Pur vigilando per illu­minarle con la luce della fede, la Chiesa favorisce le forme di reli­giosità popolare, che esprimano un istinto evangelico e una saggezza umana e arricchiscono la vita cristiana.

Articolo 2

LE ESEQUIE CRISTIANE

1680 - Tutti i sacramenti, e principalmente quelli dell'iniziazione cristia­na, hanno per scopo l'ultima pasqua del figlio di Dio, quella che, attra­verso la morte, lo introduce nella vita del Regno. Allora si compie ciò che confessa nella fede e nella speranza: «Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà».

I. L'ultima pasqua del cristiano.

1681 - Il senso cristiano della morte si manifesta alla luce del mistero pasquale della morte e della risurrezione di Cristo, nel quale riposa la nostra unica speranza. Il cristiano che muore in Cristo Gesù va in esi­lio dal corpo per abitare presso il Signore.

1682 - Il giorno della morte inaugura per il cristiano, al termine della sua vita sacramentale, il compimento della sua nuova nascita cominciata con il Battesimo, la «somiglianza» definitiva all'«immagine del Figlio» conferita dall'unzione dello Spirito Santo e la partecipazione al ban­chetto del Regno anticipato nell'Eucaristia, anche se, per rivestire l'abi­to nuziale, ha ancora bisogno di ulteriori purificazioni.

1683 - La Chiesa che, come Madre, ha portato sacramentalmente nel suo seno il cristiano durante il suo pellegrinaggio terreno, lo accompa­gna al termine del suo cammino per rimetterlo «nelle mani del Padre». Essa offre al Padre, in Cristo, il figlio della sua grazia e, nella speranza, consegna alla terra il seme del corpo che risusciterà nella gloria. Que­sta offerta è celebrata in pienezza nel sacrificio eucaristico; le benedizio­ni che precedono e che seguono sono dei sacramentali

Il. La celebrazione delle esequie.

1684 - Le esequie cristiane sono una celebrazione liturgica della Chiesa. Il mini­stero della Chiesa in questo caso mira ad esprimere la comunione efficace con il defunto come pure a rendere partecipe la sua comunità riunita per le esequie e ad annunciarle la vita eterna.

1685 - I differenti riti delle esequie esprimono il carattere pasquale della morte cristiana, e rispondono alle situazioni e alle tradizioni delle singole regioni, an­che quanto al colore liturgico.

1686 - Il Rito delle esequie della liturgia romana propone tre tipi di celebrazione delle esequie, corrispondenti ai tre luoghi del suo svolgimento (la casa, la chie­sa, il cimitero), e secondo l'importanza che vi attribuiscono la famiglia, le con­suetudini locali, la cultura e la pietà popolare. Questo svolgimento è del resto comune a tutte le tradizioni liturgiche e comprende quattro momenti principali:

1687 - L'accoglienza della comunità. Un saluto di fede apre la celebrazione. I pa­renti del defunto sono accolti con una parola di «conforto» (nel senso del Nuovo Testamento; la forza dello Spirito Santo nella speranza). La comunità che si raduna in preghiera attende anche «parole di vita eterna». La morte di un membro della comunità (o il giorno anniversario, il settimo o il trigesimo giorno) è un evento che deve far superare le prospettive di «questo mondo» e attirare i fedeli nelle autentiche prospettive della fede nel Cristo risorto.

I688 - La liturgia della Parola, durante le esequie, esige una preparazione tanto più attenta in quanto l'assemblea presente in quel momento può comprendere fedeli poco assidui alla liturgia e amici del defunto che non sono cristiani. L'omelia, in particolare, deve evitare la forma e lo stile di un elogio funebre e illuminare il mistero della morte cristiana alla luce di Cristo risorto.

1689 - Il sacrificio eucaristico. Quando la celebrazione ha luogo in chiesa, l'Eu­caristia è il cuore della realtà pasquale della morte cristiana. È allora che la Chiesa esprime la sua comunione efficace con il defunto: offrendo al Padre, nello Spirito Santo, il sacrificio della morte e della risurrezione di Cristo, gli chiede che il suo figlio sia purificato dai suoi peccati e dalle loro conseguenze e che sia ammesso alla pienezza pasquale della mensa del Regno. E’ attraverso l'Eucaristia così celebrata che la comunità dei fedeli, specialmente la famiglia del defunto, impara a vivere in comunione con colui che «si è addormentato nel Signore», comunicando al corpo di Cristo di cui egli è membro vivente, e pregando poi per lui e con lui.

1690 - L'addio («a-Dio») al defunto è la sua «raccomandazione a Dio» da parte della Chiesa. È «l'ultimo saluto rivolto dalla comunità cristiana a un suo membro, prima che il corpo sia portato alla sepoltura». La tradizione bizanti­na lo esprime con il bacio di addio al defunto: Con questo saluto finale «si canta per la sua dipartita da questa vita e la sua separazione, ma anche perché esiste una comunione e una riu­nione. Infatti, morti, non siamo affatto separati gli uni dagli altri, poi­ché noi tutti percorriamo la medesima strada e ci ritroveremo nel mede­simo luogo. Non saremo mai separati, perché vivremo per Cristo, e ora siamo uniti a Cristo, andando incontro a lui [...1 saremo tutti insieme in Cristo».

 

PARTE TERZA

LA VITA IN CRISTO

1691 - «Riconosci, o cristiano, la tua dignità, e, reso consorte della na­tura divina, non voler tornare all'antica bassezza con una vita indegna. Ricorda a quale Capo appartieni e di quale corpo sei membro. Ripensa che, liberato dal potere delle tenebre, sei stato trasferito nella luce e nel regno di Dio».

1692 - Il Simbolo della fede ha professato la grandezza dei doni di Dio all'uomo nell'opera della creazione e ancor più mediante la redenzione e la santificazione. Ciò che la fede confessa, i sacramenti lo comunica­no: per mezzo dei sacramenti che li hanno fatti rinascere, i cristiani sono diventati «figli di Dio» (I Gv 3, l), «partecipi della natura divina» (2 Pt 1,4). Riconoscendo nella fede la loro nuova dignità, i cristiani so­no chiamati a comportarsi ormai in modo degno del Vangelo di Cri­sto. Mediante i sacramenti e la preghiera, essi ricevono la grazia di Cristo e i doni del suo Spirito, che li rendono capaci di questa vita nuova.

1693 - Cristo Gesù ha sempre fatto ciò che era gradito al Padre. Egli ha sempre vissuto in perfetta comunione con lui. Allo stesso modo i suoi discepoli sono invitati a vivere sotto lo sguardo del Padre «che ve­de nel segreto» (Mt 6,6) per diventare «perfetti come è perfetto il Padre [...] celeste» (Mt 5,47).

1694 - Incorporati a Cristo per mezzo del Battesimo, i cristiani sono morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù, partecipando co­si alla vita del Risorto. Alla sequela di Cristo e in unione con lui, i cristiani possono farsi imitatori di Dio, quali figli carissimi, e cammina­re nella carità, conformando i loro pensieri, le loro parole, le loro azioni ai sentimenti che furono in Cristo Gesù e seguendone gli esempi.

1695 - «Giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio» (1 Cor 6,11), santificati e chiamati ad essere santi i cristiani sono diventati «tempio dello Spirito Santo» (1 Cor 6,19). Questo «Spirito del Figlio» insegna loro a pregare il Padre e, essen­do diventato la loro vita, li fa agire in modo tale che portino il frutto dello Spirito mediante una carità operosa. Guarendo le ferite del pec­cato, lo Spirito Santo ci rinnova interiormente con una trasformazione spirituale, ci illumina e ci fortifica per vivere come «figli della luce» (Ef 5,8), mediante «ogni bontà, giustizia e verità» (Ef 5,9).

1696 - La via di Cristo «conduce alla vita» (Mt 7,14), una via opposta «conduce alla perdizione» (Mt 7,13). La parabola evangelica delle due vie è sempre presente nella catechesi della Chiesa. Essa sta ad indicare l'importanza delle decisioni morali per la nostra salvezza. «Ci sono due vie, l'una della vita, l'altra della morte; ma tra le due corre una grande differenza».

1697 - Nella catechesi è importante mettere in luce con estrema chiarez­za la gioia e le esigenze della via di Cristo. La catechesi della «vita nuova» (Rm 6,4) in lui sarà: una catechesi dello Spirito Santo, maestro interiore della vita secondo Cristo, dolce ospite e amico che ispira, conduce, corregge e fortifica questa vita; una catechesi della grazia, poiché è per grazia che siamo salvati ed è ancora per grazia che le nostre opere possono portare frutto per la vita eterna; una catechesi delle beatitudini, infatti la via di Cristo è riassunta nelle beatitudini, il solo cammino verso la felicità eterna, cui aspira il cuore dell'uomo; una catechesi del peccato e del perdono, poiché, se non si riconosce peccatore, l'uomo non può conoscere la verità su se stesso, condi­zione del retto agire, e, senza l'offerta del perdono, non potrebbe sopportare tale verità; La vita in Cristo una catechesi delle virtù umane, che conduce a cogliere la bellezza e l'attrattiva delle rette disposizioni per il bene; una catechesi delle virtù cristiane della fede, della speranza e della ca­rità, che si ispira al sublime esempio dei santi; una catechesi del duplice comandamento della carità sviluppato nel Decalogo; una catechesi ecclesiale, perché è nei molteplici scambi dei « beni spi­rituali» nella «comunione dei santi» che la vita cristiana può cre­scere, svilupparsi e comunicarsi.

1698 - Il riferimento primo e ultimo di tale catechesi sarà sempre lo stesso Gesù Cristo, che è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Guar­dando a lui nella fede, i cristiani possono sperare che egli stesso realizzi in loro le sue promesse, e che, amandolo con l'amore con cui egli li ha amati, compiano le opere che si addicono alla loro dignità: «Vi prego di considerare che [...] Gesù Cristo nostro Signore è il vostro vero Capo e che voi siete una delle sue membra. [...] Egli sta a voi co­me il capo alle membra; tutto ciò che è suo è vostro, il suo Spirito, il suo cuore, il suo corpo, la sua anima e tutte le sue facoltà, [...] e voi dovete usarne come se fossero cose vostre, per servire, lodare, amare e glorificare Dio. Voi appartenete a lui, come le membra al loro capo. Allo stesso modo egli desidera ardentemente usare tutto ciò che è in voi, al servizio e per la gloria del Padre, come se fossero cose che gli appartengono». Per me il vivere è Cristo» (Fil 1,21).

 

SEZIONE PRIMA

LA VOCAZIUONE DELL’UOMO: LA VITA NELLO SPIRITO

 

CAPITOLO PRIMO

LA DIGNITÀ DELLA PERSONA UMANA

1700 - La dignità della persona umana si radica nella creazione ad im­magine e somiglianza di Dio (articolo 1); ha il suo compimento nella vocazione alla beatitudine divina (articolo 2). È proprio dell'essere uma­no tendere liberamente a questo compimento (articolo 3). Con i suoi at­ti liberi (articolo 4), la persona umana si conforma, o non si conforma, al bene promesso da Dio e attestato dalla coscienza morale (articolo 5). Gli esseri umani si edificano da se stessi e crescono interiormente: di tutta la loro vita sensibile e spirituale formano la materia per la loro crescita (articolo 6). Con l'aiuto della grazia progrediscono nella virtù (articolo 7), evitano il peccato e, se l'hanno commesso, si affidano, come il figlio prodigo, alla misericordia del nostro Padre dei cieli (arti­colo 8). Così raggiungono la perfezione della carità.

Articolo 1

L'UOMO IMMAGINE DI DIO

1701 - «Cristo [...], proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua al­tissima vocazione». È in Cristo, «immagine del Dio invisibile» (Col 1,15)), che l'uomo è stato creato ad «immagine e somiglianza» del Creatore. È in Cristo, Redentore e Salvatore, che l'immagine divina, formata nell'uomo dal primo peccato, è stata restaurata nella sua bel­lezza originale e nobilitata dalla grazia di Dio.

1702 - L'immagine divina è presente in ogni uomo. Risplende nella co­munione delle persone, a somiglianza dell'unità delle persone divine tra loro (cf capitolo secondo).

1703 - Dotata di un'anima spirituale ed immortale, la persona umana è in terra «la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa». Fin dal suo concepimento è destinata alla beatitudine eterna.

1704 - La persona umana partecipa alla luce e alla forza dello Spirito divino. Grazie alla ragione è capace di comprendere l'ordine delle cose stabilito dal Creatore. Grazie alla volontà è capace di orientarsi da sé al suo vero bene. Trova la propria perfezione nel cercare e nell'amare il vero e il bene.

1705 - In virtù della sua anima e delle sue potenze spirituali d'intelli­genza e di volontà, l'uomo è dotato di libertà, «segno altissimo dell'im­magine divina».

1706 - Con la sua ragione l'uomo conosce la voce di Dio che lo «chia­ma sempre (…) a fare il bene e a fuggire il male». Ciascuno è tenuto a seguire questa legge che risuona nella coscienza e che trova il suo compimento nell'amore di Dio e del prossimo. L'esercizio della vita morale attesta la dignità della persona.

1707 - «L'uomo però, tentato dal maligno, fin dagli inizi della storia abusò della sua libertà». Egli cedette alla tentazione e commise il ma­le. Conserva il desiderio del bene, ma la sua natura porta la ferita del peccato originale. È diventato incline al male e soggetto all'errore: «Così l'uomo si trova in se stesso diviso. Per questo tutta la vita uma­na, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta dram­matica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre».

1708 - Con la sua passione Cristo ci ha liberati da Satana e dal pecca­to. Ci ha meritato la vita nuova nello Spirito Santo. La sua grazia re­staura ciò che il peccato aveva in noi deteriorato.

1709 - Chi crede in Cristo diventa figlio di Dio. Questa adozione filiale lo trasforma dandogli la capacità di seguire l'esempio di Cristo. Lo ren­de capace di agire rettamente e di compiere il bene. Nell'unione con il suo Salvatore, il discepolo raggiunge la perfezione della carità, cioè la santità. La vita morale, maturata nella grazia, sboccia in vita eterna, nella gloria del cielo.

In sintesi

1710 - «Cristo (…) svela pienamente l'uomo all'uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione».

1711 - Dotata di un'anima spirituale, d'intelligenza e di volontà, la persona umana fin dal suo concepimento è ordinata a Dio e destinata alla beatitudine eterna. Essa raggiunge la propria perfezione nel cercare ed amare il vero e il bene.

1712 - «La vera libertà (…) è nell'uomo segno altissimo dell'immagine divina».

1713 - L'uomo è tenuto a seguire la legge morale che lo spinge «a fare il bene e a fuggire il male». Questa legge risuona nella sua coscienza.

1714 - L'uomo, ferito nella propria natura dal peccato originale, è soggetto all'errore ed incline al male nell'esercizio della sua libertà.

1715 - Chi crede in Cristo ha la vita nuova nello Spirito Santo. La vita morale, cresciuta e maturata nella grazia, arriva a compimento nel­la gloria del cielo.

Articolo 2

LA NOSTRA VOCAZIONE ALLA BEATITUDINE

I. Le beatitudini.

1716 - Le beatitudini sono al centro della predicazione di Gesù. La loro proclamazione riprende le promesse fatte al popolo eletto a partire da Abramo. Le porta alla perfezione ordinandole non più al solo godimen­to di una terra, ma al regno dei cieli: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, di­ranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli (Mt 5,3-12).

1717 - Le beatitudini dipingono il volto di Gesù Cristo e ne descrivono la carità; esse esprimono la vocazione dei fedeli associati alla gloria del­la sua passione e della sua risurrezione; illuminano le azioni e le dispo­sizioni caratteristiche della vita cristiana; sono le promesse paradossali che, nelle tribolazioni, sorreggono la speranza; annunziano le benedizio­ni e le ricompense già oscuramente anticipate ai discepoli; sono inaugu­rate nella vita della Vergine Maria e di tutti i santi

Il. Il desiderio della felicità.

1718 - Le beatitudini rispondono all'innato desiderio di felicità. Questo desiderio è di origine divina; Dio l'ha messo nel cuore dell'uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare. Noi tutti certamente bramiamo vivere felici, e tra gli uomini non c'é nessuno che neghi il proprio assenso a questa affermazione, anche pri­ma che venga esposta in tutta la sua portata. «Come ti cerco, dunque, Signore? Cercando te, Dio mio, io cerco la fe­licità. Ti cercherò perché l'anima mia viva. Il mio corpo vive della mia anima e la mia anima vive di te». «Dio solo sazia».

1719 - Le beatitudini svelano la mèta dell'esistenza umana, il fine ulti­mo cui tendono le azioni umane: Dio ci chiama alla sua beatitudine. Tale vocazione è rivolta a ciascuno personalmente, ma anche all'insieme della Chiesa, popolo nuovo di coloro che hanno accolto la Promessa e vivono nella fede di essa.

III. La beatitudine cristiana.

1720 - Il Nuovo Testamento usa parecchie espressioni per caratterizzare la beatitudine alla quale Dio chiama l'uomo: l'avvento del regno di Dio; la visione di Dio: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8); l'entrata nella gioia del Signore; l'entrata nel riposo di Dio: «Là noi riposeremo e vedremo; vedremo e ameremo; ameremo e lode­remo. Ecco ciò che alla fine sarà senza fine. E quale altro fine abbia­mo, se non di giungere al regno che non avrà fine?».

1721 - Dio infatti ci ha creati per conoscerlo, servirlo e amarlo, e così giungere in paradiso. La beatitudine ci rende «partecipi della natura di­vina» (2 Pt 1,4) e della vita eterna. Con essa, l'uomo entra nella gloria di Cristo e nel godimento della vita trinitaria.

1722 - Una tale beatitudine oltrepassa l'intelligenza e le sole forze uma­ne. Essa è frutto di un dono gratuito di Dio. Per questo la si dice so­prannaturale, come la grazia che dispone l'uomo ad entrare nella gioia di Dio. «"Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio"»; tuttavia nella sua gran­dezza e nella sua mirabile gloria, “nessun uomo può vedere Dio e resta­re vivo”. Il Padre, infatti, è incomprensibile; ma nel suo amore, nella sua bontà verso gli uomini, e nella sua onnipotenza, arriva a concedere a coloro che lo amano il privilegio di vedere Dio [...]: poiché ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio».

1723 - La beatitudine promessa ci pone di fronte a scelte morali decisi­ve. Essa ci invita a purificare il nostro cuore dai suoi istinti cattivi e a cercare l'amore di Dio al di sopra di tutto. Ci insegna che la vera feli­cità non si trova né nella ricchezza o nel benessere, né nella gloria umana o nel potere, né in alcuna attività umana, per quanto utile possa essere, come le scienze, le tecniche e le arti, né in alcuna creatura, ma in Dio solo, sorgente di ogni bene e di ogni amore: La ricchezza è la grande divinità del presente; alla ricchezza la molti­tudine, tutta la massa degli uomini, tributa un omaggio istintivo. Per gli uomini il metro della felicità è la fortuna, e la fortuna è il metro dell'o­norabilità. [...] Tutto ciò deriva dalla convinzione che in forza della ric­chezza tutto è possibile. La ricchezza è quindi uno degli idoli del nostro tempo, e un altro idolo è la notorietà. [...] La notorietà, il fatto di esse­re conosciuti e di far parlare di sé nel mondo (ciò che si potrebbe chia­mare fama da stampa), ha finito per essere considerata un bene in se stessa, un bene sommo, un oggetto, anch'essa, di vera venerazione».

1724 - Il Decalogo, il discorso della montagna e la catechesi apostolica ci descrivono le vie che conducono al regno dei cieli. Noi ci impegnia­mo in esse passo passo, mediante azioni quotidiane, sostenuti dalla gra­zia dello Spirito Santo. Fecondati dalla parola di Cristo, lentamente portiamo frutti nella Chiesa per la gloria di Dio».

In sintesi

1725 - Le beatitudini riprendono e portano a perfezione le promesse di Dio fatte a partire da Abramo, ordinandole al regno dei cieli. Esse ri­spondono al desiderio di felicità che Dio ha posto nel cuore dell'uomo.

1726 - Le beatitudini ci insegnano il fine ultimo al quale Dio ci chiama: il Regno, la visione di Dio, la partecipazione alla natura divina, la vita eterna, la filiazione, il riposo in Dio.

1727 - La beatitudine della vita eterna è un dono gratuito di Dio: è soprannaturale al pari della grazia che ad essa conduce.

1728 - Le beatitudini ci mettono di fronte a scelte decisive riguardo ai beni terreni; esse purificano il nostro cuore per renderci capaci di amare Dio al di sopra di tutto.

1729 - La beatitudine del cielo determina i criteri di discernimento nell'uso dei beni terreni in conformità alla Legge di Dio.

Articolo 3

LA LIBERTÀ DELL'UOMO

1730 - Dio ha creato l'uomo ragionevole conferendogli la dignità di una persona dotata dell'iniziativa e della padronanza dei suoi atti. «Dio volle, infatti, lasciare l'uomo “in balia del suo proprio volere” (Sir 15,14) perché così esso cerchi spontaneamente il suo Creatore e giunga liberamente, con l'adesione a lui, alla piena e beata perfezione» «L'uomo è dotato di ragione, e in questo è simile a Dio, creato libero nel suo arbitrio e potere».

I. Libertà e responsabilità.

1731 - La libertà è il potere, radicato nella ragione e nella volontà, di agire o di non agire, di fare questo o quello, di porre così da se stessi azioni deliberate. Grazie al libero arbitrio ciascuno dispone di sé. La libertà è nell'uomo una forza di crescita e di maturazione nella verità e nella bontà. La libertà raggiunge la sua perfezione quando è ordinata a Dio, nostra beatitudine.

1732 - Finché non si è definitivamente fissata nel suo bene ultimo che è Dio, la libertà implica la possibilità di scegliere tra il bene e il male, e conseguentemente quella di avanzare nel cammino di perfezione oppure di venire meno e di peccare. Essa contraddistingue gli atti propriamente umani. Diventa sorgente di lode o di biasimo, di merito o di demerito.

1733 - Quanto più si fa il bene, tanto più si diventa liberi. Non c'è vera libertà se non al servizio del bene e della giustizia. La scelta della di­sobbedienza e del male è un abuso della libertà e conduce alla schiavitù del peccato.

1734 - La libertà rende l'uomo responsabile dei suoi atti, nella misura in cui sono volontari. Il progresso nella virtù, la conoscenza del bene e l'ascesi accrescono il dominio della volontà sui propri atti.

1735 - L'imputabilità e la responsabilità di un'azione possono essere smi­nuite o annullate dall'ignoranza, dall'inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali.

1736 - Ogni atto voluto direttamente è da imputarsi a chi lo compie: Il Signore infatti chiede ad Adamo dopo il peccato nel giardino: «Che hai fatto?» (Gn 3,13). Così pure a Caino. Altrettanto fa il profeta Natan con il re Davide dopo l'adulterio commesso con la moglie di Uria e l'assassinio di que­st'ultimo. Un'azione può essere indirettamente volontaria quando è conseguenza di una negligenza riguardo a ciò che si sarebbe dovuto conoscere o fare, per esem­pio un incidente provocato da una ignoranza del codice stradale.

1737 - Un effetto può essere tollerato senza che sia voluto da colui che agisce; per esempio lo sfinimento di una madre al capezzale del figlio ammalato. L'ef­fetto dannoso non è imputabile se non è stato voluto né come fine né come mezzo dell'azione, come può essere la morte incontrata nel portare soccorso a una persona in pericolo. Perché l'effetto dannoso sia imputabile, bisogna che sia prevedibile e che colui che agisce abbia la possibilità di evitarlo; è il caso, per esempio, di un omicidio commesso da un conducente in stato di ubriachezza.

1738 - La libertà si esercita nei rapporti tra gli esseri umani. Ogni per­sona umana, creata ad immagine di Dio, ha il diritto naturale di essere riconosciuta come un essere libero e responsabile. Tutti hanno verso ciascuno il dovere di questo rispetto. Il diritto all'esercizio della libertà è un'esigenza inseparabile dalla dignità della persona umana, particolar­mente in campo morale e religioso. Tale diritto deve essere civilmente riconosciuto e tutelato nei limiti del bene comune e dell'ordine pubblico».

II. La libertà umana nell'Economia della salvezza

1739 - Libertà e peccato. La libertà dell'uomo è finita e fallibile. Di fatto, l'uomo ha sbagliato. Liberamente ha peccato. Rifiutando il disegno d'amore di Dio, si è ingannato da sé; è divenuto schiavo del peccato. Questa prima alienazione ne ha generate molte altre. La storia del­l'umanità, a partire dalle origini, sta a testimoniare le sventure e le oppressioni nate dal cuore dell'uomo, in conseguenza di un cattivo uso della libertà.

1740 - Minacce per la libertà. L'esercizio della libertà non implica il di­ritto di dire e di fare qualsiasi cosa. È falso pretendere che l'uomo, sog­getto della libertà, sia un «individuo sufficiente a se stesso ed avente come fine il soddisfacimento del proprio interesse nel godimento dei be­ni terrestri». Peraltro, le condizioni d'ordine economico e sociale, poli­tico e culturale richieste per un retto esercizio della libertà troppo spes­so sono misconosciute e violate. Queste situazioni di accecamento e di ingiustizia gravano sulla vita morale ed inducono tanto i forti quanto i deboli nella tentazione di peccare contro la carità. Allontanandosi dalla legge morale, l'uomo attenta alla propria libertà, si fa schiavo di se stesso, spezza la fraternità coi suoi simili e si ribella contro la volontà divina.

1741 - Liberazione e salvezza. Con la sua croce gloriosa Cristo ha otte­nuto la salvezza di tutti gli uomini. Li ha riscattati dal peccato che li teneva in schiavitù. «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi» (Gal 5,1). In lui abbiamo comunione con la verità che ci fa liberi. Ci è stato donato lo Spirito Santo e, come insegna l'Apostolo, «dove c'è lo Spirito del Signore c'è libertà» (2 Cor 3,17). Fin d'ora ci gloriamo del­la libertà dei figli di Dio».

1742 - Libertà e grazia. La grazia di Cristo non si pone affatto in con­correnza con la nostra libertà, quando questa è in sintonia con il senso della verità e del bene che Dio ha messo nel cuore dell'uomo. Al con­trario, e l'esperienza cristiana lo testimonia specialmente nella preghie­ra, quanto più siamo docili agli impulsi della grazia, tanto più cresce la nostra libertà interiore e la sicurezza nelle prove come pure di fronte alle pressioni e alle costrizioni del mondo esterno. Con l'azione della grazia, lo Spirito Santo ci educa alla libertà spirituale per fare di noi dei liberi collaboratori della sua opera nella Chiesa e nel mondo: «Dio grande e misericordioso, allontana ogni ostacolo nel nostro cam­mino verso di te, perché, nella serenità del corpo e dello spirito, possiamo dedicarci liberamente al tuo servizio».

In sintesi

1743 - Dio «lasciò» l'uomo «in balia del suo proprio volere» (Sir 15,14), perché potesse aderire al suo Creatore liberamente e casì giungere alla beata perfezione.

1744 - La libertà è il potere di agire o di non agire e di porre così da se stessi azioni libere. Essa raggiunge la perfezione del suo atto quan­do è ordinata a Dio, Bene supremo.

1745 - La libertà caratterizza gli atti propriamente umani. Rende l'essere umano responsabile delle azioni che volontariamente compie. Il suo agire libero gli appartiene in proprio.

1746 - L'imputabilità e la responsabilità di un'azione possono essere smi­nuite o annullate dall'ignoranza, dalla violenza, dal timore e da altri fattori psichici o sociali.

1747 - Il diritto all'esercizio della libertà è un'esigenza inseparabile dalla dignità dell'uomo, particolarmente in campo religioso e morale. Ma l'esercizio della libertà non implica il supposto diritto di dire e di fare qualsiasi cosa.

1748 - «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi» (Gal 5,1).

Articolo 4

LA MORALITÀ DEGLI ATTI UMANI

1749 - La libertà fa dell'uomo un soggetto morale. Quando agisce liberamente, l'uomo è, per così dire, padre dei propri atti. Gli atti umani, cioè gli atti liberamente scelti in base ad un giudizio di coscienza, sono moralmente qualificabili. Essi sono buoni o cattivi.

I. Le fonti della moralità.

1750 - La moralità degli atti umani dipende: dall'oggetto scelto; dal fine che ci si prefigge o dall'intenzione; del1e circostanze dell'azione. L'oggetto, l'intenzione e le circostanze rappresentano le «fonti», o elementi costitutivi, della moralità degli atti umani.

1751 - L'oggetto scelto è un bene verso il quale la volontà si dirige deliberatamente. È la materia di un atto umano. L'oggetto scelto specifica moralmente l'atto del volere, in quanto la ragione lo riconosce e lo giudica conforme o no al vero bene. Le norme oggettive della moralità enunciano l'ordine razionale del bene e del male, attestato dalla coscienza.

1752 - Di fronte all'oggetto, l'intenzione si pone dalla parte del soggetto che agisce. Per il fatto che sta alla sorgente volontaria dell'azione e la determina attraverso il fine, l'intenzione è un elemento essenziale per la qualificazione morale dell'azione. Il fine è il termine primo dell'intenzio­ne e designa lo scopo perseguito nell'azione. L'intenzione è un movi­mento della volontà verso il fine; riguarda il termine dell'agire. È l'o­rientamento al bene che ci si aspetta dall'azione intrapresa. Non si limi­ta ad indirizzare le nostre singole azioni, ma può ordinare molteplici azioni verso un medesimo scopo; può orientare l'intera vita verso il fine ultimo. Per esempio, un servizio reso ha come scopo di aiutare il pros­simo, ma, al tempo stesso, può essere ispirato dall'amore di Dio come fine ultimo di tutte le nostre azioni. Una medesima azione può anche essere ispirata da diverse intenzioni; così, per esempio, si può rendere un servizio per procurarsi un favore o per trarne motivo di vanto.

1753 - Un'intenzione buona (per esempio, aiutare il prossimo) non ren­de né buono né giusto un comportamento in se stesso scorretto (come la menzogna e la maldicenza). Il fine non giustifica i mezzi. Così, non si può giustificare la condanna di un innocente come un mezzo legitti­mo per salvare il popolo. Al contrario, la presenza di un'intenzione cat­tiva (quale la vanagloria) rende cattivo un atto che, in sé, può essere buono (quale l'elemosina).

1754 - Le circostanze, ivi comprese le conseguenze, sono elementi se­condari di un atto morale. Concorrono ad aggravare oppure a ridurre la bontà o la malizia morale degli atti umani (per esempio, l'ammontare di una rapina). Esse possono anche attenuare o aumentare la responsa­bilità di chi agisce (agire, per esempio, per paura della morte). Le circo­stanze, in sé, non possono modificare la qualità morale degli atti stessi; non possono rendere né buona né giusta un'azione intrinsecamente cattiva

Il. Gli atti buoni e gli atti cattivi.

1755 - L'atto moralmente buono suppone, ad un tempo, la bontà dell'og­getto, del fine e delle circostanze. Un fine cattivo corrompe l'azione, anche se il suo oggetto, in sé, è buono (come il pregare e il digiunare per essere visti dagli uomini). L'oggetto della scelta può da solo viziare tutta un’azione. Ci sono comportamenti concreti - come la fornicazione - che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male morale.

1756 - È quindi sbagliato giudicare la moralità degli atti umani conside­rando soltanto l'intenzione che li ispira, o le circostanze (ambiente, pressione sociale, costrizione o necessità di agire, ecc.) che ne costitui­scono la cornice. Ci sono atti che per se stessi e in se stessi, indipen­dentemente dalle circostanze e dalle intenzioni, sono sempre gravemente illeciti a motivo del loro oggetto; tali la bestemmia e lo spergiuro, l'omicidio e l'adulterio. Non è lecito compiere il male perché ne derivi un bene.

In sintesi

1757 - L'oggetto, l'intenzione e le circostanze costituiscono le tre «fonti» della moralità degli atti umani.

1758 - L'oggetto scelto specifica moralmente l'atto del volere, in quanto la ragione lo riconosce e lo giudica buono o cattivo.

1759 - «Non può essere giustificata un'azione cattiva compiuta con una buona intenzione». Il fine non giustifica i mezzi.

1760 - L'atto moralmente buono suppone la bontà dell'oggetto, del fine e delle circostanze.

1761 - Vi sono comportamenti concreti che è sempre sbagliato scegliere, perché la loro scelta comporta un disordine della volontà, cioè un male morale. Non è lecito compiere il male perché ne derivi un bene.

Articolo 5

LA MORALITÀ DELLE PASSIONI

1762 - La persona umana si ordina alla beatitudine con i suoi atti libe­ri: le passioni o sentimenti che prova possono disporla a ciò e contribuirvi

I. Le passioni.

1763 - Il termine «passioni» appartiene al patrimonio cristiano. Per sentimenti o passioni si intendono le emozioni o moti della sensibilità, che spingono ad agire o a non agire in vista di ciò che è sentito o immaginato come buono o come cattivo.

1764 - Le passioni sono componenti naturali della psicologia umana; fanno da tramite e assicurano il legame tra la vita sensibile e la vita dello spirito. Nostro Signore indica il cuore dell'uomo come la sorgente da cui nasce il movimento delle passioni.

1765 - Le passioni sono molte. Quella fondamentale è l'amore provoca­to dall'attrattiva del bene. L'amore suscita il desiderio del bene che non si ha e la speranza di conseguirlo. Questo movimento ha il suo termine nel piacere e nella gioia del bene posseduto. Il timore del male causa l'odio, l'avversione e lo spavento del male futuro. Questo movimento finisce nella tristezza del male presente o nella collera che gli si oppone.

1766 - «Amare è volere il bene di qualcuno. Qualsiasi altro affetto ha la sua sorgente in questo moto originario del cuore dell'uomo verso il bene. Non si ama che il bene. «Le passioni sono cattive se l'amore è cattivo, buone se l'amore è buono».

Il. Passioni e vita morale.

1767 - Le passioni, in se stesse, non sono né buone né cattive. Non ricevono qualificazione morale se non nella misura in cui dipendono effettivamente dalla ragione e dalla volontà. Le passioni sono dette volontarie «perché sono comandate dalla volontà, oppure perché la volontà non vi resiste». È proprio della perfezione del bene morale o umano che le passioni siano regolate dalla ragione.

1768 - Non sono i grandi sentimenti a decidere della moralità o della santità delle persone; essi sono la riserva inesauribile delle immagini e degli affetti nei quali si esprime la vita morale. Le passioni sono moral­mente buone quando contribuiscono ad un'azione buona; sono cattive nel caso contrario. La volontà retta ordina al bene e alla beatitudine i moti sensibili che essa assume; la volontà cattiva cede alle passioni disordinate e le inasprisce. Le emozioni e i sentimenti possono essere assunti nelle virtù, o pervertiti nei vizi.

1769 - Nella vita cristiana, lo Spirito Santo compie la sua opera mobili­tando tutto l'essere, compresi i suoi dolori, i suoi timori e le sue tristez­ze, come è evidente nell'agonia e nella passione del Signore. In Cristo, i sentimenti umani possono ricevere la loro perfezione nella carità e nella beatitudine divina.

1770 - La perfezione morale consiste nel fatto che l'uomo non sia in­dotto al bene soltanto dalla volontà, ma anche dal suo appetito sensibi­le, secondo queste parole del salmo: «Il mio cuore e la mia carne esul­tano nel Dio vivente» (SaI 84,3).

In sintesi

1771 - Il termine «passioni» indica gli affetti o i sentimenti. Attraverso le sue emozioni, l'uomo ha il presentimento del bene e il sospetto del male.

1772 - Le principali passioni sono l'amore e l'odio, il desiderio e il timore, la gioia, la tristezza e la collera.

1773 - Nelle passioni, intese come moti della sensibilità, non c'è né bene né male morale. Ma nella misura in cui dipendono o non dipendono dalla ragione e dalla volontà, c'è in esse il bene o il male morale.

1774 - Le emozioni e i sentimenti possono essere assunti nelle virtù, o per­vertiti nei vizi.

1775 - La perfezione del bene morale si ha quando l'uomo non è indotto al bene dalla sola volontà, ma anche dal suo «cuore».

Articolo 6

LA COSCIENZA MORALE

1776 - «Nell'intimo della coscienza l'uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire e la cui voce, che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male, quando occorre, chiaramente parla alle orecchie del cuore […]. L'uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria

I. Il giudizio della coscienza.

1777 - Presente nell'intimo della persona, la coscienza morale le ingiunge, al momento opportuno, di compiere il bene e di evitare il male. Essa giudica anche le scelte concrete, approvando quelle che sono buo­ne, denunciando quelle cattive. Attesta l'autorità della verità in riferi­mento al Bene supremo, di cui la persona umana avverte l'attrattiva ed accoglie i comandi. Quando ascolta la coscienza morale, l'uomo pru­dente può sentire Dio che parla.

1778 - La coscienza morale è un giudizio della ragione mediante il qua­le la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto che sta per porre, sta compiendo o ha compiuto. In tutto quello che di­ce e fa, l'uomo ha il dovere di seguire fedelmente ciò che sa essere giu­sto e retto. E attraverso il giudizio della propria coscienza che l'uomo percepisce e riconosce i precetti della Legge divina: La coscienza «è una legge del nostro spirito, ma che lo supera, che ci dà degli ordini, che indica responsabilità e dovere, timore e speranza. [...] Essa è la messaggera di colui che, nel mondo della natura come in quello della grazia, ci parla velatamente, ci istruisce e ci guida. La co­scienza è il primo di tutti i vicari di Cristo».

1779 - L'importante per ciascuno è di essere sufficientemente presente a se stesso al fine di sentire e seguire la voce della propria coscienza. Tale ricerca di interiorità è quanto mai necessaria per il fatto che la vita spesso ci mette in condizione di sottrarci ad ogni riflessione, esame o introspezione: «Ritorna alla tua coscienza, interrogala. [...] Fratelli, rientrate in voi stessi e in tutto ciò che fate fissate lo sguardo sul Testimone, Dio».

1780 - La dignità della persona umana implica ed esige la rettitudine della coscienza morale. La coscienza morale comprende la percezione dei principi della moralità (sinderesi), la loro applicazione nelle circostanze di fatto mediante un discernimento pratico delle ragioni e dei beni e, infine, il giudizio riguardante gli atti concreti che si devono compiere o che sono già stati compiuti. La verità sul bene morale, dichiarata nella legge della ragione, è praticamente e concretamente riconosciuta attra­verso il giudizio prudente della coscienza. Si chiama prudente l'uomo le cui scelte sono conformi a tale giudizio.

1781 - La coscienza permette di assumere la responsabilità degli atti compiuti. Se l'uomo commette il male, il retto giudizio della coscienza può rimanere in lui testimone della verità universale del bene e, al tem­po stesso, della malizia della sua scelta particolare. La sentenza del giu­dizio di coscienza resta un pegno di speranza e di misericordia. Attestando la colpa commessa, richiama al perdono da chiedere, al bene da praticare ancora e alla virtù da coltivare incessantemente con la grazia di Dio: Davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1 Gv 3,19-20).

1782 - L'uomo ha il diritto di agire in coscienza e libertà, per prendere personalmente le decisioni morali. L'uomo non deve essere costretto «ad agire contro la sua coscienza. Ma non si deve neppure impedirgli di operare in conformità ad essa, soprattutto in campo religioso».

Il. La formazione della coscienza.

1783 - La coscienza deve essere educata e il giudizio morale illuminato. Una coscienza ben formata è retta e veritiera. Essa formula i suoi giu­dizi seguendo la ragione, in conformità al vero bene voluto dalla sa­pienza del Creatore. L'educazione della coscienza è indispensabile per esseri umani esposti a influenze negative e tentati dal peccato a preferi­re il loro proprio giudizio e a rifiutare gli insegnamenti certi.

1784 - L'educazione della coscienza è un compito di tutta la vita. Fin dai primi anni essa dischiude al bambino la conoscenza e la pratica del­la legge interiore, riconosciuta dalla coscienza morale. Un'educazione prudente insegna la virtù; preserva o guarisce dalla paura, dall'egoismo e dall'orgoglio, dai sensi di colpa e dai moti di compiacenza, che nasco­no dalla debolezza e dagli sbagli umani. L'educazione della coscienza garantisce la libertà e genera la pace del cuore.

1785 - Nella formazione della coscienza la Parola di Dio è la luce sul nostro cammino; la dobbiamo assimilare nella fede e nella preghiera e mettere in pratica. Dobbiamo anche esaminare la nostra coscienza rap­portandoci alla croce del Signore. Siamo sorretti dai doni dello Spirito Santo, aiutati dalla testimonianza o dai consigli altrui, e guidati dall'in­segnamento certo della Chiesa.

III. Scegliere secondo coscienza,

1786 - Messa di fronte ad una scelta morale, la coscienza può dare sia un giudizio retto in accordo con la ragione e con la Legge divina, sia, al contrario, un giudizio erroneo che da esse si discosta.

1787 - L'uomo talvolta si trova ad affrontare situazioni che rendono in­certo il giudizio morale e difficile la decisione. Egli deve sempre ricerca­re ciò che è giusto e buono e discernere la volontà di Dio espressa nella Legge divina.

1788 - A tale scopo l'uomo si sforza di interpretare i dati dell'esperien­za e i segni dei tempi con la virtù della prudenza, con i consigli di per­sone avvedute e con l'aiuto dello Spirito Santo e dei suoi doni.

1789 - Alcune norme valgono in ogni caso: Non è mai consentito fare il male perché ne derivi un bene. - La «regola d'oro»: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (Mt 7,12)» - La carità passa sempre attraverso il rispetto del prossimo e della sua coscienza. Parlando «così contro i fratelli e ferendo la loro co­scienza [...] voi peccate contro Cristo» (1 Cor 8,12). «È bene non [fare] cosa per la quale il tuo fratello possa scandalizzarsi» (Rm 14,21).

IV. Il giudizio erroneo.

1790 - L'essere umano deve sempre obbedire al giudizio certo della pro­pria coscienza. Se agisse deliberatamente contro tale giudizio, si condannerebbe da sé. Ma accade che la coscienza morale sia nell'ignoranza e dia giudizi erronei su azioni da compiere o già compiute.

1791 - Questa ignoranza spesso è imputabile alla responsabilità personale. Ciò avviene «quando l'uomo non si cura di cercare la verità e il be­ne, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine del peccato». In tali casi la persona è colpevole del male che commette.

1792 - All'origine delle deviazioni del giudizio nella condotta morale possono esserci la non conoscenza di Cristo e del suo Vangelo, i cattivi esempi dati dagli altri, la schiavitù delle passioni, la pretesa di una ma­lintesa autonomia della coscienza, il rifiuto dell'autorità della Chiesa e del suo insegnamento, la mancanza di conversione e di carità.

1793 - Se al contrario l'ignoranza è invincibile, o il giudizio erroneo è senza responsabilità da parte del soggetto morale, il male com­messo dalla persona non può esserle imputato. Nondimeno resta un male, una privazione, un disordine. È quindi necessario adoperarsi per correggere la coscienza morale dai suoi errori.

1794 - La coscienza buona e pura è illuminata dalla fede sincera. Infatti la carità «sgorga», ad un tempo, «da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera» (1 Tm 1,5): 1751 «Quanto più prevale la coscienza retta, tanto più le persone e i gruppi sociali si allontanano dal cieco arbitrio e si sforzano di conformarsi alle norme oggettive della moralità».

In sintesi

1795 - «La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nell'intimità propria».

1796 - La coscienza morale è un giudizio della ragione, con il quale la persona umana riconosce la qualità morale di un atto concreto.

1797 - Per l'uomo che ha commesso il male, la sentenza della propria coscienza rimane un pegno di conversione e di speranza.

1798 - Una coscienza ben formata è retta e veritiera. Formula i suoi giudi­zi seguendo la ragione, in conformità al vero bene voluto dalla sa­pienza del Creatore. Ciascuno deve valersi dei mezzi atti a formare la propria coscienza.

1799 - Messa di fronte ad una scelta morale, la coscienza può dare sia un retto giudizio in accordo con la ragione e con la Legge divina, sia, all'opposto, un giudizio erroneo che se ne discosta.

1800 - L'essere umano deve sempre obbedire al giudizio certo della propria coscienza.

1801 - La coscienza morale può rimanere nell'ignoranza o dare giudizi erronei. Tali ignoranze e tali errori non sempre sono esenti da colpevolezza.

1802 - La Parola di Dio è una luce sui nostri passi. La dobbiamo assimi­lare nella féde e nella preghiera e mettere in pratica. In tal modo si forma la coscienza morale

Articolo 7

LE VIRTU’

1803 - «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pen­sieri» (Fil 4,8). La virtù è una disposizione abituale e ferma a fare il bene. Essa consente alla persona, non soltanto di compiere atti buoni, ma di dare il meglio di sé. Con tutte le proprie energie sensibili e spirituali la persona virtuosa tende verso il bene; ricerca e lo sceglie in azioni concrete: «Il fine di una vita virtuosa consiste nel divenire simili a Dio».

I. Le virtù umane.

1804 - Le virtù umane sono attitudini ferme, disposizioni stabili, perfe­zioni abituali dell'intelligenza e della volontà che regolano i nostri atti, ordinano le nostre passioni e guidano la nostra condotta secondo la ragione e la fede. Esse procurano facilità, padronanza di sé e gioia per condurre una vita moralmente buona. L'uomo virtuoso è colui che liberamente pratica il bene. Le virtù morali vengono acquisite umanamente. Sono i frutti e i germi di atti moralmente buoni; dispongono tutte le potenzialità dell'essere umano ad entrare in comunione con l'amore divino.

DISTINZIONE DELLE VIRTÙ CARDINALI

1805 - Quattro virtù hanno funzione di «cardine». Per questo sono dette «cardinali»; tutte le altre si raggruppano attorno ad esse. Sono: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. «Se uno ama la giustizia, le virtù sono il frutto delle sue fatiche. Essa insegna infatti la temperanza e la prudenza, la giustizia e la fortezza» (Sap 8,7). Sotto al­tri nomi, queste virtù sono lodate in molti passi della Scrittura.

1806 - La prudenza è la virtù che dispone la ragione pratica a discernere in ogni circostanza il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per compierlo. L'uomo «accorto controlla i suoi passi» (Prv l4,15). «Siate moderati e sobri per dedicarvi alla preghiera» (1 Pt 4,7). La prudenza è la «retta norma dell'azione», scrive san Tommaso sulla scia di Ari­stotele. Essa non si confonde con la timidezza o la paura, né con la doppiezza o la dissimulazione. É detta «auriga virtutum - cocchiere del­le virtù»: essa dirige le altre virtù indicando loro regola e misura. E’ la prudenza che guida immediatamente il giudizio di coscienza. L'uomo prudente decide e ordina la propria condotta seguendo questo giudizio. Grazie alla virtù della prudenza applichiamo i principi morali ai casi particolari senza sbagliare e superiamo i dubbi sul bene da compiere e sul male da evitare.

1807 - La giustizia è la virtù morale che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto. La giustizia verso Dio è chiamata «virtù di religione». La giustizia verso gli uomini dispone a rispettare i diritti di ciascuno e a stabilire nelle relazioni umane l'armonia che promuove l'equità nei confronti delle persone e del bene comune. L'uomo giusto, di cui spesso si fa parola nei Libri Sacri, si distingue per l'abituale dirittura dei propri pensieri e per la rettitudine della propria condotta verso il prossimo. «Non tratterai con parzialità il povero, nè userai preferenze verso il potente; ma giudiche­rai il tuo prossimo con giustizia» (Lv 19,15). «Voi, padroni, date ai vostri servi ciò che è giusto ed equo, sapendo che anche voi avete un padrone in cielo» (Col 4,1).

1808 - La fortezza è la virtù morale che, nelle difficoltà, assicura la fer­mezza e la costanza nella ricerca del bene. Essa rafforza la decisione di resistere alle tentazioni e di superare gli ostacoli nella vita morale. La virtù della fortezza rende capaci di vincere la paura, perfino della mor­te, e di affrontare la prova e le persecuzioni. Dà il coraggio di giungere fino alla rinuncia e al sacrificio della propria vita per difendere una giusta causa. «Mia forza e mio canto è il Signore» (Sal 118,14). «Voi avrete tribolazione nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mon­do» (Gv 16,33).

1809 - La temperanza è la virtù morale che modera l'attrattiva dei piaceri e rende capaci di equilibrio nell'uso dei beni creati. Essa assicura il dominio della volontà sugli istinti e mantiene i desideri entro i limiti dell'onestà. La persona temperante orienta al bene i propri appetiti sen­sibili, conserva una sana discrezione, e non segue il proprio istinto e la propria forza assecondando i desideri del proprio cuore. La temperan­za è spesso lodata nell'Antico Testamento: «Non seguire le passioni; poni un freno ai tuoi desideri» (Sir 18,30). Nel Nuovo Testamento è chiamata «moderazione» o «sobrietà». Noi dobbiamo «vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo» (Tt 2,12). «Vivere bene altro non è che amare Dio con tutto il proprio cuore, con tutta la propria anima, e con tutto il proprio agire. Gli si dà (con la temperanza) un amore totale che nessuna sventura può far vacillare (e questo mette in evidenza la fortezza), un amore che obbedisce a lui solo (e questa è la giustizia), che vigila al fine di discernere ogni cosa, nel timore di lasciarsi sorprendere dall'astuzia e dalla menzogna (e que­sta è la prudenza)».

LE VIRTÙ E LA GRAZIA

1810 - Le virtù umane acquisite mediante l'educazione, mediante atti deliberati e una perseveranza sempre rinnovata nello sforzo, sono purificate ed elevate dalla grazia divina. Con l'aiuto di Dio forgiano il carattere e rendono spontanea la pratica del bene. L'uomo virtuoso è felice di praticare le virtù.

1811 - Per l'uomo ferito dal peccato non è facile conservare l'equilibrio morale. Il dono della salvezza fattoci da Cristo ci dà la grazia necessaria per perseverare nella ricerca delle virtù. Ciascuno deve sempre im­plorare questa grazia di luce e di forza, ricorrere ai sacramenti, coope­rare con lo Spirito Santo, seguire i suoi inviti ad amare il bene e a stare lontano dal male

Il. Le virtù teologali.

1812 - Le virtù umane si radicano nelle virtù teologali, le quali rendono le facoltà dell'uomo idonee alla partecipazione alla natura divina. Le virtù teologali, infatti, si riferiscono direttamente a Dio. Esse dispongo­no i cristiani a vivere in relazione con la Santissima Trinità. Hanno come origine, causa ed oggetto Dio Uno e Trino.

1813 - Le virtù teologali fondano, animano e caratterizzano l'agire mo­rale del cristiano. Esse informano e vivificano tutte le virtù morali. So­no infuse da Dio nell'anima dei fedeli per renderli capaci di agire quali suoi figli e meritare la vita eterna. Sono il pegno della presenza e del­l'azione dello Spirito Santo nelle facoltà dell'essere umano. Tre sono le virtù teologali: la fede, la speranza e la carità.

LA FEDE

1814 - La fede è la virtù teologale per la quale noi crediamo in Dio e a tutto ciò che egli ci ha detto e rivelato, e che la Chiesa ci propone da credere, perché egli è la stessa verità. Con la fede «l'uomo si abban­dona tutto a Dio liberamente». Per questo il credente cerca di cono­scere e di fare la volontà di Dio. «Il giusto vivrà mediante la fede» (Rm 1,17). La fede viva «opera per mezzo della carità» (Gal 5,6).

1815 - Il dono della fede rimane in colui che non ha peccato contro di essa. Ma «la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26). Se non si ac­compagna alla speranza e all'amore, la fede non unisce pienamente il fedele a Cristo e non ne fa un membro vivo del suo corpo.

1816 - Il discepolo di Cristo non deve soltanto custodire la fede e vive­re di essa, ma anche professarla, darne testimonianza con franchezza e diffonderla: «Devono tutti essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini, e a seguirlo sulla via della croce attraverso le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa». Il servizio e la testimonianza della fe­de sono indispensabili per la salvezza: «Chi [...] mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò da­vanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,32-33).

LA SPERANZA

1817 - La speranza è la virtù teologale per la quale desideriamo il regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull'aiuto della grazia dello Spirito Santo. «Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è fedele colui che ha promesso» (Eb 10,23). Lo Spirito è stato «effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, Salvatore nostro, perché, giustificati dalla sua grazia, diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna» (Tt 3,6-7).

1818 - La virtù della speranza risponde all'aspirazione alla felicità, che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo; essa assume le attese che ispirano le attività degli uomini; le purifica per ordinarle al regno dei cieli; salvaguarda dallo scoraggiamento; sostiene in tutti i momenti di abban­dono; dilata il cuore nell'attesa della beatitudine eterna. Lo slancio del­la speranza preserva dall'egoismo e conduce alla gioia della carità.

1819 - La speranza cristiana riprende e porta a pienezza la speranza del popolo eletto, la quale trova la propria origine ed il proprio modello nella speranza di Abramo, colmato in Isacco delle promesse di Dio e purificato dalla prova del sacrificio. «Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli» (Rm 4,18).

1820 - La speranza cristiana si sviluppa, fin dagli inizi della predicazio­ne di Gesù, nell'annuncio delle beatitudini. Le beatitudini elevano la no­stra speranza verso il cielo come verso la nuova Terra promessa; ne tracciano il cammino attraverso le prove che attendono i discepoli di Gesù. Ma per i meriti di Gesù Cristo e della sua passione, Dio ci cu­stodisce nella speranza che «non delude» (Rm 5,5). La speranza e l'«àncora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra (…)» là «dove Gesù è entrato per noi come precursore» (Eb 6,19-20). É altresì un'arma che ci protegge nel combattimento della salvezza: «Dobbiamo essere [...] rivestiti con la corazza della fede e della carità, avendo come elmo la speranza della salvezza» (I Ts 5,8). Essa ci procura la gioia an­che nella prova: «Lieti nella speranza, forti nella tribolazione» (Rin 12,12). Si esprime e si alimenta nella preghiera, in modo particolarissi­mo nella preghiera del Signore, sintesi di tutto ciò che la speranza ci fa desiderare.

1821 - Noi possiamo, dunque, sperare la gloria del cielo promessa da Dio a coloro che lo amano e fanno la sua volontà. In ogni circostanza ognuno deve sperare, con la grazia di Dio, di perseverare sino alla fine e ottenere la gioia del cielo, quale eterna ricompensa di Dio per le buone opere compiute con la grazia di Cristo. Nella speranza la Chiesa prega che «tutti gli uomini siano salvati» (1 Tm 2,4). Essa ane­la ad essere unita a Cristo, suo Sposo, nella gloria del cielo: «Spera, anima mia, spera. Tu non conosci il giorno né l'ora. Veglia premurosamente, tutto passa in un soffio, sebbene la tua impazienza possa rendere incerto ciò che è certo, e lungo un tempo molto breve. Pensa che quanto più lotterai, tanto più proverai l'amore che hai per il tuo Dio e tanto più un giorno godrai con il tuo Diletto, in una felicità ed in un'estasi che mai potranno aver fine».

LA CARITÀ

1822 - La carità è la virtù teologale per la quale amiamo Dio sopra ogni cosa per se stesso, e il nostro prossimo come noi stessi per amore di Dio.

1823 - Gesù fa della carità il comandamento nuovo. Amando i suoi «sino alla fine» (Gv 13,1), egli manifesta l'amore che riceve dal Padre. Amandosi gli unì gli altri, i discepoli imitano l'amore di Gesù, che essi ricevono a loro volta. Per questo Gesù dice: «Come il Padre ha amato me, così anch'io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). E ancora: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12).

1824 - La carità, frutto dello Spirito e pienezza della Legge, osserva i comandamenti di Dio e del suo Cristo: «Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15,9-10).

1825 - Cristo è morto per amore verso di noi, quando eravamo ancora «nemici» (Rm 5,10). Il Signore ci chiede di amare come lui, perfino i nostri nemici, di farci prossimo del più lontano, di amare i bambini e i poveri come lui stesso. L'Apostolo san Paolo ha dato un ineguagliabile quadro della carità: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo in­teresse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode del­l'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 13,4-7).

1826 - Se non avessi la carità, dice ancora l'Apostolo, «non sono nul­la». E tutto ciò che è privilegio, servizio, perfino virtù... senza la carità, «niente mi giova». La carità è superiore a tutte le virtù. E la prima delle virtù teologali: «Queste le tre cose che rimangono: la fede, la spe­ranza e la carità; ma di tutte più grande e la carità» (1 Cor 13,13).

1827 - L'esercizio di tutte le virtù è animato e ispirato dalla carità. Questa è il «vincolo di perfezione» (Col 3,14); è la forma delle virtù; le articola e le ordina tra loro; è sorgente e termine della loro pratica cri­stiana. La carità garantisce e purifica la nostra capacità umana di ama­re. La eleva alla perfezione soprannaturale dell'amore divino.

1828 - La pratica della vita morale animata dalla carità dà al cristiano la libertà spirituale dei figli di Dio. Egli non sta davanti a Dio come uno schiavo, nel timore servile, né come il mercenario in cerca del sala­rio, ma come un figlio che corrisponde all'amore di colui che «ci ha amati per primo » (I Gv 4,19): «O ci allontaniamo dal male per timore del castigo e siamo nella disposizione dello schiavo. O ci lasciamo prendere dall'attrattiva della ricompensa e siamo simili ai mercenari. Oppure è per il bene in se stes­so e per l'amore di colui che comanda che noi obbediamo [...] e allora siamo nella disposizione dei figli».

1829 - La carità ha come frutti la gioia, la pace e la misericordia; esige la generosità e la correzione fraterna; è benevolenza; suscita la recipro­cità, si dimostra sempre disinteressata e benefica; è amicizia e comunione: «il compimento di tutte le nostre opere è l'amore. Qui è il nostro fine; per questo noi corriamo, verso questa meta corriamo; quando saremo giunti, vi troveremo riposo

III. I doni e i frutti dello Spirito Santo.

1830 - La vita morale dei cristiani è sorretta dai doni dello Spirito San­to. Essi sono disposizioni permanenti che rendono l'uomo docile a seguire le mozioni dello Spirito Santo.

1831 - I sette doni dello Spirito Santo sono la sapienza, l'intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio. Apparten­gono nella loro pienezza a Cristo, Figlio di Davide. Essi completano e portano alla perfezione le virtù di coloro che li ricevono. Rendono i fedeli docili ad obbedire con prontezza alle ispirazioni divine. «Il tuo Spirito buono mi guidi in terra piana» (Sal 143,10). «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, costoro sono figli di Dio. [...] Se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8,14.17).

1832 - I frutti dello Spirito sono perfezioni che lo Spirito Santo plasma in noi come primizie della gloria eterna. La tradizione della Chiesa ne enumera dodici: «amore, gioia, pace, pazienza, longanimità, bontà, be­nevolenza, mitezza, fedeltà, modestia, continenza, castità» (Gal 5,22-23, vulg..).

In sintesi

1833 - La virtù é una disposizione abituale e ferma a compiere il bene.

1834 - Le virtù umane sono disposizioni stabili dell'intelligenza e della vo­lontà, che regolano i nostri atti, ordinano le nostre passioni e indirizzano la nostra condotta in conformità alla ragione e alla fede. Possono essere raggruppate attorno a quattro virtù cardinali: la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza.

1835 - La prudenza dispone la ragione pratica a discernere, in ogni circo­stanza, il nostro vero bene e a scegliere i mezzi adeguati per attuarlo.

1836 - La giustizia consiste nella volontà costante e ferma di dare a Dio e al prossimo ciò che é loro dovuto.

1837 - La fortezza assicura, nelle difficoltà, la fermezza e la costanza nella ricerca del bene.

1838 - La temperanza modera l'attrattiva dei piaceri sensibili e rende capa­ci di equilibrio nell'uso dei beni creati.

1839 - Le virtù morali crescono per mezzo dell'educazione, di atti deliberati e della perseveranza nello sforzo. La grazia divina le purifica e le eleva.

1840 - Le virtù teologali dispongono i cristiani a vivere in relazione con la Santissima Trinità. Hanno Dio come origine, motivo e oggetto, Dio conosciuto mediante la fede, sperato e amato per se stesso.

1841 - Tre sono le virtù teologali: la fede, la speranza e la carità. Esse informano e vivificano tutte le virtù morali.

1842 - Per la fede noi crediamo in Dio e crediamo tutto ciò che egli ci ha rivelato e che la Chiesa ci propone da credere.

1843 - Per la speranza noi desideriamo e aspettiamo da Dio, con ferma fiducia, la vita eterna e le grazie per meritarla.

1844 - Per la carità noi amiamo Dio al di sopra di tutto e il nostro prossi­mo come noi stessi per amore di Dio. Essa é «il vincolo di perfe­zione» (Col 3,14) e la forma di tutte le virtù.

1845 - I sette doni dello Spirito Santo dati ai cristiani sono la sapienza, l'intelletto, il consiglio, la jòrtezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio.

Articolo 8

IL PECCATO

I. La misericordia e il peccato.

1846 - Il Vangelo è la rivelazione, in Gesù Cristo, della misericordia di Dio verso i peccatori. L'angelo lo annunzia a Giuseppe: «Tu lo chia­merai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,21). La stessa cosa si può dire dell'Eucaristia, sacramento della redenzione: «Questo è il mio sangue dell'alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati» (Mt 26,28).

1847 - «Dio, che ci ha creati senza di noi, non ha voluto salvarci senza di noi. L'accoglienza della sua misericordia esige da parte nostra il riconoscimento delle nostre colpe. « Se diciamo che siamo senza pecca­to, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i no­stri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purifi­cherà da ogni colpa» (I Gv 1,8-9).

1848 - Come afferma san Paolo: «Laddove è abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia» (Rm 5,20). La grazia però, per compiere la sua opera, deve svelare il peccato per convertire il nostro cuore e accordarci «la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore» (Rm 5,21). Come un medico che esamina la piaga prima di medicarla, Dio, con la sua Parola e il suo Spirito, getta una viva luce sul peccato: «La conversione richiede la convinzione del peccato, contiene in sé il giu­dizio interiore della coscienza, e questo, essendo una verifica dell'azione dello Spirito di verità nell'intimo dell'uomo, diventa nello stesso tempo il nuovo inizio dell'elargizione della grazia e dell'amore: "Ricevete lo Spirito Santo". Così in questo "convincere quanto al peccato" scopria­mo una duplice elargizione: il dono della verità della coscienza e il dono della certezza della redenzione. Lo Spirito di verità è il Consolatore».

Il. La definizione di peccato.

1849 - Il peccato è una mancanza contro la ragione, la verità, la retta coscienza; è una trasgressione in ordine all'amore vero, verso Dio e ver­so il prossimo, a causa di un perverso attaccamento a certi beni. Esso ferisce la natura dell'uomo e attenta alla solidarietà umana. E’ stato definito «una parola, un atto o un desiderio contrari alla Legge eterna».

1850 - Il peccato è un'offesa a Dio: «Contro di te, contro te solo ho peccato. Quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto» (SaI 51,6). Il peccato si erge contro l'amore di Dio per noi e allontana da lui i no­stri cuori. Come il primo peccato, è una disobbedienza, una ribellione contro Dio, a causa della volontà di diventare «come Dio» (Gn 3,5), conoscendo e determinando il bene e il male. Il peccato pertanto è «amore di sé fino al disprezzo di Dio». Per tale orgogliosa esaltazio­ne di sé, il peccato è diametralmente opposto all'obbedienza di Gesù, che realizza la salvezza.

1851 - È proprio nella passione, in cui la misericordia di Cristo lo vin­cerà, che il peccato manifesta in sommo grado la sua violenza e la sua molteplicità: incredulità, odio omicida, rifiuto e scherno da parte dei capi e del popolo, vigliaccheria di Pilato e crudeltà dei soldati, tradi­mento di Giuda tanto pesante per Gesù, rinnegamento di Pietro, ab­bandono dei discepoli. Tuttavia, proprio nell'ora delle tenebre e del principe di questo mondo, il sacrificio di Cristo diventa segretamente la sorgente dalla quale sgorgherà inesauribilmente il perdono dei nostri peccati

III. La diversità dei peccati.

1852 - La varietà dei peccati è grande. La Scrittura ne dà parecchi elen­chi. La lettera ai Gàlati contrappone le opere della carne al frutto dello Spirito: «Le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, li­bertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa que­ste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non eredite­rà il regno di Dio» (GaI 5,l9-2l).

1853 - I peccati possono essere distinti secondo il loro oggetto, come si fa per ogni atto umano, oppure secondo le virtù alle quali si oppongono, per eccesso o per difetto, oppure secondo i comandamenti cui si oppongono. Si possono anche suddividere a seconda che riguardino Dio, il prossimo o se stessi; si pos­sono distinguere in peccati spirituali e carnali, o ancora in peccati di pensiero, di parola, di azione e di omissione. La radice del peccato è nel cuore dell'uo­mo, nella sua libera volontà, secondo quel che insegna il Signore: «Dal cuore [...] provengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultéri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie. Queste sono le cose che rendono im­mondo l'uomo» (Mt 15,19-20). Il cuore è anche la sede della carità, principio delle opere buone e pure, che il peccato ferisce.

IV. La gravità del peccato: peccato mortale e veniale.

1854 - È opportuno valutare i peccati in base alla loro gravità. La di­stinzione tra peccato mortale e peccato veniale, già adombrata nella Scrittura, si è imposta nella Tradizione della Chiesa. L'esperienza degli uomini la convalida.

1855 - Il peccato mortale distrugge la carità nel cuore dell'uomo a causa di una violazione grave della Legge di Dio; distoglie l'uomo da Dio, che è il suo fine ultimo e la sua beatitudine, preferendo a lui un bene inferiore. Il peccato veniale lascia sussistere la carità, quantunque la offenda e la ferisca.

1856 - Il peccato mortale, in quanto colpisce in noi il principio vitale che è la carità, richiede una nuova iniziativa della misericordia di Dio e una conversione del cuore, che normalmente si realizza nel sacramento della Riconciliazione: «Quando la volontà si orienta verso una cosa di per sé contraria alla carità, dalla quale siamo ordinati al fine ultimo, il peccato, per il suo stesso oggetto, ha di che essere mortale (...) tanto se è contro l'amore di Dio, come la bestemmia, lo spergiuro, ecc., quanto se è contro l'amore del prossimo, come l'omicidio, l'adulterio, ecc. [...] Invece, quando la volontà del peccatore si volge a una cosa che ha in sé un disordine, ma tuttavia non va contro l'amore di Dio e del prossimo, è il caso di paro­le oziose, di riso inopportuno, ecc., tali peccati sono veniali.

1857 - Perché un peccato sia mortale si richiede che concorrano tre con­dizioni: «È peccato mortale quello che ha per oggetto una materia gra­ve e che, inoltre, viene commesso con piena consapevolezza e deliberato consenso».

1858 - La materia grave è precisata dai dieci comandamenti, secondo la risposta di Gesù al giovane ricco: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre» (Mc 10,19). La gravità dei peccati è più o meno grande: un omicidio è più grave di un furto. Si deve tenere conto anche della qualità delle persone lese: la violenza esercitata contro i genitori è di per sé più grave di quella fatta ad un estraneo.

1859 - Perché il peccato sia mortale deve anche essere commesso con piena consapevolezza e pieno consenso. Presuppone la conoscenza del ca­rattere peccaminoso dell'atto, della sua opposizione alla Legge di Dio. Implica inoltre un consenso sufficientemente libero perché sia una scelta personale. L'ignoranza simulata e la durezza del cuore non diminui­scono il carattere volontario del peccato ma, anzi, lo accrescono.

1860 - L'ignoranza involontaria può attenuare se non annullare l'imputa­bilità di una colpa grave. Si presume però che nessuno ignori i principi della legge morale che sono iscritti nella coscienza di ogni uomo. Gli impulsi della sensibilità, le passioni possono ugualmente attenuare il ca­rattere volontario e libero della colpa; come pure le pressioni esterne o le turbe patologiche. Il peccato commesso con malizia, per una scelta deliberata del male, è il più grave.

1861 - Il peccato mortale è una possibilità radicale della libertà umana, come lo stesso amore. Ha come conseguenza la perdita della carità e la privazione della grazia santificante, cioè dello stato di grazia. Se non è riscattato dal pentimento e dal perdono di Dio, provoca l'esclusione dal regno di Cristo e la morte eterna dell'inferno; infatti la nostra libertà ha il potere di fare scelte definitive, irreversibili. Tuttavia, anche se pos­siamo giudicare che un atto è in sé una colpa grave, dobbiamo però la­sciare il giudizio sulle persone alla giustizia e alla misericordia di Dio.

1862 - Si commette un peccato veniale quando, trattandosi di materia leggera, non si osserva la misura prescritta dalla legge morale, oppure quando si disobbedisce alla legge morale in materia grave, ma senza piena consapevolezza o senza totale consenso.

1863 - Il peccato veniale indebolisce la carità; manifesta un affetto di­sordinato per dei beni creati; ostacola i progressi dell'anima nell'eserci­zio delle virtù e nella pratica del bene morale; merita pene temporali. Il peccato veniale deliberato e che sia rimasto senza pentimento, ci dispo­ne poco a poco a commettere il peccato mortale. Tuttavia il peccato veniale non rompe l'alleanza con Dio. E’ umanamente riparabile con la grazia di Dio. «Non priva della grazia santificante, dell'amicizia con Dio, della carità, né quindi della beatitudine eterna». «L'uomo non può non avere almeno peccati lievi, fin quando resta nel corpo. Tuttavia non devi dar poco peso a questi peccati, che si defini­scono lievi. Tu li tieni in poco conto quando li soppesi, ma che spaven­to quando li numeri! Molte cose leggere, messe insieme, ne formano una pesante: molte gocce riempiono un fiume e così molti granelli fanno un mucchio. Quale speranza resta allora. Si faccia anzitutto la Confessione... «Qualunque peccato e bestemmia sarà perdonata agli uomini, ma la bestemmia contro lo Spirito non sarà perdonata» (Mt l2,3l). La misericordia di Dio non conosce limiti, ma chi deliberatamente rifiuta di accoglierla attraverso il pentimento, respinge il perdono dei propri peccati e la salvezza offerta dallo Spirito Santo. Un tale indurimento può portare alla impenitenza finale e alla rovina eterna

V. La proliferazione del peccato.

1865 - Il peccato trascina al peccato; con la ripetizione dei medesimi at­ti genera il vizio. Ne derivano inclinazioni perverse che ottenebrano la coscienza e alterano la concreta valutazione del bene e del male. In tal modo il peccato tende a riprodursi e a rafforzarsi, ma non può distrug­gere il senso morale fino alla sua radice.

1866 - I vizi possono essere catalogati in parallelo alle virtù alle quali si oppongono, oppure essere collegati ai peccati capitali che l'esperienza cristiana ha distinto, seguendo san Giovanni Cassiano e san Gregorio Magno. Sono chiamati capitali perché generano altri peccati, altri vizi. Sono la superbia, l'avarizia, l'invidia, l'ira, la lussuria, la golosità, la pigrizia o accidia.

1867 - La tradizione catechistica ricorda pure che esistono «peccati che gridano verso il cielo». Gridano verso il cielo: il sangue di Abele; il peccato dei Sodomiti; il lamento del popolo oppresso in Egitto; il lamento del forestiero, della vedova e dell'orfano; l'ingiustizia verso il salariato.

1868 - Il peccato è un atto personale. Inoltre, abbiamo una responsabi­lità nei peccati commessi dagli altri, quando vi cooperiamo: - prendendovi parte direttamente e volontariamente; - comandandoli, consigliandoli, lodandoli o approvandoli; - non denunciandoli o non impedendoli, quando si è tenuti a farlo; - proteggendo coloro che commettono il male.

1869 - Così il peccato rende gli uomini complici gli uni degli altri e fa regnare tra di loro la concupiscenza, la violenza e l'ingiustizia. I peccati sono all'origine di situazioni sociali e di istituzioni contrarie alla bontà divina. Le «strutture di peccato» sono espressione ed effetto dei peccati personali. Inducono le loro vittime a commettere, a loro volta, il male. In un senso analogico esse costituiscono un «peccato sociale».

In sintesi

1870 - «Dio [...] ha rinchiuso tutti nella disobbedienza per usare a tutti misericordia» (Rm 11,32).

1871 - Il peccato é «una parola, un atto o un desiderio contrari alla Leg­ge eterna». È un'offesa a Dio. Si erge contro Dio in una disobbe­dienza contraria all'obbedienza di Cristo.

1872 - Il peccato è un atto contrario alla ragione. Ferisce la natura del­l'uomo ed attenta alla solidarietà umana.

1873 - La radice di tutti i peccati è nel cuore dell'uomo. Le loro specie e la loro gravità si misurano principalmente in base al loro oggetto.

1874 - Scegliere deliberatamente, cioè sapendolo e volendolo. una cosa gra­vemente contraria alla Legge divina e al fine ultimo dell'uomo è commettere un peccato mortale. Esso distrugge in noi la carità, sen­za la quale la beatitudine eterna è impossibile. Se non ci si pente, conduce alla morte eterna.

1875 - Il peccato veniale rappresenta un disordine morale riparabile per mezzo della carità che tale peccato lascia sussistere in noi.

1876 - La ripetizione dei peccati. anche veniali, genera i vizi, tra i quali si distinguono i peccati capitali.

CAPITOLO SECONDO

LA COMUNITÀ UMANA

1877 - La vocazione dell'umanità è di rendere manifesta l'immagine di Dio e di essere trasformata ad immagine del Figlio unigenito del Padre. Tale vocazione riveste una forma personale, poiché ciascuno è chiamato ad entrare nella beatitudine divina; ma riguarda anche la comunità umana nel suo insieme.

Articolo 1

LA PERSONA E LA SOCIETÀ

I. Il carattere comunitario della vocazione umana.

1878 - Tutti gli uomini sono chiamati al medesimo fine, Dio stesso. Esi­ste una certa somiglianza tra l'unità delle Persone divine e la fraternità che gli uomini devono instaurare tra loro, nella verità e nella carità. L'amore del prossimo è inseparabile dall'amore per Dio.

1879 - La persona umana ha bisogno della vita sociale. Questa non è per l'uomo qualcosa di aggiunto, ma un'esigenza della sua natura. At­traverso il rapporto con gli altri, la reciprocità dei servizi e il dialogo con i fratelli, l'uomo sviluppa le proprie virtualità, e così risponde alla propria vocazione.

1880 - Una società è un insieme di persone legate in modo organico da un principio di unità che supera ognuna di loro. Assemblea insieme vi­sibile e spirituale, una società dura nel tempo: è erede del passato e prepara l'avvenire. Grazie ad essa, ogni uomo è costituito «erede», ri­ceve dei «talenti» che arricchiscono la sua identità e che sono da far fruttificare. Giustamente, ciascuno deve dedizione alle comunità di cui fa parte e rispetto alle autorità incaricate del bene comune.

1881 - Ogni comunità si definisce in base al proprio fine e conseguente­mente obbedisce a regole specifiche; però «principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana.

1882 - Certe società, quali la famiglia e la comunità civica, sono più imme­diatamente rispondenti alla natura dell'uomo. Sono a lui necessarie. Al fi­ne di favorire la partecipazione del maggior numero possibile di persone alla vita sociale, si deve incoraggiare la creazione di associazioni e di istitu­zioni d'elezione «a scopi economici, culturali, sociali, sportivi, ricreativi, professionali, politici, tanto all'interno delle comunità politiche, quanto sul piano mondiale». Tale «socializzazione» esprime parimenti la tendenza naturale che spinge gli esseri umani ad associarsi, al fine di conseguire obiettivi che superano le capacità individuali. Essa sviluppa le doti della persona, in particolare, il suo spirito di iniziativa e il suo senso di respon­sabilità. Concorre a tutelare i suoi diritti.

1883 - La socializzazione presenta anche dei pericoli. Un intervento troppo spinto dello Stato può minacciare la libertà e l'iniziativa perso­nali. La dottrina della Chiesa ha elaborato il principio detto di sussidia­rietà. Secondo tale principio, «una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessi­tà e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre compo­nenti sociali, in vista del bene comune».

1884 - Dio non ha voluto riservare solo a sé l'esercizio di tutti i poteri. Egli assegna ad ogni creatura le funzioni che essa è in grado di eserci­tare, secondo le capacità proprie della sua natura. Questo modo di go­vernare deve essere imitato nella vita sociale. Il comportamento di Dio nel governo del mondo, che testimonia un profondissimo rispetto per la libertà umana, dovrebbe ispirare la saggezza di coloro che governano le comunità umane. Costoro devono comportarsi come ministri della provvidenza divina.

1885 - Il principio di sussidiarietà si oppone a tutte le forme di colletti­vismo. Esso precisa i limiti dell'intervento dello Stato. Mira ad armo­nizzare i rapporti tra gli individui e le società. Tende ad instaurare un autentico ordine internazionale

II. La conversione e la società.

1886 - La società è indispensabile alla realizzazione della vocazione umana. Per raggiungere questo fine è necessario che sia rispettata la giusta gerarchia dei valori che «subordini le dimensioni materiali e istintive a quelle interiori e spirituali»: «La convivenza umana deve essere considerata anzitutto come un fatto spirituale: quale comunicazione di conoscenze nella luce del vero; eserci­zio di diritti e adempimento di doveri; impulso e richiamo al bene mo­rale; come nobile comune godimento del bello in tutte le sue legittime espressioni; permanente disposizione ad effondere gli uni negli altri il meglio di se stessi: andito ad una mutua e sempre più ricca assimilazio­ne di valori spirituali: valori nei quali trovano la loro perenne vivifica­zione e il loro orientamento di fondo le espressioni culturali, il mondo economico, le istituzioni sociali, i movimenti e i regimi politici, gli ordi­namenti giuridici e tutti gli altri elementi esteriori, in cui si articola e si esprime la convivenza nel suo evolversi incessante».

1887 - Lo scambio dei mezzi con i fini, che porta a dare valore di fine ultimo a ciò che è soltanto un mezzo per concorrervi, oppure a consi­derare le persone come puri mezzi in vista di un fine, genera strutture ingiuste che «rendono ardua o praticamente impossibile, una condotta cristiana, conformata ai precetti del Sommo Legislatore».

1888 - Occorre, quindi, far leva sulle capacità spirituali e morali della per­sona e sull'esigenza permanente della sua conversione interiore, per ottenere cambiamenti sociali che siano realmente a suo servizio. La priorità ricono­sciuta alla conversione del cuore non elimina affatto, anzi impone l'obbligo di apportare alle istituzioni e alle condizioni di vita, quando esse provochi­no il peccato, i risanamenti opportuni, perché si conformino alle norme della giustizia e favoriscano il bene anziché ostacolarlo.

1889 - Senza l'aiuto della grazia, gli uomini non saprebbero «scorgere il sentiero spesso angusto tra la viltà che cede al male e la violenza che, illudendosi di combatterlo, lo aggrava». È il cammino della carità, cioè dell'amore di Dio e del prossimo. La carità rappresenta il più grande comandamento sociale. Essa rispetta gli altri e i loro diritti. Esige la pratica della giustizia e soltanto essa ce ne rende capaci. Essa ispira una vita che si fa dono di sé: «Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà» (Lc 17,33).

In sintesi

1890 - Esiste una certa somiglianza tra l'unità delle Persone divine e la fraternità che gli uomini devono instaurare tra loro.

1891 - Per svilupparsi in conformità alla propria natura, la persona umana ha bisogno della vita sociale. Certe società, quali la famiglia e la comunità civica, sono più immediatamente rispondenti alla natura dell'uomo.

1892 - «Principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana».

1893 - Si deve incoraggiare una larga partecipazione ad associazioni ed istituzioni d'elezione.

1894 - Secondo il principio di sussidiarietà, nè lo Stato nè alcuna società più grande devono sostituirsi all'iniziativa e alla responsabilità delle persone e dei corpi intermedi.

1895 - La società deve agevolare l'esercizio delle virtù, non ostacolano. Una giusta gerarchia dei valori deve ispirarla.

1896 - Là dove il peccato perverte il clima sociale, occorre far appello alla conversione dei cuori e alla grazia di Dio. La carità stimola a giu­ste riforme. Non c'è soluzione alla questione sociale al di fuori del Vangelo.

Articolo 2

LA PARTECIPAZIONE ALLA VITA SOCIALE

I. L'autorità.

1897 - «La convivenza fra gli esseri umani non può essere ordinata e feconda se in essa non è presente un'autorità legittima che assicuri l'or­dine e contribuisca all'attuazione del bene comune in grado sufficiente». Si chiama «autorità» il titolo in forza del quale persone o istitu­zioni promulgano leggi e danno ordini a degli uomini e si aspettano obbedienza da parte loro.

1898 - Ogni comunità umana ha bisogno di un'autorità che la regga. Tale autorità trova il proprio fondamento nella natura umana. E’ neces­saria all'unità della comunità civica. Suo compito è quello di assicurare, per quanto possibile, il bene comune della società.

1899 - L'autorità, esigita dall'ordine morale, viene da Dio: «Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite; poiché non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppon­gono si attireranno addosso la condanna» (Rm l3,l~2).

1900 - Il dovere di obbedienza impone a tutti di tributare all'autorità gli onori che ad essa sono dovuti e di circondare di rispetto e, secondo il loro merito, di gratitudine e benevolenza le persone che ne esercitano l'ufficio. Alla penna del Papa san Clemente di Roma è dovuta la più antica pre­ghiera della Chiesa per l'autorità politica: «O Signore, dona loro salute, pace, concordia, costanza, affinché possano esercitare, senza ostacolo, il potere sovrano che loro hai confe­rito. Sei tu, o Signore, re celeste dei secoli, che doni ai figli degli uomi­ni la gloria, l'onore, il potere sulla terra. Perciò dirigi tu, o Signore, le loro decisioni a fare ciò che è bello e che ti è gradito; e cosi possano esercitare il potere, che tu hai loro conferito, con religiosità, con pace, con clemenza, e siano degni della tua misericordia».

1901 - Se l'autorità rimanda ad un ordine prestabilito da Dio, «la de­terminazione dei regimi politici e la designazione dei governanti sono lasciate alla libera decisione dei cittadini», La diversità dei regimi politici è moralmente ammissibile, purché essi concorrano al bene legittimo delle comunità che li adottano. I regi­mi la cui natura è contraria alla legge naturale, all'ordine pubblico e ai fondamentali diritti delle persone, non possono realizzare il bene comu­ne delle nazioni alle quali essi si sono imposti.

1902 - L'autorità non trae da se stessa la propria legittimità morale. Non deve comportarsi dispoticamente, ma operare per il bene comune come «forza morale che si appoggia sulla libertà e sulla coscienza del dovere e del compito assunto»: «La legislazione umana non riveste il carattere di legge se non nella misura in cui si conforma alla retta ragione, da ciò è evidente che essa trae la sua forza dalla Legge eterna. Nella misura in cui si allontana dalla ragione, la si deve dichiarare ingiusta, perché non realizza il con­cetto di legge: è piuttosto una forma di violenza».

1903 - L'autorità è esercitata legittimamente soltanto se ricerca il bene comune del gruppo considerato e se, per conseguirlo, usa mezzi moral­mente leciti. Se accade che i governanti emanino leggi ingiuste o pren­dano misure contrarie all'ordine morale, tali disposizioni non sono ob­bliganti per le coscienze. «In tal caso, anzi, chiaramente l'autorità cessa di essere tale e degenera in sopruso».

1904 - «È preferibile che ogni potere sia bilanciato da altri poteri e da altre sfere di competenza, che lo mantengano nel giusto limite. E, que­sto, il principio dello Stato di diritto", nel quale è sovrana la legge, e non la volontà arbitraria degli uomini»

Il. Il bene comune.

1905 - In conformità alla natura sociale dell'uomo, il bene di ciascuno è necessariamente in rapporto con il bene comune. Questo non può esse­re definito che in relazione alla persona umana: «Non vivete isolati, ripiegandovi su voi stessi, come se già foste confer­mati nella giustizia; invece riunitevi insieme, per ricercare ciò che giova al bene di tutti».

1906 - Per bene comune si deve intendere «l'insieme di quelle condizio­ni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più speditamen­te». Il bene comune interessa la vita di tutti. Esige la prudenza da parte di ciascuno e più ancora da parte di coloro che esercitano l'uffi­cio dell'autorità. Esso comporta tre elementi essenziali:

1907 - In primo luogo, esso suppone il rispetto della persona in quanto tale. In nome del bene comune, i pubblici poteri sono tenuti a rispetta­re i diritti fondamentali ed inalienabili della persona umana. La società ha il dovere di permettere a ciascuno dei suoi membri di realizzare la propria vocazione. In particolare, il bene comune consiste nelle condi­zioni d'esercizio delle libertà naturali che sono indispensabili al pieno sviluppo della vocazione umana: tali il diritto «alla possibilità di agire secondo il retto dettato della propria coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla giusta libertà anche in campo religioso».

1908 - In secondo luogo, il bene comune richiede il benessere sociale e lo sviluppo del gruppo stesso. Lo sviluppo è la sintesi di tutti i doveri sociali. Certo, spetta all'autorità farsi arbitra, in nome del bene comu­ne, fra i diversi interessi particolari. Essa però deve rendere accessibile a ciascuno ciò di cui ha bisogno per condurre una vita veramente uma­na: vitto, vestito, salute, lavoro, educazione e cultura, informazione conveniente, diritto a fondare una famiglia, ecc.

1909 - Il bene comune implica infine la pace, cioè la stabilità e la sicu­rezza di un ordine giusto. Suppone quindi che l'autorità garantisca, con mezzi onesti, la sicurezza della società e quella dei suoi membri. Esso fonda il diritto alla legittima difesa personale e collettiva.

1910 - Se ogni comunità umana possiede un bene comune che le consente di riconoscersi come tale, è nella comunità politica che si trova la sua realizzazione più completa. È compito dello Stato difendere e pro­muovere il bene comune della società civile, dei cittadini e dei corpi intermedi.

1911 - I legami di mutua dipendenza tra gli uomini s'intensificano. A poco a poco si estendono a tutta la terra. L'unità della famiglia umana, la quale riunisce esseri che godono di una eguale dignità naturale, im­plica un bene comune universale. Questo richiede un'organizzazione del­la comunità delle nazioni capace di «provvedere ai diversi bisogni degli uomini, tanto nel campo della vita sociale, cui appartengono l'alimenta­zione, la salute, l'educazione (...), quanto in alcune circostanze partico­lari che sorgono qua e là, come possono essere [...] la necessità di soc­correre le angustie dei profughi, o anche di aiutare gli emigrati e le loro famiglie».

1912 - Il bene comune è sempre orientato verso il progresso delle persone: «Nell’ordinare le cose ci si deve adeguare all'ordine delle persone e non il contrario ». Tale ordine ha come fondamento la verità, si edifi­ca nella giustizia, è vivificato dall'amore

III. Responsabilità e partecipazione.

19l3 - La partecipazione è l'impegno volontario e generoso della perso­na negli scambi sociali. È necessario che tutti, ciascuno secondo il po­sto che occupa e il ruolo che ricopre, partecipino a promuovere il bene comune. Questo dovere è inerente alla dignità della persona umana.

19l4 - La partecipazione si realizza innanzi tutto con il farsi carico dei settori dei quali l'uomo si assume la responsabilità personale: attraverso la premura con cui si dedica all'educazione della propria famiglia, me­diante la coscienza con cui attende al proprio lavoro, egli partecipa al bene altrui e della società.

1915 - I cittadini, per quanto è possibile, devono prendere parte attiva alla vita pubblica. Le modalità di tale partecipazione possono variare da un paese all'altro, da una cultura all'altra. «E da lodarsi il modo di agire di quelle nazioni nelle quali la maggioranza dei cittadini è fatta partecipe della gestione della cosa pubblica in un clima di vera libertà.

1916 - La partecipazione di tutti all'attuazione del bene comune implica, come ogni dovere etico, una conversione incessantemente rinnovata delle parti sociali. La frode e altri sotterfugi mediante i quali alcuni si sot­traggono alle imposizioni della legge e alle prescrizioni del dovere socia­le, vanno condannati con fermezza, perché incompatibili con le esigenze della giustizia. Ci si deve occupare del progresso delle istituzioni che servono a migliorare le condizioni di vita degli uomini.

1917 - Spetta a coloro che sono investiti di autorità consolidare i valori che attirano la fiducia dei membri del gruppo e li stimolano a mettersi al servizio dei loro simili. La partecipazione ha inizio dall'educazione e dalla cultura. «Legittimamente si può pensare che il futuro dell'umani­tà sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di trasmettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza.

In sintesi

1918 - «Non c'è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio» (Rm 13,1).

1919 - Ogni comunità umana ha bisogno di un'autorità per conservarsi e svilupparsi.

1920 - «La comunità politica e l'autorità pubblica hanno il loro fondamen­to nella natura umana e perciò appartengono all'ordine stabilito da Dio».

1921 - L'autorità è esercitata in modo legittimo se si dedica al consegui­mento del bene comune della società. Per raggiungerlo, deve usare mezzi moralmente accettabili.

1922 - La diversità dei regimi politici è legittima, a condizione che essi concorrano al bene della comunità.

1923 - L'autorità politica deve essere

1924 - Il bene comune comprende «l'insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono ai gruppi, come ai singoli membri, di rag­giungere la propria perfezione più pienamente e più speditamente».

1925 - Il bene comune comporta tre elementi essenziali: il rispetto e la pro­mozione dei diritti fondamentali della persona; la prosperità o lo sviluppo dei beni spirituali e temporali della società; la pace e la sicurezza del gruppo e dei suoi membri.

1926 - La dignità della persona umana implica la ricerca del bene comune. Ciascuno ha il dovere di adoperarsi per suscitare e sostenere istitu­zioni che servono a migliorare le condizioni di vita degli uomini.

1927 - È compito dello Stato difendere e promuovere il bene comune della società civile. Il bene comune dell'intera famiglia umana richiede un'organizzazione della società internazionale.

Articolo 3

LA GIUSTIZIA SOCIALE

I928 - La società assicura la giustizia sociale allorché realizza le condi­zioni che consentono alle associazioni e agli individui di conseguire ciò a cui hanno diritto secondo la loro natura e la loro vocazione. La giu­stizia sociale è connessa con il bene comune e con l'esercizio dell'autorità

I. Il rispetto della persona umana.

1929 - La giustizia sociale non si può ottenere se non nel rispetto della dignità trascendente dell'uomo. La persona rappresenta il fine ultimo della società, la quale è ad essa ordinata: o La difesa e la promozione della dignità della persona umana ci sono state affidate dal Creatore; di essa sono rigorosamente e responsabil­mente debitori gli uomini e le donne in ogni congiuntura della storia».

1930 - Il rispetto della persona umana implica il rispetto dei diritti che scaturiscono dalla sua dignità di creatura. Questi diritti sono anteriori alla società e ad essa si impongono. Essi sono il fondamento della legittimità morale di ogni autorità: una società che li irrida o rifiuti di rico­noscerli nella propria legislazione positiva, mina la propria legittimità morale. Se manca tale rispetto, un'autorità non può che appoggiarsi sulla forza o sulla violenza per ottenere l'obbedienza dei propri sudditi. È compito della Chiesa richiamare alla memoria degli uomini di buona volontà questi diritti e distinguerli dalle rivendicazioni abusive o false.

1931 - Il rispetto della persona umana non può assolutamente prescin­dere dal rispetto di questo principio: «I singoli» devono «considerare il prossimo, nessuno eccettuato, come "un altro se stesso", tenendo conto della sua vita e dei mezzi necessari per viverla degnamente». Nessuna legislazione sarebbe in grado, da se stessa, di dissipare i timo­ri, i pregiudizi, le tendenze all'orgoglio e all'egoismo, che ostacolano l'instaurarsi di società veramente fraterne. Simili comportamenti si supe­rano solo con la carità, la quale vede in ogni uomo un «prossimo», un fratello.

1932 - Il dovere di farsi il prossimo degli altri e di servirli attivamente diventa ancora più urgente quando costoro sono particolarmente biso­gnosi, sotto qualsiasi aspetto. «Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me» (Ml 25,40).

1933 - Questo stesso dovere comprende anche coloro che pensano o operano diversamente da noi. L'insegnamento di Cristo arriva fino a chiedere il perdono delle offese. Estende il comandamento dell'amore, che è quello della Legge nuova, a tutti i nemici. La liberazione nello spirito del Vangelo è incompatibile con l'odio del nemico in quanto persona, ma non con l'odio del male che egli compie in quanto nemico

Il. Uguaglianza e differenze tra gli nomini.

1934 - Tutti gli uomini, creati ad immagine dell'unico Dio e dotati di una medesima anima razionale, hanno la stessa natura e la stessa origi­ne. Redenti dal sacrificio di Cristo, tutti sono chiamati a partecipare alla medesima beatitudine divina: tutti, quindi, godono di una eguale dignità.

1935 - L'uguaglianza tra gli uomini poggia essenzialmente sulla loro dignità personale e sui diritti che ne derivano: o Ogni genere di discriminazione nei diritti fondamentali della persona [...] in ragione del sesso, della stirpe, del colore, della condizione socia­le, della lingua o della religione, deve essere superato ed eliminato, co­me contrario al disegno di Dio.

1936 - L'uomo, venendo al mondo, non dispone di tutto ciò che è ne­cessario allo sviluppo della propria vita, corporale e spirituale. Ha biso­gno degli altri. Si notano differenze legate all'età, alle capacità fisiche, alle attitudini intellettuali o morali, agli scambi di cui ciascuno ha potuto beneficiare, alla distribuzione delle ricchezze. I «talenti» non sono distribuiti in misura eguale.

1937 - Tali differenze rientrano nel piano di Dio, il quale vuole che cia­scuno riceva dagli altri ciò di cui ha bisogno, e che coloro che hanno «talenti» particolari ne comunichino i benefici a coloro che ne hanno bisogno. Le differenze incoraggiano e spesso obbligano le persone alla magnanimità, alla benevolenza e alla condivisione; spingono le culture a mutui arricchimenti: «Io distribuisco le virtù tanto differentemente, che non do tutto ad ognuno, ma a chi l'una a chi l'altra. [...] A chi darò principalmente la carità, a chi la giustizia, a chi l'umiltà, a chi una fede viva. (...) E così ho dato molti doni e grazie di virtù, spirituali e temporali, con tale di­versità, che non tutto ho comunicato ad una sola persona, affinché voi foste costretti ad usare carità l'uno con l'altro. [...] Io volli che l'uno avesse bisogno dell'altro e tutti fossero miei ministri nel dispensare le grazie e i doni da me ricevuti.

1938 - Esistono anche disuguaglianze inique che colpiscono milioni di uomini e di donne. Esse sono in aperto contrasto con il Vangelo: L'eguale dignità delle persone richiede che si giunga ad una condizio­ne più umana e giusta della vita. Infatti le troppe disuguaglianze econo­miche e sociali, tra membri e tra popoli dell'unica famiglia umana, su­scitano scandalo e sono contrarie alla giustizia sociale, all'equità, alla dignità della persona umana, nonché alla pace sociale ed internazionale»

III. La solidarietà umana.

1939 - Il principio di solidarietà, designato pure con il nome di «amici­zia» o di «carità sociale», è un'esigenza diretta della fraternità umana e cristiana: Un errore «oggi largamente diffuso è la dimenticanza della legge della solidarietà umana e della carità, legge dettata e imposta tanto dalla co­munità di origine e dall'uguaglianza della natura ragionevole, propria di tutti gli uomini, a qualsiasi popolo appartengano, quanto dal sacrificio offerto da Gesù Cristo sull'altare della croce, al Padre suo celeste, in favore dell'umanità peccatrice».

1940 - La solidarietà si esprime innanzi tutto nella ripartizione dei beni e nella remunerazione del lavoro. Suppone anche l'impegno per un or­dine sociale più giusto, nel quale le tensioni potrebbero essere meglio riassorbite e i conflitti troverebbero più facilmente la loro soluzione negoziata.

1941 - I problemi socio-economici non possono essere risolti che me­diante il concorso di tutte le forme di solidarietà: solidarietà dei poveri tra loro, dei ricchi e dei poveri, dei lavoratori tra loro, degli imprendi­tori e dei dipendenti nell'impresa, solidarietà tra le nazioni e tra i popo­li. La solidarietà internazionale è un'esigenza di ordine morale. La pace del mondo dipende in parte da essa.

1942 - La virtù della solidarietà oltrepassa l'ambito dei beni materiali. Diffondendo i beni spirituali della fede, la Chiesa ha, per di più, favori­to lo sviluppo del benessere temporale, al quale spesso ha aperto vie nuove. Così, nel corso dei secoli, si è realizzata la parola del Signore: «Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,33): «Da duemila anni, vive e vigoreggia nell'anima della Chiesa quel senti­mento che ha spinto ed ancora spinge fino all'eroismo della carità i monaci agricoltori, i liberatori degli schiavi, coloro che curano gli am­malati, coloro che portano il messaggio della fede, della civiltà, della cultura a tutte le generazioni e a tutti i popoli, al fine di creare condi­zioni sociali tali da rendere possibile per tutti una vita degna dell'uomo e del cristiano.

In sintesi

1943 - La società assicura la giustizia sociale realizzando le condizioni che permettono alle associazioni e agli individui di ottenere ciò a cui hanno diritto.

1944 - Il rispetto della persona umana conduce a considerare l'altro come « un altro se stesso». Esso comporta il rispetto dei diritti fonda­mentali che derivano dall'intrinseca dignità della persona.

1945 - L'uguaglianza tra gli uomini si fonda sulla loro dignità personale e sui diritti che da essa derivano.

1946 - Le differenze tra le persone rientrano nel disegno di Dio, il quale vuole che noi abbiamo bisogno gli uni degli altri. Esse devono spro­nare alla carità.

1947 - L'eguale dignità delle persone umane richiede l'impegno per ridurre le disuguaglianze sociali ed economiche eccessive. Essa spinge ad eliminare le disuguaglianze inique.

1948 - La solidarietà é una virtù eminentemente cristiana. Essa attua la condivisione dei beni spirituali ancor più che di quelli materiali.

CAPITOLO TERZO

LA SALVEZZA DI DIO: LA LEGGE E LA GRAZIA

1949 - Chiamato alla beatitudine, ma ferito dal peccato, l'uomo ha bi­sogno della salvezza di Dio. L'aiuto divino gli viene dato in Cristo, per mezzo della Legge che lo dirige e nella grazia che lo sostiene: «Attendete alla vostra salvezza con timore e tremore. E Dio infatti che suscita in voi il volere e l'operare secondo i suoi benevoli disegni» (FiI 2,12-13).

Articolo 1

LA LEGGE MORALE

1950 - La legge morale è opera della Sapienza divina. La si può defini­re, in senso biblico, come un insegnamento paterno, una pedagogia di Dio. Prescrive all'uomo le vie, le norme di condotta che conducono alla beatitudine promessa; vieta le strade del male, che allontanano da Dio e dal suo amore. Essa è ad un tempo severa nei suoi precetti e soave nelle sue promesse.

1951 - La legge è una regola di comportamento emanata dall'autorità competente in vista del bene comune. La legge morale suppone l'ordine razionale stabilito tra le creature, per il loro bene e in vista del loro fi­ne, dalla potenza, dalla sapienza, dalla bontà del Creatore. Ogni legge trova nella Legge eterna la sua prima e ultima verità. La legge è dichia­rata e stabilita dalla ragione come una partecipazione alla provvidenza del Dio vivente, Creatore e Redentore di tutti. «L'ordinamento della ra­gione, ecco ciò che si chiama la legge». «L'uomo è il solo tra tutti gli esseri animati che possa gloriarsi d'essere stato degno di ricevere una Legge da Dio; animale dotato di ragione, capace di comprendere e di discernere, egli regolerà la propria condotta valendosi della sua libertà e della sua ragione, nella docile obbedienza a colui che tutto gli ha affidato».

1952 - Le espressioni della legge morale sono diverse, e sono tutte coor­dinate tra loro: la Legge eterna, fonte, in Dio, di tutte le leggi; la legge naturale; la Legge rivelata, che comprende la Legge antica e la Legge nuova o evangelica; infine le leggi civili ed ecclesiastiche.

1953 - La legge morale trova in Cristo la sua pienezza e la sua unità. Gesù Cristo in persona è la via della perfezione. E’ il termine della Leg­ge, perché egli solo insegna e dà la giustizia di Dio: «Il termine della legge è Cristo, perché sia data la giustizia a chiunque crede» (Rm 10,4)

I. La legge morale naturale.

1954 - L'uomo partecipa alla sapienza e alla bontà del Creatore, che gli conferisce la padronanza dei suoi atti e la capacità di dirigersi verso la verità e il bene. La legge naturale esprime il senso morale originale che permette all'uomo di discernere, per mezzo della ragione, il bene e il male, la verità e la menzogna: «La legge naturale è iscritta e scolpita nell'anima di tutti i singoli uo­mini; essa infatti è la ragione umana che impone di agire bene e proibi­sce il peccato. [...] Questa prescrizione dell'umana ragione, però, non è in grado di avere forza di legge, se non è la voce e l'interprete di una ragione più alta, alla quale il nostro spirito e la nostra libertà devono essere sottomessi».

1955 - La Legge divina e naturale mostra all'uomo la via da seguire per compiere il bene e raggiungere il proprio fine. La legge naturale in­dica le norme prime ed essenziali che regolano la vita morale. Ha come perno l'aspirazione e la sottomissione a Dio, fonte e giudice di ogni be­ne, e altresì il senso dell'altro come uguale a se stesso. Nei suoi precetti principali essa è esposta nel Decalogo. Questa legge è chiamata naturale non in rapporto alla natura degli esseri irrazionali, ma perché la ragio­ne che la promulga è propria della natura umana: «Dove dunque sono iscritte queste regole, se non nel libro di quella lu­ce che si chiama verità? Di qui, dunque, è dettata ogni legge giusta e si trasferisce nel cuore dell'uomo che opera la giustizia, non emigrando in lui, ma quasi imprimendosi in lui, come l'immagine passa dall'anello nella cera ma senza abbandonare l'anello». La legge naturale «altro non è che la luce dell'intelligenza infusa in noi da Dio. Grazie ad essa conosciamo ciò che si deve compiere e ciò che si deve evitare. Questa luce o questa legge Dio l'ha donata alla creazione».

1956 - Presente nel cuore di ogni uomo e stabilita dalla ragione, la leg­ge naturale è universale nei suoi precetti e la sua autorità si estende a tutti gli uomini. Esprime la dignità della persona e pone la base dei suoi diritti e dei suoi doveri fondamentali: «Certamente esiste una vera legge: è la retta ragione; essa è conforme alla natura, la si trova in tutti gli uomini; è immutabile ed eterna; i suoi precet­ti chiamano al dovere, i suoi divieti trattengono dall'errore. [...] È un delit­to sostituirla con una legge contraria; è proibito non praticarne una sola disposizione; nessuno poi può abrogarla completamente».

1957 - L'applicazione della legge naturale si diversifica molto; può ri­chiedere un adattamento alla molteplicità delle condizioni di vita, se­condo i luoghi, le epoche e le circostanze. Tuttavia, nella diversità delle culture, la legge naturale resta come una regola che lega gli uomini tra loro e ad essi impone, al di là delle inevitabili differenze, principi comuni.

1958 - La legge naturale è immutabile e permane inalterata attraverso i mutamenti della storia; rimane sotto l'evolversi delle idee e dei costumi e ne sostiene il progresso. Le norme che la esprimono restano sostan­zialmente valide. Anche se si arriva a negare i suoi principi, non la si può però distruggere, né strappare dal cuore dell'uomo. Sempre risorge nella vita degli individui e delle società: «La tua Legge, Signore, condanna chiaramente il furto, e così la legge scritta nel cuore degli uomini, legge che nemmeno la loro malvagità può cancellare».

1959 - Opera molto buona del Creatore, la legge naturale fornisce i so­lidi fondamenti sui quali l'uomo può costruire l'edificio delle regole morali che guideranno le sue scelte. Essa pone anche il fondamento morale indispensabile per edificare la comunità degli uomini. Procura infine il fondamento necessario alla legge civile, la quale ad essa si rial­laccia sia con la riflessione che trae le conseguenze dai principi della legge naturale, sia con aggiunte di natura positiva e giuridica.

1960 - I precetti della legge naturale non sono percepiti da tutti con chiarezza ed immediatezza. Nell'attuale situazione, la grazia e la Rivelazione sono necessarie all'uomo peccatore perché le verità religiose e morali possano essere conosciute «da tutti e senza difficoltà, con ferma certezza e senza alcuna mescolanza di errore». La legge naturale offre alla Legge rivelata e alla grazia un fondamento preparato da Dio e in piena armonia con l'opera dello Spirito

Il. La Legge antica.

1961 - Dio, nostro Creatore e nostro Redentore, si è scelto Israele come suo popolo e gli ha rivelato la sua Legge, preparando in tal modo la venuta di Cristo. La Legge di Mosè esprime molte verità che sono na­turalmente accessibili alla ragione. Queste si trovano affermate ed an­tenticate all'interno dell'Alleanza della salvezza.

1962 - La Legge antica è il primo stadio della Legge rivelata. Le sue prescrizioni morali sono riassunte nei dieci comandamenti. I precetti del Decalogo pongono i fondamenti della vocazione dell'uomo, creato ad immagine di Dio; vietano ciò che è contrario all'amore di Dio e del prossimo, e prescrivono ciò che gli è essenziale. Il Decalogo è una luce offerta alla coscienza di ogni uomo per manifestargli la chiamata e le vie di Dio, e difenderlo contro il male: Dio «ha scritto sulle tavole della Legge ciò che gli uomini non riusci­vano a leggere nei loro cuori».

1963 - Secondo la tradizione cristiana, la Legge santa, spirituale e buona, è ancora imperfetta. Come un pedagogo essa indica ciò che si deve fare, ma da sé non dà la forza, la grazia dello Spirito per osser­varla. A causa del peccato che non può togliere, essa rimane una legge di schiavitù. Secondo san Paolo, essa ha particolarmente la funzione di denunciare e di manifestare il peccato che nel cuore dell'uomo forma una «legge di concupiscenza». Tuttavia la Legge rimane la prima tap­pa sul cammino del Regno. Essa prepara e dispone il popolo eletto e ogni cristiano alla conversione e alla fede nel Dio Salvatore. Dà un in­segnamento che rimane per sempre, come parola di Dio.

1964 - La Legge antica è una preparazione al Vangelo. «La Legge è profezia e pedagogia delle realtà future». Essa profetizza e presagisce l'opera della liberazione dal peccato che si compirà con Cristo, ed offre al Nuovo Testamento le immagini, i «tipi», i simboli per esprimere la vita secondo lo Spirito. La Legge infine viene completata dall'insegna­mento dei libri sapienziali e dei profeti, che la orientano verso la Nuo­va Alleanza e il regno dei cieli. «Ci furono [...], nel regime dell'Antico Testamento, anime ripiene di carità e della grazia dello Spirito Santo, le quali aspettavano soprattut­to il compimento delle promesse spirituali ed eterne. Sotto tale aspetto, costoro appartenevano alla nuova Legge. Al contrario, anche nel Nuo­vo Testamento ci sono uomini carnali, che ancora non hanno raggiunto la perfezione della nuova Legge, e che bisogna indurre alle azioni vir­tuose con la paura del castigo o con la promessa di beni temporali. Pe­rò, la Legge antica, anche se dava i precetti della carità, non era in grado di offrire la grazia dello Spirito Santo, in virtù del quale “l'amo­re di Dio è stato riversato nei nostri cuori” (Rm 5,5)

III. La nuova Legge o Legge evangelica.

1965 - La nuova Legge o Legge evangelica è la perfezione quaggiù della Legge divina, naturale e rivelata. È opera di Cristo e trova la sua espressione particolarmente nel discorso della montagna; è anche opera dello Spirito Santo e, per mezzo di lui, diventa la legge interiore della carità: «Io stipulerò con la casa d'Israele (...) un'alleanza nuova. Porrò le mie leggi nella loro mente e le imprimerò nei loro cuori; sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (Eb 8,8.l0).

1966 - La Legge nuova è la grazia dello Spirito Santo, data ai fedeli in virtù della fede in Cristo. Essa opera mediante la carità, si serve del di­scorso del Signore sulla montagna per insegnarci ciò che si deve fare, e dei sacramenti per comunicare la grazia di farlo: «Chi vorrà meditare con pietà e perspicacia il discorso che nostro Si­gnore ha pronunciato sulla montagna, così come lo si legge nel Vangelo di san Matteo, indubbiamente vi troverà la “magna carta” della vita cristiana. [...] Questo discorso infatti comprende tutte le norme peculiari dell'esistenza cristiana».

1967 - La Legge evangelica «dà compimento» alla Legge antica, la purifica, la supera e la porta alla perfezione. Nelle beatitudini essa com­pie le promesse divine, elevandole ed ordinandole al «regno dei cieli». Si rivolge a coloro che sono disposti ad accogliere con fede questa spe­ranza nuova: i poveri, gli umili, gli afflitti, i puri di cuore, i perseguitati a causa di Cristo, tracciando in tal modo le sorprendenti vie del Regno.

1968 - La Legge evangelica dà compimento ai comandamenti della Legge. Il discorso del Signore sulla montagna, lungi dall'abolire o dal togliere valore alle prescrizioni morali della Legge antica, ne svela le virtualità nascoste e ne fa scaturire nuove esigenze: ne mette in luce tutta la veri­tà divina e umana. Esso non aggiunge nuovi precetti esteriori, ma arri­va a riformare la radice delle azioni, il cuore, là dove l'uomo sceglie tra il puro e l'impuro, dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità e, con queste, le altre virtù. Così il Vangelo porta la Legge alla sua pie­nezza mediante l'imitazione della perfezione del Padre celeste, il perdo­no dei nemici e la preghiera per i persecutori, sull'esempio della magna­nimità divina.

1969 - La Legge nuova pratica gli atti della religione: l'elemosina, la pre­ghiera e il digiuno, ordinandoli al «Padre che vede nel segreto», in op­posizione al desiderio di «essere visti dagli uomini». La sua preghiera è il «Padre nostro».

1970 - La Legge evangelica implica la scelta decisiva tra «le due vie» e mettere in pratica le parole del Signore; essa si riassume nella regola d'oro: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mi 7, 12). Tutta la Legge evangelica è racchiusa nel comandamento nuovo di Gesù, di amarci gli uni gli altri come lui ci ha amati.

1971 - Al discorso del Signore sulla montagna è opportuno aggiungere la catechesi morale degli insegnamenti apostolici come Rm 12-15; 1 Cor 12-13; Col 3-4; Ef 4-6; ecc. Questa dottrina trasmette l'insegnamento del Signore con l'autorità degli Apostoli, particolarmente attraverso l'espo­sizione delle virtù che derivano dalla fede in Cristo e che sono animate dalla carità, il principale dono dello Spirito Santo. «La carità non ab­bia finzioni. (...) Amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno. (...) Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera, solleciti per le necessità dei fratelli, premurosi nell'ospitalità» (Rm 12,9-13). Questa catechesi ci insegna anche a considerare i casi di coscienza alla luce del nostro rapporto con Cristo e con la Chiesa.

1972 - La Legge nuova è chiamata legge d'amore, perché fa agire in vir­tù dell'amore che lo Spirito Santo infonde, più che sotto la spinta del timore; legge di grazia, perché, per mezzo della fede e dei sacramenti, conferisce la forza della grazia per agire; legge di libertà, perché ci li­bera dalle osservanze rituali e giuridiche della Legge antica, ci porta ad agire spontaneamente sotto l'impulso della carità, ed infine ci fa passare dalla condizione di servo «che non sa quello che fa il suo padrone» a quella di amico di Cristo «perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15), o ancora alla condizione di figlio erede.

1973 - Oltre ai suoi precetti, la Legge nuova comprende anche i consigli evangelici. La distinzione tradizionale tra i comandamenti di Dio e i consigli evangelici si stabilisce in rapporto alla carità, perfezione della vita cristiana. I precetti mirano a rimuovere ciò che è incompatibile con la carità. I consigli si prefiggono di rimuovere ciò che, pur senza con­trastare con la carità, può rappresentare un ostacolo per il suo sviluppo.

1974 - I consigli evangelici esprimono la pienezza vivente della carità, sempre insoddisfatta di non dare di più. Testimoniano il suo slancio e sollecitano la nostra prontezza spirituale. La perfezione della Legge nuova consiste essenzialmente nei comandamenti dell'amore di Dio e del prossimo. I consigli indicano vie più dirette, mezzi più spediti e vanno praticati in conformità alla vocazione di ciascuno: «Dio non vuole che tutti osservino tutti i consigli, ma soltanto quelli appropriati, secondo la diversità delle persone, dei tempi, delle occasio­ni e delle forze, stando a quanto richiede la carità; perché è lei che, co­me regina di tutte le virtù, di tutti i comandamenti, di tutti i consigli, in una parola, di tutte le leggi e di tutte le azioni cristiane, assegna a tutti il posto, l'ordine, il tempo, il valore».

In sintesi

1975 - Secondo la Scrittura, la Legge é un'istruzione paterna di Dio, che prescrive all'uomo le vie che conducono alla beatitudine promessa e vieta le strade del male.

1976 - «La Legge é un comando della ragione ordinato al bene comune, promulgato da chi é incaricato di una comunità».

1977 - Cristo e' il termine della Legge; egli solo insegna e dà la giustizia di Dio.

1978 - La legge naturale è una partecipazione alla sapienza e alla bontà di Dio da parte dell'uomo, plasmato ad immagine del suo Creatore. Essa esprime la dignità della persona umana e costituisce il fonda­mento dei suoi diritti e dei suoi doveri fondamentali.

1979 - La legge naturale è immutabile e permane inalterata attraverso la storia. Le norme che ne sono l'espressione restano sostanzialmente valide. È un fondamento necessario all'ordinamento delle regole morali e alla legge civile.

1980 - La Legge antica è il primo stadio della Legge rivelata. Le sue pre­scrizioni morali sono riassunte nei dieci comandamenti.

1981 - La Legge di Mosè comprende molte verità naturalmente accessibili alla ragione. Dio le ha rivelate perché gli uomini non riuscivano a leggerle nel loro cuore.

1982 - La Legge antica è una preparazione al Vangelo.

1983 - La Legge nuova è la grazia dello Spirito Santo ricevuta mediante la fede in Cristo, che opera attraverso la carità. Trova la sua princi­pale espressione nel discorso del Signore sulla montagna e si serve dei sacramenti per comunicarci la grazia.

1984 - La Legge evangelica dà compimento, supera e porta alla perfezione la Legge antica: le sue promesse attraverso le beatitudini del regno dei cieli e i suoi comandamenti attraverso la trasformazione della radice delle azioni, cioè il cuore.

1985 - La Legge nuova è una legge d'amore, una legge di grazia, una leg­ge di libertà.

1986 - Oltre ai precetti, la Legge nuova comprende i consigli evangelici. «La santità della Chiesa è in modo speciale favorita dai molteplici consigli di cui il Signore nel Vangelo propone l'osservanza ai suoi discepoli

Articolo 2

GRAZIA E GIUSTIFICAZIONE

I. La giustificazione.

1987 - La grazia dello Spirito Santo ha il potere di giustificarci, cioè di mondarci dai nostri peccati e di comunicarci la giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo e mediante il Battesimo: «Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sa­pendo che Cristo risuscitato dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui. Per quanto riguarda la sua morte, egli morì al pec­cato una volta per tutte; ora invece per il fatto che egli vive, vive per Dio. Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù» (Rm 6,8-11).

1988 - Per mezzo della potenza dello Spirito Santo, noi prendiamo parte alla passione di Cristo morendo al peccato, e alla sua risurrezione nascendo a una vita nuova; siamo membra del suo corpo che è la Chie­sa, tralci innestati sulla Vite che è lui stesso: «Per mezzo dello Spirito, tutti noi siamo detti partecipi di Dio. [...] En­triamo a far parte della natura divina mediante la partecipazione allo Spirito [...]. Ecco perché lo Spirito divinizza coloro nei quali si fa presente».

1989 - La prima opera della grazia dello Spirito Santo è la conversione, che opera la giustificazione, secondo l’annuncio di Gesù all'inizio del Vangelo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Mt 4,17). Sotto la mozione della grazia, l'uomo si volge verso Dio e si allontana dal peccato, accogliendo cosi il perdono e la giustizia dall'alto. «La giustificazione [...] non è una semplice remissione dei peccati, ma anche santificazione e rinnovamento dell'uomo interiore».

1990 - La giustificazione separa l'uomo dal peccato che si oppone all'a­more di Dio, e purifica il suo cuore dal peccato. La giustificazione fa seguito all'iniziativa della misericordia di Dio che offre il perdono. Riconcilia l'uomo con Dio. Libera dalla schiavitù del peccato e guarisce.

1991 - La giustificazione è, al tempo stesso, accoglienza della giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo. Qui la giustizia designa la ret­titudine dell'amore divino. Insieme con la giustificazione, vengono infuse nei nostri cuori la fede, la speranza e la carità, e ci è accordata l'obbedienza alla volontà divina.

1992 - La giustificazione ci è stata meritata dalla passione di Cristo, che si è offerto sulla croce come ostia vivente, santa e gradita a Dio, e il cui sangue è diventato strumento di propiziazione per i peccati di tutti gli uomini. La giustificazione è accordata mediante il Battesimo, sacra­mento della fede. Essa ci conforma alla giustizia di Dio, il quale ci rende interiormente giusti con la potenza della sua misericordia. Ha come fine la gloria di Dio e di Cristo, e il dono della vita eterna: «Ora, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia. di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c'è distin­zione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come stru­mento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di ma­nifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù» (Rm 3,21-26).

1993 La giustificazione stabilisce la collaborazione tra la grazia di Dio e la libertà dell'uomo. Da parte dell'uomo essa si esprime nell'assenso del­la fede alla parola di Dio che lo chiama alla conversione, e nella coo­perazione della carità alla mozione dello Spirito Santo, che lo previene e lo custodisce: «Dio tocca il cuore dell'uomo con l'illuminazione dello Spirito Santo, in modo che né l'uomo resti assolutamente inerte subendo quell'ispira­zione, che certo può anche respingere, né senza la grazia divina, con la sua libera volontà, possa incamminarsi alla giustizia dinanzi a Dio.

1994 - La giustificazione è l'opera più eccellente dell'amore di Dio, mani­festato in Cristo Gesù e comunicato tramite lo Spirito Santo. Sant'Ago­stino ritiene che «la giustificazione dell'empio è un'opera più grande della creazione del cielo e della terra», perché «il cielo e la terra passe­ranno, mentre la salvezza e la giustificazione degli eletti non passeranno mai». Pensa anche che la giustificazione dei peccatori supera la stessa creazione degli angeli nella giustizia, perché manifesta una più grande misericordia.

1995 - Lo Spirito Santo è il maestro interiore. Dando vita all'«uomo interiore», la giustificazione implica la santificazione di tutto l'essere: «Come avete messo le vostre membra a servizio dell'impurità e dell'ini­quità a pro dell'iniquità, così ora mettete le vostre membra a servizio della giustizia per la vostra santificazione [...]. Ora, liberati dal peccato e fatti servi di Dio, voi raccogliete il frutto che vi porta alla santifica­zione e come destino avete la vita eterna» (Rm 6,19.22).

Il. La grazia.

1996 - La nostra giustificazione viene dalla grazia di Dio. La grazia è il favore, il soccorso gratuito che Dio ci dà perché rispondiamo al suo invito: diventare figli di Dio, figli adottivi, partecipi della natura divina, della vita eterna.

1997 - La grazia è una partecipazione alla vita di Dio; ci introduce nell'intimità della vita trinitaria. Mediante il Battesimo il cristiano parteci­pa alla grazia di Cristo, Capo del suo corpo. Come «figlio adottivo», egli può ora chiamare Dio «Padre», in unione con il Figlio unigenito. Riceve la vita dello Spirito che infonde in lui la carità e forma la Chiesa.

1998 - Questa vocazione alla vita eterna è soprannaturale. Dipende inte­ramente dall'iniziativa gratuita di Dio, poiché egli solo può rivelarsi e donare se stesso. Supera le capacità dell'intelligenza e le forze della volontà dell'uomo, come di ogni creatura.

1999 - La grazia di Cristo è il dono gratuito che Dio ci fa della sua vita, infusa nella nostra anima dallo Spirito Santo per guarirla dal peccato e santificarla. È la grazia santificante o deificante, ricevuta nel Battesimo. Essa è in noi la sorgente dell'opera di santificazione: «Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove. Tutto questo però viene da Dio, che ci ha riconciliati con sè mediante Cristo» (2 Cor 5,17-18).

2000 - La grazia santificante è un dono abituale, una disposizione stabi­le e soprannaturale che perfeziona l'anima stessa per renderla capace di vivere con Dio, di agire per amor suo. Si distingueranno la grazia abi­tuale, disposizione permanente a vivere e ad agire secondo la chiamata divina, e le grazie attuali che designano gli interventi divini sia all'inizio della conversione, sia nel corso dell'opera di santificazione.

2001 - La preparazione dell'uomo ad accogliere la grazia è già un'opera della grazia. Questa è necessaria per suscitare e sostenere la nostra col­laborazione alla giustificazione mediante la fede, e alla santificazione mediante la carità. Dio porta a compimento in noi quello che ha inco­minciato: «Egli infatti incomincia facendo in modo, con il suo inter­vento, che noi vogliamo; egli porta a compimento, cooperando con i moti della nostra volontà già convertita»: «Operiamo certamente anche noi, ma operiamo cooperando con Dio che opera prevenendoci con la sua misericordia. Ci previene però per guarirei e anche ci seguirà perché da santi diventiamo pure vigorosi, ci previene per chiamarci e ci seguirà per glorificarci, ci previene perché viviamo piamente e ci seguirà perché viviamo con lui eternamente, es­sendo certo che senza di lui non possiamo far nulla.

2002 - La libera iniziativa di Dio richiede la libera risposta dell'uomo; in­fatti Dio ha creato l'uomo a propria immagine, dandogli, con la libertà, il potere di conoscerlo e di amarlo. L'anima può entrare solo libera­mente nella comunione dell'amore. Dio tocca immediatamente e muove direttamente il cuore dell'uomo. Egli ha posto nell'uomo un'aspirazione alla verità e al bene che soltanto lui può soddisfare. Le promesse della «vita eterna» rispondono, al di là di ogni speranza, a tale aspirazione: «Il riposo che prendesti al settimo giorno, dopo aver compiuto le tue opere molto buone, sebbene le avessi fatte senza fatica, è una predizio­ne che ci fa l'oracolo del tuo Libro: noi pure, compiute le nostre opere buone assai, certamente per tuo dono, nel sabato della vita eterna ripo­seremo in te.

2003 - La grazia è innanzi tutto e principalmente il dono dello Spirito che ci giustifica e ci santifica. Ma la grazia comprende anche i doni che lo Spirito ci concede per associarci alla sua opera, per renderci capaci di cooperare alla salvezza degli altri e alla crescita del corpo di Cristo, la Chiesa. Sono le grazie sacramentali, doni propri ai diversi sacramenti. Sono inoltre le grazie speciali chiamate anche carismi con il termine gre­co usato da san Paolo, che significa favore, dono gratuito, beneficio. Qualunque sia la loro natura a volte straordinaria, come il dono dei miracoli o delle lingue, i carismi sono ordinati alla grazia santificante e hanno come fine il bene comune della Chiesa. Sono al servizio della carità che edifica la Chiesa.

2004 - Tra le grazie speciali, è opportuno ricordare le grazie di stato che accompagnano l'esercizio delle responsabilità della vita cristiana e dei ministeri in seno alla Chiesa: «Abbiamo pertanto doni diversi secondo la grazia data a ciascuno di noi. Chi ha il dono della profezia la eserciti secondo la misura della fe­de; chi ha un ministero attenda al ministero; chi l'insegnamento all'inse­gnamento; chi l'esortazione all'esortazione. Chi dà, lo faccia con sempli­cità; chi presiede, lo faccia con diligenza; chi fa opere di misericordia, le compia con gioia» (Rm 12,6-8).

2005 - Appartenendo all'ordine soprannaturale, la grazia sfugge alla no­stra esperienza e solo con la fede può essere conosciuta. Pertanto non possiamo basarci sui nostri sentimenti o sulle nostre opere per dedurne che siamo giustificati e salvati. Tuttavia, secondo la parola del Signo­re: «Dai loro frutti li potrete riconoscere» (Mt 7,20), la considerazione dei benefici di Dio nella nostra vita e nella vita dei santi ci offre una garanzia che la grazia sta operando in noi e ci sprona ad una fede sem­pre più grande e ad un atteggiamento di povertà fiduciosa. Si trova una delle più belle dimostrazioni di tale disposizione d'animo nella risposta di santa Giovanna d'Arco ad una domanda subdola dei suoi giudici ecclesiastici: «Interrogata se sappia d'essere nella grazia di Dio, risponde: “Se non vi sono, Dio mi vuole mettere; se vi sono, Dio mi vuole custodire in essa”».

III. Il merito.

«Nella festosa assemblea dei santi risplende la tua gloria, e il loro trionfo celebra i doni della tua misericordia».

2006 - Il termine «merito» indica, in generale, la retribuzione dovuta da una comunità o da una società per l'azione di uno dei suoi membri ri­conosciuta come buona o cattiva, meritevole di ricompensa o di punizione. Il merito è relativo alla virtù della giustizia in conformità al prin­cipio dell'eguaglianza che ne è la norma.

2007 - Nei confronti di Dio, in senso strettamente giuridico, non c'è merito da parte dell'uomo. Tra lui e noi la disuguaglianza è smisurata, poiché noi abbiamo ricevuto tutto da lui, nostro Creatore.

2008 - Il merito dell'uomo presso Dio nella vita cristiana deriva dal fat­to che Dio ha liberamente disposto di associare l'uomo all'opera della sua grazia. L'azione paterna di Dio precede con la sua ispirazione, mentre il libero agire dell'uomo viene dopo nella sua collaborazione, così che i meriti delle opere buone devono essere attribuiti innanzi tutto alla gra­zia di Dio, poi al fedele. Il merito dell'uomo torna, peraltro, anch'esso a Dio, dal momento che le sue buone azioni hanno la loro origine, in Cristo, dalle ispirazioni e dagli aiuti dello Spirito Santo.

2009 - L'adozione filiale, rendendoci partecipi per grazia della natura divina, può conferirei, in conseguenza della giustizia gratuita di Dio, un vero merito. E’ questo un diritto derivante dalla grazia, il pieno diritto dell'amore, che ci fa «coeredi» di Cristo e degni di conseguire l'eredità promessa della vita eterna. I meriti delle nostre opere buone sono doni della bontà divina. «Prima veniva elargita la grazia, ora viene reso il dovuto. (...) Sono proprio doni suoi i tuoi meriti».

2010 - Poiché nell'ordine della grazia l'iniziativa appartiene a Dio, nes­suno può meritare la grazia prima, quella che sta all'origine della conver­sione, del perdono e della giustificazione. Sotto la mozione dello Spirito Santo e della carità, possiamo in seguito meritare per noi stessi e per gli altri le grazie utili per la nostra santificazione, per l'aumento della gra­zia e della carità, come pure per il conseguimento della vita eterna. Gli stessi beni temporali, quali la salute e l'amicizia, possono essere meritati seguendo la sapienza di Dio. Tutte queste grazie e questi beni sono og­getto della preghiera cristiana. Questa provvede al nostro bisogno di grazia per le azioni meritorie.

2011 - La carità di Cristo è in noi la sorgente di tutti i nostri meriti da­vanti a Dio. La grazia, unendoci a Cristo con un amore attivo, assicura il carattere soprannaturale dei nostri atti e, di conseguenza, il loro me­rito davanti a Dio e davanti agli uomini. I santi hanno sempre avuto una viva consapevolezza che i loro meriti erano pura grazia: «Dopo l'esilio della terra, spero di gioire fruitivamente di te nella Pa­tria; ma non voglio accumulare meriti per il cielo: voglio spendermi per il tuo solo amore [...]. Alla sera di questa vita comparirò davanti a te con le mani vuote; infatti non ti chiedo, o Signore, di tener conto delle mie opere. Tutte le nostre giustizie non sono senza macchie ai tuoi occhi. Voglio perciò rivestirmi della tua giustizia e ricevere dal tuo ama­re l'eterno possesso di te stesso...»

IV. La santità cristiana.

2012 - «Sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio [...]. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all'immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati» (Rm 8,28-30).

2013 - «Tutti i fedeli di qualsiasi stato o grado sono chiamati alla pie­nezza della vita cristiana e alla perfezione della carità». Tutti sono chiamati alla santità: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48): «Per raggiungere questa perfezione, i fedeli usino le forze ricevute se­condo la misura del dono di Cristo, affinché [...], in tutto obbedienti al­la volontà del Padre, con tutto il loro animo si consacrino alla gloria di Dio e al servizio del prossimo. Così la santità del popolo di Dio cresce­rà apportando frutti abbondanti, come è splendidamente dimostrata, nella storia della Chiesa, dalla vita di tanti santi».

2014 - Il progresso spirituale tende all'unione sempre più intima con Cristo. Questa unione si chiama «mistica», perché partecipa al mistero di Cristo mediante i sacramenti - «i santi misteri» - e, in lui, al miste­ro della Santissima Trinità. Dio chiama tutti a questa intima unione con lui, anche se soltanto ad alcuni sono concesse grazie speciali o se­gni straordinari di questa vita mistica, allo scopo di rendere manifesto il dono gratuito fatto a tutti.

2015 - Il cammino della perfezione passa attraverso la croce. Non c'è santità senza rinuncia e senza combattimento spirituale. Il progresso spirituale comporta l'ascesi e la mortificazione, che gradatamente con­ducono a vivere nella pace e nella gioia delle beatitudini: «Colui che sale non cessa mai di andare di inizio in inizio; non si è mai finito di incominciare. Mai colui che sale cessa di desiderare ciò che già conosce».

2016 - I figli della santa Chiesa nostra Madre sperano giustamente la grazia della perseveranza finale e la ricompensa di Dio loro Padre per le buone opere compiute con la sua grazia, in comunione con Gesù. Os­servando la medesima regola di vita, i credenti condividono «la beata speranza» di coloro che la misericordia divina riunisce nella «città san­ta, la nuova Gerusalemme» che scende «dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo» (Ap 21,2).

In sintesi

2017 - La grazia dello Spirito Santo ci conferisce la giustizia di Dio. Unendoci mediante la fede e il Battesimo alla passione e alla risur­rezione di Cristo, lo Spirito ci rende partecipi della sua vita.

2018 - La giustificazione, non diversamente dalla conversione, presenta due aspetti. Sotto la mozione della grazia, l'uomo si volge verso Dio e si allontana dal peccato, accogliendo così il perdono e la giustizia dall'alto.

2019 - La giustificazione comporta la remissione dei peccati, la santifica­zione e il rinnovamento dell'uomo interiore.

2020 - La giustificazione ci è stata meritata dalla passione di Cristo. Ci è ac­cordata attraverso il Battesimo. Ci conforma alla giustizia di Dio, il quale ci rende giusti. Ha come fine la gloria di Dio e di Cristo e il do­no della vita eterna. E’ l'opera più eccellente della misericordia di Dio.

2021 - La grazia è l'aiuto che Dio ci dà perché rispondiamo alla nostra vocazione di diventare suoi figli adottivi. Essa ci introduce nell'inti­mità della vita trinitaria.

2022 - L'iniziativa divina nell'opera della grazia previene, prepara e suscita la libera risposta dell'uomo. La grazia risponde alle profonde aspi­razioni della libertà umana; la invita a cooperare con essa e la perfeziona.

2023 - La grazia santificante è il dono gratuito che Dio ci fa della sua vi­ta, infusa dallo Spirito Santo nella nostra anima per guarirla dal peccato e santificarla.

2024 - La grazia santificante ci rende «graditi a Dio». I «carismi», gra­zie speciali dello Spirito Santo, sono ordinati alla grazia santificante e hanno come fine il bene comune della Chiesa. Dio agisce anche mediante molteplici grazie attuali, che si distinguono dalla grazia abituale, permanente in noi.

2025 - Non c'è per noi merito davanti a Dio se non come conseguenza del libero disegno di Dio di associare l'uomo all'opera della sua grazia. Il merito in primo luogo è da ascrivere alla grazia di Dio, in secon­do luogo alla collaborazione dell'uomo. Il merito dell'uomo spetta anch’esso a Dio.

2026 - La grazia dello Spirito Santo, in virtù della nostra filiazione adotti­va, può conferirei un vero merito in conseguenza della giustizia gra­tuita di Dio. La carità è in noi la principale sorgente del merito davanti a Dio.

2027 - Nessuno può meritare la grazia prima, che sta all'origine della con­versione. Sotto la mozione dello Spirito Santo, possiamo meritare per noi stessi e per gli altri tutte le grazie utili per giungere alla vita eterna, come pure i beni materiali necessari.

2028 - «Tutti i fédeli (...) sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità. «La perfezione cristiana non ha che un limite: quello di non averne alcuno».

2029 - «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Mt 16,24).

Articolo 3

LA CHIESA, MADRE E MAESTRA

2030 - È nella Chiesa, in comunione con tutti i battezzati, che il cristia­no realizza la propria vocazione. Dalla Chiesa accoglie la Parola di Dio che contiene gli insegnamenti della « Legge di Cristo». Dalla Chiesa riceve la grazia dei sacramenti che lo sostengono lungo la «via». Dalla Chiesa apprende l'esempio della santità; ne riconosce il modello e la sor­gente nella santissima Vergine Maria; la riconosce nella testimonianza autentica di coloro che la vivono; la scopre nella tradizione spirituale e nella lunga storia dei santi che l'hanno preceduto e che la liturgia cele­bra seguendo il santorale.

2031 - La vita morale è un culto spirituale. Noi offriamo i nostri «corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1), in seno al corpo di Cristo, che noi formiamo, e in comunione con l'offerta della sua Eucaristia. Nella liturgia e nella celebrazione dei sacramenti, pre­ghiera ed insegnamento si uniscono alla grazia di Cristo, per illuminare e nutrire l'agire cristiano. Come l'insieme della vita cristiana, la vita morale trova la propria fonte e il proprio culmine nel sacrificio eucaristico.

I. Vita morale e Magistero della Chiesa.

2032 - La Chiesa, «colonna e sostegno della verità» (1 Tm 3,15), «ha ricevuto dagli Apostoli il solenne comandamento di Cristo di annunzia­re la verità della salvezza». «È compito della Chiesa annunziare sem­pre e dovunque i principi morali anche circa l'ordine sociale, e così pure pronunciare il giudizio su qualsiasi realtà umana, in quanto lo esigano i diritti fondamentali della persona umana o la salvezza delle anime.

2033 - Il Magistero dei Pastori della Chiesa in materia morale ordinaria­mente si esercita nella catechesi e nella predicazione, con l'aiuto delle opere dei teologi e degli autori spirituali. In tal modo, di generazione in generazione, sotto la guida e la vigilanza dei Pastori, si è trasmesso il «deposito» della morale cristiana, composto da un insieme caratteristi­co di norme, di comandamenti e di virtù che derivano dalla fede in Cristo e che sono vivificati dalla carità. Tale catechesi ha tradizional­mente preso come base, accanto al Credo e al Pater, il Decalogo, che enuncia i principi della vita morale validi per tutti gli uomini.

2034 - Il Romano Pontefice e i Vescovi «sono i dottori autentici, cioè rivestiti dell'autorità di Cristo, che predicano al popolo loro affidato la fede da credere e da applicare nella pratica della vita. Il Magistero ordinario e universale del Papa e dei Vescovi in comunione con lui inse­gna ai fedeli la verità da credere, la carità da praticare, la beatitudine da sperare.

2035 - Il grado più alto nella partecipazione all'autorità di Cristo e assi­curato dal carisma dell'infallibilità. Essa «si estende tanto quanto il de­posito della divina rivelazione»; si estende anche a tutti gli elementi di dottrina, ivi compresa la morale, senza i quali le verità salvifiche della fede non possono essere custodite, esposte o osservate.

2036 - L'autorità del Magistero si estende anche ai precetti specifici della legge naturale, perché la loro osservanza, chiesta dal Creatore, è ne­cessaria alla salvezza. Richiamando le prescrizioni della legge naturale, il Magistero della Chiesa esercita una parte essenziale della sua funzio­ne profetica di annunziare agli uomini ciò che essi sono veramente e di ricordare loro ciò che devono essere davanti a Dio.

2037 - La Legge di Dio, affidata alla Chiesa, è insegnata ai fedeli come cammino di vita e di verità. I fedeli hanno, quindi, il diritto di essere istruiti intorno ai precetti divini salvifici, i quali purificano il giudizio e, mediante la grazia, guariscono la ragione umana ferita. Hanno il dovere di osservare le costituzioni e i decreti emanati dalla legittima autorità della Chiesa. Anche se sono disciplinari, tali deliberazioni richiedono la docilità nella carità.

2038 - Nell'opera di insegnamento e di applicazione della morale cristia­na, la Chiesa ha bisogno della dedizione dei Pastori, della scienza dei teologi, del contributo di tutti i cristiani e degli uomini di buona volon­tà. Attraverso la fede e la pratica del Vangelo i singoli fanno un'espe­rienza della «vita in Cristo», che li illumina e li rende capaci di nere le realtà divine e umane secondo lo Spirito di Dio. Così lo Spiri­to Santo può servirsi dei più umili per illuminare i sapienti e i più emi­nenti in dignità.

2039 - I ministeri vanno esercitati in uno spirito di servizio fraterno e di dedizione alla Chiesa, in nome del Signore. Al tempo stesso la co­scienza di ognuno, nel suo giudizio morale sui propri atti personali, de­ve evitare di rimanere chiusa entro i limiti di una considerazione indivi­duale. Come meglio può, deve aprirsi alla considerazione del bene di tutti, quale è espresso nella legge morale, naturale e rivelata, e conse­guentemente nella legge della Chiesa e nell'insegnamento autorizzato del Magistero sulle questioni morali. Non bisogna opporre la coscienza per­sonale e la ragione alla legge morale o al Magistero della Chiesa.

2040 - In tal modo può svilupparsi tra i cristiani un vero spirito filiale nei confronti della Chiesa. Esso è il normale sviluppo della grazia batte­simale, che ci ha generati nel seno della Chiesa e ci ha resi membri del corpo di Cristo. La Chiesa, nella sua sollecitudine materna, ci accorda la misericordia di Dio, che trionfa su tutti i nostri peccati e agisce soprattutto nel sacramento della Riconciliazione. Come madre premurosa, attraverso la sua liturgia, giorno dopo giorno, ci elargisce anche il nutrimento della Parola e dell'Eucaristia del Signore

Il. I precetti della Chiesa.

2041 - I precetti della Chiesa si collocano in questa linea di una vita morale che si aggancia alla vita liturgica e di essa si nutre. Il carattere obbligatorio ditali leggi positive promulgate dalle autorità pastorali, ha come fine di garantire ai fedeli il minimo indispensabile nello spirito di preghiera e nell'impegno morale, nella crescita dell'amore di Dio e del prossimo.

2042 - Il primo precetto («Partecipa alla Messa la domenica e le altre feste comandate e rimani libero dalle occupazioni del lavoro») esige dai fedeli che santifichino il giorno in cui sì ricorda la risurrezione del Signore e le particolari festività liturgiche in onore dei misteri del Signore, della beata Vergine Maria e dei santi, in primo luogo partecipando alla celebrazione eucaristica in cui si riunisce la comunità cristiana, e che riposino da quei lavori e da quelle attività che potrebbero impedire una tale santificazione di questi giorni. Il secondo precetto («Confessa i tuoi peccati almeno una volta all'anno») assicura la preparazione all'Eucaristia attraverso la ricezione del sacra­mento della Riconciliazione, che continua l'opera di conversione e di perdono del Battesimo. Il terzo precetto («Ricevi il sacramento dell'Eucaristia almeno a Pasqua») garantisce un minimo in ordine alla ricezione del Corpo e del Sangue del Signore in collegamento con le feste pasquali, origine e centro della liturgia cristiana.

2043 - Il quarto precetto («In giorni stabiliti dalla Chiesa astieniti dal mangiare carne e osserva il digiuno») assicura i tempi di ascesi e di penitenza, che ci preparano alle feste liturgiche e a farci acquisire il dominio sui nostri istinti e la libertà di cuore. Il quinto precetto («Sovvieni alle necessità della Chiesa») enuncia che i fe­deli sono tenuti a venire incontro alle necessità materiali della Chiesa, ciascuno secondo le proprie possibilità

III. Vita morale e testimonianza missionaria.

2044 - La fedeltà dei battezzati è una condizione fondamentale per l'annunzio del Vangelo e per la missione della Chiesa nel mondo. Il messag­gio della salvezza, per manifestare davanti agli uomini la sua forza dì verità e di irradiamento, deve essere autenticato dalla testimonianza di vita dei cristiani. «La testimonianza della vita cristiana e le opere buo­ne compiute con spirito soprannaturale hanno la forza di attirare gli uomini alla fede e a Dio».

2045 - Poiché sono le membra del corpo di cui Cristo è il Capo, i cri­stiani contribuiscono all'edificazione della Chiesa con la saldezza delle loro convinzioni e dei loro costumi. La Chiesa cresce, si sviluppa e si espande mediante la santità dei suoi fedeli, finché arriviamo tutti «allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13).

2046 - Con la loro vita secondo Cristo, i cristiani affrettano la venuta del regno di Dio, del «regno di giustizia, di amore e di pace. Non per questo trascurano i loro impegni terreni; fedeli al loro Maestro, ad essi attendono con rettitudine, pazienza e amore.

In sintesi

2047 - La vita morale é un culto spirituale. L'agire cristiano trova il pro­prio nutrimento nella liturgia e nella celebrazione dei sacramenti.

2048 - I precetti della Chiesa riguardano la vita morale e cristiana, che è sempre unita alla liturgia, della quale si nutre.

2049 - Il Magistero dei Pastori della Chiesa in materia morale ordinaria­mente si esercita nella catechesi e nella predicazione, sulla base del Decalogo, il quale enuncia i principi della vita morale validi per tutti gli uomini.

2050 - Il Romano Pontefice e i Vescovi, quali maestri autentici, predicano al popolo di Dio la fede che deve essere creduta e applicata nei costumi. E’ anche di loro competenza pronunciarsi sulle questioni morali che hanno attinenza con la legge naturale e la ragione.

2051 - L 'infallibilità del Magistero dei Pastori si estende a tutti gli elemen­ti di dottrina, ivi compresa la morale, senza i quali le verità salvifiche della fede non possono essere custodite, esposte o osservate

 

I DIECI COMANDAMENTI

Esodo 20,2-17. lo sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù. Non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che é quaggiù sulla terra, né di ciò che é nelle acque, sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore lino a mille generazioni, per coloro che mi amano e os­servano i miei comandamenti. Non pronuncerai invano il nome del Signore tuo Dio, perché il Signore non lascerà impunito chi pronuncia il suo nome invano. Ricordati del giorno di sabato per santificarlo Sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio. Tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro. Onora tuo padre e tua madre perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti da il Signore, tuo Dio. Non uccidere. Non commettere adulterio. Non rubare. Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né iul suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo.

 

Deuteronomio 5,6-21. Io sono il Signore tuo Dio che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dei di fronte a me... Non pronunciare invano il nome del Signore tuo Dio... Osserva il giorno di sabato per santificarlo. Onora tuo padre e tua madre… Non uccidere. Non commettere adulterio. Non rubare. Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo. Non desiderare alcuna delle cose che sono del tuo prossimo.

Formula catechistica. Io sono il Signore, tuo Dio: 1. Non avrai altro Dio fuori di me. 2 Non nominare il nome di Dio invano. 3. Ricordati di santificare le feste. 4. Onora tuo padre e tua madre. 5. Non uccidere. 6. Non commettere atti impuri. 7. non rubare. 8. Non dire falsa testimonianza. 9. Non desiderare la donna d’altri. 10. non desiderare la roba d’altri.

 

SEZIONE SECONDA

I DIECI COMANDAMENTI

«MAESTRO, CHE COSA DEDEVO FARE…?»

2052 - «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eter­na?». Al giovane che gli rivolge questa domanda, Gesù risponde innan­zi tutto richiamando la necessità di riconoscere Dio come «il solo Buo­no», come il Bene per eccellenza e come la sorgente di ogni bene. Poi Gesù gli dice: «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti». Ed elenca al suo interlocutore i comandamenti che riguardano l'amore del prossimo: «Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, onora tuo padre e tua madre». Infine Gesù riassume questi comandamenti in una formulazione positiva: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt ~9,l6-19).

2053 - A questa prima risposta se ne aggiunge subito una seconda: «Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che possiedi, dallo ai poveri, e avrai un tesoro nel cielo; poi vieni e seguimi» (Mt 19-,2l). Essa non an­nulla la prima. La sequela di Gesù implica l'osservanza dei comanda­menti. La Legge non è abolita, ma l'uomo è invitato a ritrovarla nella persona del suo Maestro, che ne è il compimento perfetto. Nei tre Van­geli sinottici, l'appello di Gesù, rivolto al giovane ricco, a seguirlo nel­l'obbedienza del discepolo e nell'osservanza dei comandamenti, è acco­stato all'esortazione alla povertà e alla castità. I consigli evangelici sono indissociabili dai comandamenti.

2054 - Gesù ha ripreso i dieci comandamenti, ma ha manifestato la forza dello Spirito all'opera nella loro lettera. Egli ha predicato la giustizia che supera quella degli scribi e dei farisei come pure quella dei pagani. Ha messo in luce tutte le esigenze dei comandamenti. «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere [...]. Ma io vi dico: chiunque si adira con­tro il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5,2~-22).

2055 - Quando gli si pone la domanda: «Qual è il più grande coman­damento della Legge?» (Mt 22,36), Gesù risponde: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il se­condo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti» (Mt 22,37-40). Il Decalogo deve essere interpretato alla luce di questo du­plice ed unico comandamento della carità, pienezza della Legge: «Il precetto: Non commettere adulterio, Non uccidere, Non rubare, Non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore» (Rm 13,9-I0).

IL DECALOGO NELLA SACRA SCRITTURA

2056 - La parola «Decalogo» significa alla lettera «dieci parole» (Es 34,28; Dt 4,13; 10,4). Queste «dieci parole» Dio le ha rivelate al suo popolo sulla santa montagna. Le ha scritte con il «suo dito», a differenza degli altri precetti scritti da Mosè. Esse sono parole di Dio per eccellenza. Ci sono trasmesse nel libro dell'Esodo e in quello del Deu­teronomio. Fin dall'Antico Testamento i Libri Santi fanno riferimento alle «dieci parole». Ma è nella Nuova Alleanza in Gesù Cristo che sarà rivelato il loro pieno senso.

2057 - Il Decalogo si comprende innanzi tutto nel contesto dell'Esodo che è il grande evento liberatore di Dio al centro dell'Antica Alleanza. Siano esse formulate come precetti negativi, divieti, o come comanda­menti positivi (come: «Onora tuo padre e tua madre»), le «dieci paro­le» indicano le condizioni di una vita liberata dalla schiavitù del pecca­to. Il Decalogo è un cammino di vita: «Ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi» (Dt 30,16). Questa forza liberatrice del Decalogo appare, per esempio, nel coman­damento sul riposo del sabato, destinato parimenti agli stranieri e agli schiavi: «Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso» (Dt 5,15).

2058 - Le «dieci parole» riassumono e proclamano la Legge di Dio: «Queste parole pronunciò il Signore, parlando a tutta la vostra assem­blea, sul monte, dal fuoco, dalla nube e dall'oscurità, con voce podero­sa, e non aggiunse altro. Le scrisse su due tavole di pietra e me le die­de» (Dt 5,22). Perciò queste due tavole sono chiamate «la Testimo­nianza» (Es 25,16). Esse contengono infatti le clausole dell'Alleanza conclusa tra Dio e il suo popolo. Queste «tavole della Testimonianza» (Es 31,18; Es 32,15; Es 34,29) devono essere collocate nell'«arca»(Es 25,16; 40,1-3).

2059 - Le «dieci parole» sono pronunciate da Dio durante una teofa­nia («Il Signore vi ha parlato faccia a faccia sul monte dal fuoco»: Dt 5,4). Appartengono alla rivelazione che Dio fa di se stesso e della sua gloria. Il dono dei comandamenti è dono di Dio stesso e della sua san­ta volontà. Facendo conoscere le sue volontà, Dio si rivela al suo popolo.

2060 - Il dono dei comandamenti e della Legge fa parte dell'Alleanza conclusa da Dio con i suoi. Secondo il libro dell'Esodo, la rivelazione delle «dieci parole» viene accordata tra la proposta dell'Alleanza e la sua stipulazione, dopo che il popolo si è impegnato a «fare» tutto ciò che il Signore aveva detto e ad «obbedirvi». Il Decalogo non viene mai trasmesso se non dopo la rievocazione dell'Alleanza («Il Signore nostro Dio ha stabilito con noi un'Alleanza sull'Oreb»: Dt 5,2).

2061 - I comandamenti ricevono il loro pieno significato all'interno del­l'Alleanza. Secondo la Scrittura, l'agire morale dell'uomo prende tutto il proprio senso nell'Alleanza e per essa. La prima delle «dieci parole» ricorda l'iniziativa d'amore di Dio per il suo popolo: «Poiché l'uomo, per castigo del peccato, era venuto dal paradiso della libertà alla schiavitù di questo mondo, per questo la prima parola del Decalogo, cioè la prima voce dei comandamenti di Dio, tratta della libertà dicendo: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione di schiavitù” (Es 20,2; Di 5,6)».

2062 - I comandamenti propriamente detti vengono in secondo luogo; essi esprimono le implicanze dell'appartenenza a Dio stabilita attraverso l'Alleanza. L'esistenza morale è risposta all'iniziativa d'amore del Signore. É riconoscenza, omaggio a Dio e culto d'azione di grazie. E’ cooperazione al piano che Dio persegue nella storia.

2063 - L'Alleanza e il dialogo tra Dio e l'uomo sono ancora attestati dal fatto che tutte le imposizioni sono enunciate in prima persona («Io sono il Signore...» e rivolte a un altro soggetto («Tu...»). In tutti i comandamenti di Dio è un pronome personale singolare che indica il destinatario. Dio fa conoscere la sua volontà a tutto il popolo e, nello stesso tempo, a ciascuno in particolare: «Il Signore comandò l'amore verso Dio e insegnò la giustizia verso il prossimo, affinché l'uomo non fosse né ingiusto, né indegno di Dio. Così, per mezzo del Decalogo, Dio preparava l'uomo a diventare suo amico e ad avere un solo cuore con il suo prossimo [...]. Le parole del Decalogo restano validissime per noi. Lungi dall'essere abolite, esse so­no state portate a pienezza di significato e di sviluppo dalla venuta del Signore nella carne».

IL DECALOGO NELLA TRADIZIONE DELLA CHIESA

2064 - Fedele alla Scrittura e in conformità all'esempio di Gesù, la Tra­dizione della Chiesa ha riconosciuto al Decalogo un'importanza e un significato fondamentali.

2065 - A partire da sant'Agostino, i «dieci comandamenti» hanno un posto preponderante nella catechesi dei futuri battezzati e dei fedeli. Nel secolo quin­dicesimo si prese l'abitudine di esprimere i precetti del Decalogo in formule in rima, facili da memorizzare, e positive. Sono in uso ancor oggi. I catechismi della Chiesa spesso hanno esposto la morale cristiana seguendo l'ordine dei «dieci comandamenti».

2066 - La divisione e la numerazione dei comandamenti hanno subito variazioni nel corso della storia. Questo Catechismo segue la divisione dei comandamenti fissata da sant'Agostino e divenuta tradizionale nella Chiesa cattolica. È pure quella delle confessioni luterane. I Padri greci hanno fatto una divisione un po diversa, che si ritrova nelle Chiese ortodosse e nelle comunità riformate.

2067 - I dieci comandamenti enunciano le esigenze dell'amore di Dio e del prossimo. I primi tre si riferiscono principalmente all'amore di Dio e gli altri sette all'amore del prossimo. «Come sono due i comandamenti dell'amore, nei quali si compendia tutta la Legge e i Profeti - lo diceva il Signore [...] - così gli stessi dieci comandamenti furono dati in due tavole. Si dice infatti che tre fossero scritti su una tavola e sette su un'altra».

2068 - Il Concilio di Trento insegna che i dieci comandamenti obbliga­no i cristiani e che l'uomo giustificato è ancora tenuto ad osservarli. Il Concilio Vaticano Il afferma: «I Vescovi, quali successori degli Apostoli, ricevono dal Signore [...] la missione di insegnare a tutte le genti e di predicare il Vangelo ad ogni creatura, affinché tutti gli uomi­ni, per mezzo della fede, del Battesimo e dell'osservanza dei comanda­menti, ottengano la salvezza».

L'UNITÀ DEL DECALOGO

2069 - Il Decalogo costituisce un tutto indissociabile. Ogni «parola» ri­manda a ciascuna delle altre e a tutte; esse si condizionano reciproca­mente. Le due tavole si illuminano a vicenda; formano una unità orga­nica. Trasgredire un comandamento è infrangere tutti gli altri. Non si possono onorare gli altri uomini senza benedire Dio loro Creatore. Non si potrebbe adorare Dio senza amare tutti gli uomini sue creature. Il Decalogo unifica la vita teologale e la vita sociale dell'uomo.

IL DECALOGO E LA LEGGE NATURALE

2070 - I dieci comandamenti appartengono alla rivelazione di Dio. Al tempo stesso ci insegnano la vera umanità dell'uomo. Mettono in luce i doveri essenziali e, quindi, indirettamente, i diritti fondamentali inerenti alla natura della persona umana. Il Decalogo contiene un'espressione privilegiata della «legge naturale»: «Fin dalle origini, Dio aveva radicato nel cuore degli uomini i precetti della legge naturale. Poi si limitò a richiamarli alla loro mente. Fu il Decalogo».

2071 - Quantunque accessibili alla sola ragione, i precetti del Decalogo sono stati rivelati. Per giungere ad una conoscenza completa e certa delle esigenze della legge naturale, l'umanità peccatrice aveva bisogno di questa rivelazione: «Una completa esposizione dei comandamenti del Decalogo si rese ne­cessaria nella condizione di peccato, perché la luce della ragione si era ottenebrata e la volontà si era sviata». Noi conosciamo i comandamenti di Dio attraverso la rivelazione divina che ci è proposta nella Chiesa, e per mezzo della voce della coscienza morale.

L’OBBLIGAZIONE DEL DECALOGO

2072 - Poiché enunciano i doveri fondamentali dell'uomo verso Dio e verso il prossimo, i dieci comandamenti rivelano, nel loro contenuto es­senziale, obbligazioni gravi. Sono sostanzialmente immutabili e obbliga­no sempre e dappertutto. Nessuno potrebbe dispensare da essi. I dieci comandamenti sono incisi da Dio nel cuore dell'essere umano.

2073 - L'obbedienza ai comandamenti implica anche obblighi la cui ma­teria, in se stessa, è leggera. Così l'ingiuria a parole è vietata dal quinto comandamento, ma non potrebbe essere una colpa grave che in rappor­to alle circostanze o all'intenzione di chi la proferisce.

«SENZA DI ME NON POTETE FAR NULLA»

2074 - Gesù dice: «Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5). Il frutto indicato in questa parola è la santità di una vita fecondata dall'unione con Cristo. Quando crediamo in Gesù Cristo, comunichiamo ai suoi misteri e osserviamo i suoi comandamenti, il Salvatore stesso viene ad amare in noi il Padre suo ed i suoi fratelli, Padre nostro e nostri fratelli. La sua persona diventa, grazie allo Spirito, la regola vivente ed interiore della nostra condotta. «Questo èil mio comandamento: che vi amiate gli unì gli altri, come io vi ho amati» (Gv 15,12).

In sintesi

2075 - «Maestro, che cosa devo fare di buono per ottenere la vita eter­na?» «Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti» (Mt 19,16-17).

2076 - Con il suo agire e con la sua predicazione, Gesù ha attestato la perennità del Decalogo.

2077 - Il dono del Decalogo é accordato nell'ambito dell'Alleanza conclusa da Dio con il suo popolo. I comandamenti di Dio ricevono il loro vero significato in questa Alleanza e per mezzo di essa.

2078 - Fedele alla Scrittura e in conformità all'esempio di Gesù, la Tradi­zione della Chiesa ha riconosciuto al Decalogo un 'importanza ed un significato fondamentali.

2079 - Il Decalogo costituisce un'unità organica in cui ogni «parola» o «comandamento» rimanda a tutto l'insieme. Trasgredire un coman­damento e infrangere tutta la Legge.

2080 - Il Decalogo contiene un'espressione privilegiata della legge naturale. Lo conosciamo attraverso la rivelazione divina e con la ragione umana.

2081 - I dieci comandamenti enunciano, nel loro contenuto fondamentale, obbligazioni gravi. Tuttavia, l'obbedienza a questi precetti comporta anche obblighi la cui materia, in se stessa, e leggera.

2082 - Quanto Dio comanda, lo rende possibile con la sua grazia.

CAPITOLO PRIMO

«AMERAI IL SIGNORE DIO TUO CON TUTTO IL TUO CUORE, CON TUTTA LA TUA ANIMA E CON TUTTA LA TUA MENTE»

2083 - Gesù ha riassunto i doveri dell'uomo verso Dio in questa parola: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua mente» (Mt 22,37). Essa fa immediatamente eco alla solenne esortazione: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (Dt 6,4). Dio ha amato per primo. L'amore del Dio unico è ricordato nella prima delle «dieci parole». I comandamenti poi esplicitano la risposta d'amore che l'uomo è chiamato a dare al suo Dio.

Articolo 1

IL PRIMO COMANDAMENTO

«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dei di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo, né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai» (Es 20,2~5). Sta scritto: «Adora il Signore Dio tuo e a lui solo rendi culto» (Mt 4,10)

I. «Adorerai il Signore Dio tuo e lo servirai».

2084 - Dio si fa conoscere ricordando la sua azione onnipotente, bene­vola e liberatrice nella storia di colui al quale si rivolge: «Io ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Dt 5,6). La prima parola contiene il primo comandamento della Legge: «Temerai il Signore Dio tuo, lo servirai [...]. Non seguirete altri dei» (Dt 6,13-14). Il primo appello e la giusta esigenza di Dio è che l'uomo lo accolga e lo adori.

2085 - Il Dio unico e vero rivela innanzi tutto la sua gloria ad Israele. La rivelazione della vocazione e della verità dell'uomo è legata alla ri­velazione di Dio. L'uomo ha la vocazione di manifestare Dio agendo in conformità con il suo essere creato «ad immagine e somiglianza» di Dio (Gn 1,26): «Non ci saranno mai altri dei, Trifone, nè mai ce ne sono stati fin dalle origini (...) all'infuori di colui che ha creato e ordinato l'universo. Noi non pensiamo che il nostro Dio differisca dal vostro. È lo stesso che ha fatto uscire i vostri padri dall'Egitto con mano potente e braccio teso. Noi non riponiamo le nostre speranze in qualche altro dio - non ce ne sono ma nello stesso Dio in cui voi sperate, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe».

2086 - «Nell'esplicita affermazione divina: “Io sono il Signore tuo Dio” è incluso il comandamento della fede, della speranza e della carità. Se noi riconosciamo infatti che egli è Dio, e cioè eterno, immutabile, sem­pre uguale a se stesso, affermiamo con ciò anche la sua infinita veraci­tà; ne segue quindi l'obbligo di accogliere le sue parole e di aderire ai suoi comandi con pieno riconoscimento della sua autorità. Se egli inol­tre è Dio, noi ne riconosciamo l'onnipotenza, la bontà, i benefici; di qui l'illimitata fiducia e la speranza. E se egli è l'infinita bontà e l'infi­nito amore, come non offrirgli tutta la nostra dedizione e donargli tutto il nostro amore? Ecco perché nella Bibbia Dio inizia e conclude inva­riabilmente i suoi comandi con la formula: Io sono il Signore».

LA FEDE

2087 - La nostra vita morale trova la sua sorgente nella fede in Dio che ci rivela il suo amore. San Paolo parla dell'obbedienza alla fede come dell'obbligo primario. Egli indica nell'«ignoranza di Dio» il principio e la spiegazione di tutte le deviazioni morali. Il nostro dovere nei con­fronti di Dio è di credere in lui e di rendergli testimonianza.

2088 - Il primo comandamento ci richiede di nutrire e custodire la no­stra fede con prudenza e vigilanza e di respingere tutto ciò che le è contrario. Ci sono diversi modi di peccare contro la fede: Il dubbio volontario circa la fede tra scura o rifiuta di ritenere per vero ciò che Dio ha rivelato e che la Chiesa ci propone a credere. Il dubbio involontario indica l'esitazione a credere, la difficoltà nel superare le obiezioni legate alla fede, oppure anche l'ansia causata dalla sua oscurità. Se viene deliberatamente coltivato, il dubbio può condurre all'accecamento dello spirito.

2089 - L'incredulità è la noncuranza della verità rivelata o il rifiuto volontario di dare ad essa il proprio assenso. «Viene detta eresia l'ostina­ta negazione, dopo aver ricevuto il Battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di es­sa; apostasia, il ripudio totale della fede cristiana; lo scisma, il rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice o della comunione con i mem­bri della Chiesa a lui soggetti».

LA SPERANZA

2090 - Quando Dio si rivela e chiama l'uomo, questi non può risponde­re pienamente all'amore divino con le sue proprie forze. Deve sperare che Dio gli donerà la capacità di contraccambiare il suo amore e di agire conformemente ai comandamenti della carità. La speranza è l'atte­sa fiduciosa della benedizione divina e della beata visione di Dio; è anche il timore di offendere l'amore di Dio e di provocare il castigo.

2091 - Il primo comandamento riguarda pure i peccati contro la speran­za, i quali sono la disperazione e la presunzione: Per la disperazione, l'uomo cessa di sperare da Dio la propria salvezza personale, gli aiuti per conseguirla o il perdono dei propri pecca­ti. Si oppone alla bontà di Dio, alla sua giustizia il Signore, infatti, è fedele alle sue promesse - e alla sua misericordia.

2092 - Ci sono due tipi di presunzione. O l'uomo presume delle proprie capacità (sperando di potersi salvare senza l'aiuto dall'alto), oppure presume della onnipotenza e della misericordia di Dio (sperando di ottenere il suo perdono senza conversione e la gloria senza merito).

LA CARITÀ

2093 - La fede nell'amore di Dio abbraccia l'appello e l'obbligo di rispondere alla carità divina con un amore sincero. Il primo comanda-mento ci ordina di amare Dio al di sopra di tutto, e tutte le creature per lui e a causa di lui.

2094 - Si può peccare in diversi modi contro l'amore di Dio: l'indifferenza è incurante della carità divina o rifiuta di prenderla in considera­zione; ne misconosce l'iniziativa e ne nega la forza. L'ingratitudine trala­scia o rifiuta di riconoscere la carità divina e di ricambiare a Dio amore per amore. La tiepidezza è un'esitazione o una negligenza nel rispondere all'amore divino; può implicare il rifiuto di abbandonarsi al dinamismo della carità. L'accidia o pigrizia spirituale giunge a rifiutare la gioia che viene da Dio e a provare repulsione per il bene divino. L'odio di Dio nasce dall'orgoglio. Si oppone all'amore di Dio, del quale nega la bontà e che ardisce maledire come colui che proibisce i peccati e infligge i castighi.

II. «A lui solo rendi culto».

2095 - Le virtù teologali della fede, della speranza e della carità infor­mano e vivificano le virtù morali. Cosi la carità ci porta a rendere a Dio ciò che in tutta giustizia gli dobbiamo in quanto creature. La virtù della religione ci dispone a tale atteggiamento.

ADORAZIONE

2096 - Della virtù della religione, l'adorazione è l'atto principale. Adorare Dio è riconoscerlo come Dio, come Creatore e Salvatore, Signore e Padrone di tutto ciò che esiste, Amore infinito e miseri­cordioso. «Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai» Lc 4,8), dice Gesù, citando il Deuteronomio (Dt 6,13).

2097 - Adorare Dio è riconoscere, nel rispetto e nella sottomissione assolu­ta, il «nulla della creatura», la quale non esiste che da Dio. Adorare Dio come fa Maria nel “Magmficat” - è lodarlo, esaltarlo e umiliare se stes­si, confessando con gratitudine che egli ha fatto grandi cose e che santo è il suo nome. L'adorazione del Dio unico libera l'uomo dal ripiegamento su se stesso, dalla schiavitù del peccato e dall'idolatria del mondo.

LA PREGHIERA

2098 - Gli atti di fede, di speranza e di carità prescritti dal primo co­mandamento si compiono nella preghiera. L'elevazione dello spirito ver­so Dio è un'espressione della nostra adorazione di Dio: preghiera di lo­de e di rendimento di grazie, d'intercessione e di domanda. La preghie­ra è una condizione indispensabile per poter obbedire ai comandamenti di Dio. Bisogna «pregare sempre, senza stancarsi» (Lc 18,1).

IL SACRIFICIO

2099 - É giusto offrire sacrifici a Dio in segno di adorazione e di rico­noscenza, di implorazione e di comunione: «Ogni azione compiuta per aderire a Dio rimanendo con lui in comunione, e poter così essere nella gioia, è un vero sacrificio».

2100 - Per essere autentico, il sacrificio esteriore deve essere espressione del sacrificio spirituale: «Uno spirito contrito è sacrificio...» (Sal 51,19). I profeti dell'Antica Alleanza spesso hanno denunciato i sacrifici compiuti senza partecipazione interiore disgiunti dall'amore del prossimo. Gesù richiama le parole del profeta Osea: «Misericordia io voglio, non sacrificio» (Mt 9,13; l2,7). L'unico sacrificio perfetto è quello che Cristo ha offerto sulla croce in totale oblazione all'amore del Padre e per la nostra salvezza. Unendoci al suo sacrificio, possiamo fare della nostra vita un sacrificio a Dio.

PROMESSE E VOTI

2101 - In parecchie circostanze il cristiano è chiamato a fare delle promesse a Dio. Il Battesimo e la Confermazione, il Matrimonio e l'Ordi­nazione sempre ne comportano. Per devozione personale il cristiano può anche promettere a Dio un'azione, una preghiera, un'elemosina, un pellegrinaggio, ecc. La fedeltà alle promesse fatte a Dio è un'espressio­ne del rispetto dovuto alla divina maestà e dell'amore verso il Dio fedele.

2102 - «Il voto, ossia la promessa deliberata e libera di un bene possibi­le e migliore fatta a Dio, deve essere adempiuto per la virtù della reli­gione». Il voto è un atto di devozione, con cui il cristiano offre se stesso a Dio o gli promette un'opera buona. Mantenendo i suoi voti, egli rende pertanto a Dio ciò che a lui è stato promesso e consacrato. Gli Atti degli Apostoli ci presentano san Paolo preoccupato di mante­nere i voti da lui fatti.

2103 - La Chiesa riconosce un valore esemplare ai voti di praticare i consigli evangelici: «Si rallegra la Madre Chiesa di trovare nel suo seno molti uomini e donne, che seguono più da vicino l'annientamento del Salvatore e più chiaramente lo mostrano, abbracciando la povertà nella libertà dei figli di Dio e rinunciando alla propria volontà: essi, cioè, in ciò che riguar­da la perfezione, si sottomettono a un uomo per Dio, al di là della stretta misura del precetto, al fine di conformarsi più pienamente a Cristo obbediente». In certi casi, la Chiesa può, per congrue ragioni, dispensare dai voti e dalle promesse.

IL DOVERE SOCIALE DELLA RELIGIONE E IL DIRITTO ALLA LIBERTÀ RELIGIOSA

2104 - «Tutti gli uomini sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che riguarda Dio e la sua Chiesa, e, una volta conosciuta, ad ab­bracciarla e custodirla». É un dovere che deriva dalla «stessa natura» degli uomini. Non si contrappone ad un sincero rispetto per le diverse religioni, le quali «non raramente riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini», né all'esigenza della carità, che spinge i cristiani «a trattare con amore, prudenza e pazienza gli uomini che sono nell'errore o nell'ignoranza circa la fede».

2105 - Il dovere di rendere a Dio un culto autentico riguarda l'uomo individualmente e socialmente. È «la dottrina cattolica tradizionale sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo». Evangelizzando senza posa gli uomini, la Chiesa si adopera affinché essi possano «informare dello spirito cristiano la men­talità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità» in cui vivo­no. Il dovere sociale dei cristiani è di rispettare e risvegliare in ogni uo­mo l'amore del vero e del bene. Richiede loro di far conoscere il culto dell'unica vera religione che sussiste nella Chiesa cattolica ed apostoli­ca. I cristiani sono chiamati ad essere la luce del mondo. La Chiesa in tal modo manifesta la regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane.

2106 - «Che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza, né impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità alla sua coscienza privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata». Tale diritto si fonda sulla natura stessa della persona uma­na, la cui dignità la fa liberamente aderire alla verità divina che tra­scende l'ordine temporale. Per questo «perdura anche in coloro che non soddisfano all'obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa».

2107 - «Se, considerate le circostanze peculiari dei popoli, nell'ordinamento giu­ridico di una società viene attribuito ad una comunità religiosa uno speciale riconoscimento civile, è necessario che nello stesso tempo a tutti i cittadini e comunità religiose venga riconosciuto e rispettato il diritto alla libertà in mate­ria religiosa».

2108 - Il diritto alla libertà religiosa non è né la licenza morale di aderire all'errore, né un implicito diritto all'errore, bensì un diritto naturale della persona umana alla libertà civile, cioè all'immunità da coercizione esteriore, entro giusti limiti, in materia religiosa, da parte del potere politico. Questo diritto naturale deve essere riconosciuto nell'ordinamento giuridico della società così che divenga diritto civile.

2109 - Il diritto alla libertà religiosa non può essere di per sé né illimitato, né limitato semplicemente da un ordine pubblico concepito secondo un criterio «positivistico o «naturalistico». I «giusti limiti o che sono inerenti a tale diritto devono essere determinati per ogni situazione sociale con la prudenza politica, secondo le esigenze del bene comune, e ratificati dall'autorità civile secondo «norme giuridiche conformi all'ordine morale oggettivo.

III. «Non avrai altri dèi di fronte a me».

2110 - Il primo comandamento vieta di onorare altri dèi, all'infuori dell'unico Signore che si è rivelato al suo popolo. Proibisce la superstizione e l'irreligione. La superstizione rappresenta, in qualche modo, un eccesso perverso della religione; l'irreligione è un vizio opposto, per difetto, alla virtù della religione.

LA SUPERSTIZIONE

2111 - La superstizione è la deviazione del sentimento religioso e delle pratiche che esso impone. Può anche presentarsi mascherata sotto il culto che rendiamo al vero Dio, per esempio, quando si attribuisce un'importanza in qualche misura magica a certe pratiche, peraltro legit­time o necessarie. Attribuire alla sola materialità delle preghiere o dei segni sacramentali la loro efficacia, prescindendo dalle disposizioni inte­riori che richiedono, è cadere nella superstizione.

L'IDOLATRIA

2112 - Il primo comandamento condanna il politeismo. Esige dall'uomo di non credere in altri dèi che nell'unico Dio, di non venerare altre di­vinità che l'Unico. La Scrittura costantemente richiama a questo rifiuto degli idoli che sono «argento e oro, opera delle mani dell'uomo», i quali «hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono...». Questi idoli vani rendono l'uomo vano: «Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida» (Sal 1 l5,4-5.8). Dio, al contrario, è il «Dio vivente» (Gs 3,l0), che fa vivere e interviene nella storia.

2113 - L'idolatria non concerne soltanto i falsi culti del paganesimo. Rimane una costante tentazione della fede. Consiste nel divinizzare ciò che non è Dio. C'è idolatria quando l'uomo onora e riverisce una crea­tura al posto di Dio, si tratti degli dèi o dei demoni (per esempio il sa­tanismo), del potere, del piacere, della razza, degli antenati, dello Stato, del denaro, ecc. «Non potete servire a Dio e a mammona», dice Gesù (Mi 6,24). Numerosi martiri sono morti per non adorare «la Bestia», rifiutando perfino di simularne il culto. L'idolatria respinge l'unica Signoria di Dio; perciò è incompatibile con la comunione divina.

2114 - La vita umana si unifica nell'adorazione dell'Unico. Il comandamento di adorare il solo Signore unifica l'uomo e lo salva da una di­spersione senza limiti. L'idolatria è una perversione del senso religioso innato nell'uomo. Idolatra è colui che «riferisce la sua indistruttibile nozione di Dio a chicchessia anziché a Dio».

DIVINAZIONE E MAGIA

2115 - Dio può rivelare l'avvenire ai suoi profeti o ad altri santi. Tutta­via il giusto atteggiamento cristiano consiste nell'abbandonarsi con fiducia nelle mani della provvidenza per ciò che concerne il futuro e a ri­fuggire da ogni curiosità malsana a questo riguardo. L'imprevidenza può costituire una mancanza di responsabilità.

2116 - Tutte le forme di divinazione sono da respingere: ricorso a Satana o ai demoni, evocazione dei morti o altre pratiche che a torto si ritiene che «svelino» l'avvenire. La consultazione degli oroscopi, l'astrologia, la chiromanzia, l'interpretazione dei presagi e delle sorti, i fenomeni di veggenza, il ricorso ai medium manifestano una volontà di dominio sul tempo, sulla storia ed infine sugli uomini ed insieme un desiderio di rendersi propizie le potenze nascoste. Sono in contraddizione con l'ono­re e il rispetto, congiunto a timore amante, che dobbiamo a Dio solo.

2117 - Tutte le pratiche di magia e di stregoneria con le quali si preten­de di sottomettere le potenze occulte per porle al proprio servizio ed ottenere un potere soprannaturale sul prossimo fosse anche per pro­curargli la salute sono gravemente contrarie alla virtù della religione. Tali pratiche sono ancora più da condannare quando si accompagnano ad una intenzione di nuocere ad altri o quando in esse si ricorre all'in­tervento dei demoni. Anche portare amuleti è biasimevole. Lo spiritismo spesso implica pratiche divinatorie o magiche. Pure da esso la Chiesa mette in guardia i fedeli. Il ricorso a pratiche mediche dette tradizionali non legittima né l'invocazione di potenze cattive, né lo sfruttamento della credulità altrui.

L'IRRELIGIONE

2118 - Il primo comandamento di Dio condanna i principali peccati di irreligione: l'azione di tentare Dio, con parole o atti, il sacrilegio e la simonia.

2119 - L'azione di tentare Dio consiste nel mettere alla prova, con paro­le o atti, la sua bontà e la sua onnipotenza. E’ così che Satana voleva ottenere da Gesù che si buttasse giù dal Tempio obbligando Dio, in tal modo, ad intervenire. Gesù gli oppone la parola di Dio: «Non tente­rai il Signore Dio tuo» (Dt 6,16). La sfida implicita in simile tentazione di Dio ferisce il rispetto e la fiducia che dobbiamo al nostro Creatore e Signore. In essa si cela sempre un dubbio riguardo al suo amore, alla sua provvidenza e alla sua potenza.

2120 - Il sacrilegio consiste nel profanare o nel trattare indegnamente i sacramenti e le altre azioni liturgiche, come pure le persone, gli oggetti e i luoghi consacrati a Dio. Il sacrilegio è un peccato grave soprattutto quando è commesso contro l'Eucaristia, poiché, in questo sacramento, ci é reso presente sostanzialmente il Corpo stesso di Cristo.

2121 - La simonia consiste nell'acquisto o nella vendita delle realtà spirituali. A Simone il mago, che voleva acquistare il potere spirituale che vedeva all'opera negli Apostoli, Pietro risponde: «Il tuo denaro vada con te in perdizione, perché hai osato pensare di acquistare con denaro il dono di Dio» (At 8,20). Così si conformava alla parola di Gesù: «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt l0,8). É impossibile appropriarsi i beni spirituali e comportarsi nei loro con­fronti come un possessore o un padrone, dal momento che la loro sor­gente è in Dio. Non si può che riceverli gratuitamente da lui.

2122 - «Il ministro, oltre alle offerte determinate dalla competente autorità, per l'amministrazione dei sacramenti non domandi nulla, evitando sempre che i più bisognosi siano privati dell'aiuto dei sacramenti a motivo della povertà» L'autorità competente determina queste «offerte» in virtù del principio che il popolo cristiano deve concorrere al sostentamento dei ministri della Chiesa. «L'operaio ha diritto al suo nutrimento» (Mt 10,10).

L'ATEISMO

2123 - «Molti nostri contemporanei (…) non percepiscono affatto o esplicitamente rigettano l'intimo e vitale legame con Dio, così che l'atei­smo va annoverato fra le cose più gravi del nostro tempo».

2124 - Il termine ateismo indica fenomeni molto diversi. Una forma fre­quente di esso è il materialismo pratico, che racchiude i suoi bisogni e le sue ambizioni entro i confini dello spazio e del tempo. L'umanesimo ateo ritiene falsamente che l'uomo «sia fine a se stesso, unico artefice e demiurgo della propria storia». Un'altra forma dell'ateismo contempo­raneo si aspetta la liberazione dell'uomo da una liberazione economica e sociale, alla quale «si pretende che la religione sia di ostacolo, per natura sua, in quanto, elevando la speranza dell'uomo verso una vita futura e fallace, lo distoglierebbe dall'edificazione della città terrena».

2125 - Per il fatto che respinge o rifiuta l'esistenza di Dio, l'ateismo è un peccato contro la virtù della religione. L'imputabilità di questa col­pa può essere fortemente attenuata dalle intenzioni e dalle circostanze. Alla genesi e alla diffusione dell'ateismo «possono contribuire non po­co i credenti, in quanto per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione fallace della dottrina, o anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e della reli­gione».

2126 - Spesso l'ateismo si fonda su una falsa concezione dell'autonomia umana, spinta fino al rifiuto di ogni dipendenza nei confronti di Dio. In realtà, il riconoscimento di Dio non si oppone in alcun modo alla dignità dell'uomo, «dato che questa dignità trova proprio in Dio il suo fondamento e la sua perfezione». La Chiesa sa «che il suo messaggio è in armonia con le aspirazioni più segrete del cuore umano».

L’AGNOSTICISMO

2127 - L'agnosticismo assume parecchie forme. In certi casi l'agnostico si rifiuta di negare Dio; ammette invece l'esistenza di un essere trascen­dente che non potrebbe rivelarsi e di cui nessuno sarebbe in grado di dire niente. In altri casi l'agnostico non si pronuncia sull'esistenza di Dio, dichiarando che è impossibile provarla, così come è impossibile ammetterla o negarla.

2128 - L'agnosticismo può talvolta racchiudere una certa ricerca di Dio, ma può anche costituire un indifferentismo, una fuga davanti al proble­ma ultimo dell'esistenza e un torpore della coscienza morale. Troppo spesso l'agnosticismo equivale a un ateismo pratico.

IV. «Non ti farai alcuna immagine scolpita...».

2129 - L'ingiunzione divina comportava il divieto di qualsiasi rappresen­tazione di Dio fatta dalla mano dell'uomo. Il Deuteronomio spiega: «Poiché non vedeste alcuna figura, quando il Signore vi parlò sull'Oreb dal fuoco, state bene in guardia per la vostra vita, perché non vi cor­rompiate e non vi facciate l'immagine scolpita di qualche idolo» (Dt 4,15-16). È il Dio assolutamente trascendente che si è rivelato a Israe­ le. «Egli è tutto», ma, al tempo stesso, è «al di sopra di tutte le sue opere» (Sir 43,27-28). Egli è «lo stesso autore della bellezza» (Sap 13,3).

2130 - Tuttavia, fin dall'Antico Testamento, Dio ha ordinato o permes­so di fare immagini che simbolicamente conducessero alla salvezza ope­rata dal Verbo incarnato: così il serpente di rame, l’arca dell'Alleanza e i cherubini.

2131 - Fondandosi sul mistero del Verbo incarnato, il settimo Concilio ecumenico, a Nicea (nel 787), ha giustificato, contro gli iconoclasti, il culto delle icone: quelle di Cristo, ma anche quelle della Madre di Dio, degli angeli e di tutti i santi. Incarnandosi, il Figlio di Dio ha inaugu­rato una nuova «economia» delle immagini.

2132 - Il culto cristiano delle immagini non è contrario al primo co­mandamento che proscrive gli idoli. In effetti, «l'onore reso ad un'im­magine appartiene a chi vi è rappresentato» e «chi venera l'immagi­ne, venera la realtà di chi in essa è riprodotto». L'onore tributato alle sacre immagini è una «venerazione rispettosa», non un'adorazione che conviene solo a Dio: «Gli atti di culto non sono rivolti alle immagini considerate in se stes­se, ma in quanto servono a raffigurare il Dio incarnato. Ora, il moto che si volge all'immagine in quanto immagine, non si ferma su di essa, ma tende alla realtà che essa rappresenta».

In sintesi

2133 - «Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutte le tue forze» (Dt 6,5).

2134 - Il primo comandamento chiama l'uomo a credere in Dio, a sperare in lui, ad amarlo al di sopra di tutto.

2135 - «Adora il Signore Dio tuo» (Mt 4,10). Adorare Dio, pregarlo, rendergli il culto che a lui e dovuto, mantenere le promesse e i voti che a lui si sono fatti, sono atti della virtù della religione, che espri­mono l'obbedienza al primo comandamento.

2136 - Il dovere di rendere a Dio un culto autentico riguarda l'uomo indivi­dualmente e socialmente.

2137 - L'uomo deve poter professare liberamente la religione sia in forma privata che pubblica.

2138 - La superstizione e una deviazione del culto che rendiamo al vero Dio. Ha la sua massima espressione nell'idolatria, come nelle varie forme di divinazione e di magia.

2139 - L'azione di tentare Dio con parole o atti, il sacrilegio, la simonia sono peccati di irreligione proibiti dal primo comandamento.

2140 - L'ateismo, in quanto respinge o rifiuta l'esistenza di Dio, e un pec­cato contro il primo comandamento.

2141 - Il culto delle sacre immagini e fondato sul mistero dell'incarnazione del Verbo di Dio. Esso non è in opposizione al primo comandamento.

Articolo 2

IL SECONDO COMANDAMENTO

«Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio» (Es 20,7). «Fu detto agli antichi: "Non spergiurare" […]. Ma io vi dico: Non giurate affatto (Mt 5,33-34).

I. Il nome del Signore è santo.

2142 - Il secondo comandamento prescrive di rispettare il nome del Si­gnore. Come il primo comandamento, deriva dalla virtù della religione e regola in particolare il nostro uso della parola a proposito delle cose sante.

2143 - Tra tutte le parole della Rivelazione ve ne è una singolare, che è la rivelazione del nome di Dio, che egli svela a coloro che credono in lui; egli si rivela ad essi nel suo mistero personale. Il dono del nome appartiene all'ordine della confidenza e dell'intimità. «Il nome del Signore è santo». Per questo l'uomo non può abusarne. Lo deve custodire nella memoria in un silenzio di adorazione piena d'amore. Non lo inserirà tra le sue parole, se non per benedirlo, lodarlo e glorificarlo.

2144 - Il rispetto per il nome di Dio esprime quello dovuto al suo stes­so mistero e a tutta la realtà sacra da esso evocata. Il senso del sacro fa parte della virtù della religione: Il sentimento di timore e il sentimento del sacro sono sentimenti cristiani o no? (…) Nessuno può ragionevolmente dubitarne. Sono i sentimenti che palpiterebbero in noi, e con forte intensità, se avessimo la visione della Maestà di Dio. Sono i sentimenti che proveremmo se ci rendessimo conto della sua presenza. Nella misura in cui crediamo che Dio è presente, dobbiamo avvertirli. Se non li avvertiamo, è perché non percepiamo, non crediamo che egli è presente».

2145 - Il fedele deve testimoniare il nome del Signore, confessando la propria fede senza cedere alla paura. L'atto della predicazione e l'atto della catechesi devono essere compenetrati di adorazione e di rispetto per il nome del Signore nostro Gesù Cristo.

2146 - Il secondo comandamento proibisce l'abuso del nome di Dio, cioè ogni uso sconveniente del nome di Dio, di Gesù Cristo, della Vergine Maria e di tutti i santi.

2147 - Le promesse fatte ad altri nel nome di Dio impegnano l'onore, la fedeltà, la veracità e l'autorità divine. Esse devono essere mantenute, per giustizia. Essere infedeli a queste promesse equivale ad abusare del nome di Dio e, in qualche modo, a fare di Dio un bugiardo.

2148 - La bestemmia si oppone direttamente al secondo comandamento. Consiste nel proferire contro Dio - interiormente o esteriormente - pa­role di odio, di rimprovero, di sfida, nel parlare male di Dio, nel man­care di rispetto verso di lui nei propositi, nell'abusare del nome di Dio. San Giacomo disapprova coloro «che bestemmiano il bel nome [di Ge­sù] che è stato invocato» sopra di loro (Gc 2,7). La proibizione della bestemmia si estende alle parole contro la Chiesa di Cristo, i santi, le cose sacre. È blasfemo anche ricorrere al nome di Dio per mascherare pratiche criminali, ridurre popoli in schiavitù, torturare o mettere a morte. L'abuso del nome di Dio per commettere un crimine provoca il rigetto della religione. La bestemmia è contraria al rispetto dovuto a Dio e al suo santo nome. Per sua natura è un peccato grave.

2149 - Le imprecazioni, in cui viene inserito il nome di Dio senza inten­zione di bestemmia, sono una mancanza di rispetto verso il Signore. Il secondo comandamento proibisce anche l'uso magico del nome divino: «Il nome di Dio é grande laddove lo si pronuncia con il rispetto dovu­to alla sua grandezza e alla sua maestà. Il nome di Dio é santo laddove lo si nomina con venerazione e con il timore di offenderlo».

II. Il nome di Dio pronunciato invano.

2150 - Il secondo comandamento proibisce il falso giuramento. Fare pro­messa solenne o giurare è prendere Dio come testimone di ciò che si af­ferma. E invocare la veracità divina a garanzia della propria veracità. Il giuramento impegna il nome del Signore. «Temerai il Signore Dio tuo, lo servirai e giurerai per il suo nome» (Dt 6,13).

2151 - Astenersi dal falso giuramento è un dovere verso Dio. Come Creatore e Signore, Dio è la norma di ogni verità. La parola umana è in accordo con Dio oppure in opposizione a lui che è la stessa verità. Quando il giuramento è veridico e legittimo, mette in luce il rapporto della parola umana con la verità di Dio. Il giuramento falso chiama Dio ad essere testimone di una menzogna.

2152 - È spergiuro colui che, sotto giuramento, fa una promessa con l'intenzione di non mantenerla, o che, dopo aver promesso sotto giuramento, non vi si attiene. Lo spergiuro costituisce una grave mancanza di rispetto verso il Signore di ogni parola. Impegnarsi con giuramento a compiere un'opera cattiva è contrario alla santità del nome divino.

2153 - Gesù ha esposto il secondo comandamento nel discorso della montagna: «Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti!” Ma io vi dico: non giura­te affatto (…). Sia invece il vostro parlare sì, si; no, no; il di più viene dal maligno» (Mt 5,33~34.37). Gesù insegna che ogni giuramento implica un riferimento a Dio e che la presenza di Dio e della sua verità deve essere onorata in ogni parola. La discrezione del ricorso a Dio nel parlare procede di pari passo con l'attenzione rispettosa per la sua pre­senza, testimoniata o schernita, in ogni nostra affermazione.

2154 - Seguendo san Paolo, la Tradizione della Chiesa ha inteso che la parola di Gesù non si oppone al giuramento, allorché viene fatto per un motivo grave e giusto (per esempio davanti ad un tribunale). «Il giuramento, ossia l'invocazione del nome di Dio a testimonianza della verità, non può essere prestato se non secondo verità, prudenza e giu­stizia.

2155 - La santità del nome divino esige che non si faccia ricorso ad es­so per cose futili e che non si presti giuramento in quelle circostanze in cui esso potrebbe essere interpretato come un'approvazione del potere da cui ingiustamente venisse richiesto. Quando il giuramento è esigito da autorità civili illegittime, può essere rifiutato. Deve esserlo allorché è richiesto per fini contrari alla dignità delle persone o alla comunione ecclesiale.

III. Il nome cristiano.

2156 - Il sacramento del Battesimo è conferito «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (Mt 28,19). Nel Battesimo il nome del Signore santifica l'uomo e il cristiano riceve il proprio nome nella Chie­sa. Può essere il nome di un santo, cioè di un discepolo che ha vissuto con esemplare fedeltà al suo Signore. Il patrocinio del santo offre un modello di carità ed assicura la sua intercessione. Il «nome di Battesi­mo» può anche esprimere un mistero cristiano o una virtù cristiana. «I genitori, i padrini e il parroco abbiano cura che non venga imposto un nome estraneo al senso cristiano.

2157 - Il cristiano incomincia la sua giornata, le sue preghiere, le sue azioni con il segno della croce, «nel nome del Padre e del Figlio e del­lo Spirito Santo. Amen». Il battezzato consacra la giornata alla gloria di Dio e invoca la grazia del Salvatore, la quale gli permette di agire nello Spirito come figlio del Padre. Il segno della croce ci fortifica nelle tentazioni e nelle difficoltà.

2158 - Dio chiama ciascuno per nome. Il nome di ogni uomo è sacro. Il nome è l'icona della persona. Esige il rispetto, come segno della di­gnità di colui che lo porta.

2159 - Il nome ricevuto è un nome eterno. Nel Regno, il carattere mi­sterioso ed unico di ogni persona segnata dal nome di Dio risplenderà in piena luce. «Al vincitore darò (…) una pietruzza bianca sulla quale sta scritto un nome nuovo, che nessuno conosce l'infuori di chi la ri­ceve» (Ap 2,17). «Poi guardai ed ecco l'Agnello ritto sul monte Sion e insieme centoquarantaquattromila persone che recavano scritto sulla fronte il suo nome e il nome del Padre suo» (Ap 14,l).

In sintesi

2160 - «O Signore, nostro Dio, quanto é grande il tuo nome su tutta la terra!» (SaI 8,2).

2161 - Il secondo comandamento prescrive di rispettare il nome del Signo­re. Il nome del Signore è santo.

2162 - Il secondo comandamento proibisce ogni uso sconveniente del nome di Dio. La bestemmia consiste nell'usare il nome di Dio, di Gesù Cristo, della Vergine Maria e dei santi in un modo ingiurioso.

2163 - Il falso giuramento chiama Dio come testimone di una menzogna. Lo spergiuro è una mancanza grave contro il Signore, sempre fedele alle sue promesse.

2164 - «Non giurare né per il Creatore, né per la creatura, se non con verità, per necessità e con riverenza».

2165 - Nel Battesimo, il cristiano riceve il proprio nome nella Chiesa. I genitori, i padrini e il parroco avranno cura che gli venga dato un nome cristiano. Essere sotto il patrocinio di un santo significa avere in lui un modello di carità e un sicuro intercessore.

2166 - Il cristiano incomincia le sue preghiere e le sue azioni con il segno della croce «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. Amen».

2167 - Dio chiama ciascuno per nome.

Articolo 3

IL TERZO COMANDAMENTO

«Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno é il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro» (Es 20,8~l0).) «Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato» (Mc 2,27-28).

I. Il giorno di sabato.

2168 - Il terzo comandamento del Decalogo ricorda la santità del saba­to: «Il settimo giorno vi sarà riposo assoluto, sacro al Signore» (Es 31,15).

2169 - La Scrittura a questo proposito fa memoria della creazione: «Per­ché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro» (Es 20,11).

2170 - La Scrittura rivela nel giorno del Signore anche un memoriale della liberazione di Israele dalla schiavitù d'Egitto: «Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso; perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato» (Dt 5,15).

2171 - Dio ha affidato a Israele il sabato perché lo rispetti in segno del­l'Alleanza perenne. Il sabato è per il Signore, santamente riservato alla lode di Dio, della sua opera creatrice e delle sue azioni salvifiche in favore di Israele.

2172 - L'agire di Dio è modello dell'agire umano. Se Dio nel settimo giorno «si è riposato» (Es 31,17), anche l'uomo deve «far riposo» e lasciare che gli altri, soprattutto i poveri, «possano goder quiete». Il sabato sospende le attività quotidiane e concede una tregua. È un gior­no di protesta contro le schiavitù del lavoro e il culto del denaro. 2173 - Il Vangelo riferisce numerose occasioni nelle quali Gesù viene accusato di violare la legge del sabato. Ma Gesù non viola mai la san­tità di tale giorno. Egli con autorità ne dà l'interpretazione autentica: Il sabato è stato fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato» (Mc 2,27). Nella sua bontà, Cristo ritiene lecito in giorno di sabato fare il bene anziché il male, salvare una vita anziché toglierla. Il sabato è il giorno del Signore delle misericordie e dell'onore di Dio. «Il Figlio dell'uomo è signore anche del sabato» (Mc 2,28).

Il. Il giorno del Signore.

«Questo è il giorno fatto dal Signore: rallegriamoci ed esultiamo in esso» (SaI 118,24).

IL GIORNO DELLA RISURREZIONE: LA NUOVA CREAZIONE

2174 - Gesù è risorto dai morti «il primo giorno della settimana» (Mc 16,2). In quanto «primo giorno», il giorno della risurrezione di Cristo richiama la prima creazione. In quanto «ottavo giorno», che segue il sabato» esso significa la nuova creazione inaugurata con la risurrezione di Cristo. È diventato, per i cristiani, il primo di tutti i giorni, la prima di tutte le feste, il giorno del Signore (…) «dies domini­ca», la «domenica»: «Ci raduniamo tutti insieme nel giorno del sole, poiché questo è il pri­mo giorno [dopo il sabato ebraico, ma anche il primo giorno] nel quale Dio, trasformate le tenebre e la materia, creò il mondo; sempre in que­sto giorno Gesù Cristo, nostro Salvatore, risuscitò dai morti».

LA DOMENICA - COMPIMENTO DEL SABATO

2175 - La domenica si distingue nettamente dal sabato al quale, ogni setti­mana, cronologicamente succede, e del quale, per i cristiani, sostituisce la prescrizione rituale. Porta a compimento, nella pasqua di Cristo, la verità spirituale del sabato ebraico ed annuncia il riposo eterno dell'uomo in Dio. Infatti, il culto della Legge preparava il mistero di Cristo, e ciò che vi si compiva prefigurava qualche aspetto relativo a Cristo: «Coloro che vivevano nell'antico ordine di cose si sono rivolti alla nuova speranza, non più guardando al sabato, ma vivendo secondo la domenica, giorno in cui è sorta la nostra vita, per la grazia del Signore e per la sua morte».

2176 - La celebrazione della domenica attua la prescrizione morale na­turalmente iscritta nel cuore dell'uomo «di rendere a Dio un culto este­riore, visibile, pubblico e regolare nel ricordo della sua benevolenza universale verso gli uomini». Il culto domenicale è il compimento del precetto morale dell'Antica Alleanza, di cui riprende il ritmo e lo spiri­to celebrando ogni settimana il Creatore e il Redentore del suo popolo.

L'EUCARISTIA DOMENICALE

2177 - La celebrazione domenicale del giorno e dell'Eucaristia del Signore sta al centro della vita della Chiesa «Il giorno di domenica in cui si celebra il mistero pasquale, per la Tradizione apostolica deve es­sere osservato in tutta la Chiesa come il primordiale giorno festivo di precetto. «Ugualmente devono essere osservati i giorni del Natale del Signore nostro Gesù Cristo, dell'Epifania, dell'Ascensione e del santissimo Corpo e Sangue di Cristo, della santa Madre di Dio Maria, della sua Immacolata Concezione e Assunzione, di san Giuseppe, dei santi Apostoli Pietro e Paolo, e infine di tutti i Santi».

2178 - Questa pratica dell'assemblea cristiana risale agli inizi dell'età apostolica. La lettera agli Ebrei ricorda: «Non disertando le nostre riunioni, come alcuni hanno l'abitudine di fare, ma esortandoci a vicen­da» (Eb 10,25). La Tradizione conserva il ricordo di una esortazione sempre attuale: «Affrettarsi verso la chiesa, avvicinarsi al Signore e confessare i propri peccati, pentirsi durante la preghiera [...]. Assistere alla santa e divina liturgia, terminare la propria preghiera e non uscirne prima del conge­do. [...] L'abbiamo spesso ripetuto: questo giorno vi è concesso per la preghiera e il riposo. È il giorno fatto dal Signore. In esso rallegriamoci ed esultiamo».

2179 - «La parrocchia è una determinata comunità di fedeli che viene costituita stabilmente nell'ambito di una Chiesa particolare e la cui cura pastorale è affidata, sotto l'autorità del Vescovo diocesano, ad un par­roco quale suo proprio pastore». È il luogo in cui tutti i fedeli posso­no essere convocati per la celebrazione domenicale dell'Eucaristia. La parrocchia inizia il popolo cristiano all'espressione ordinaria della vita liturgica, lo raduna in questa celebrazione; insegna la dottrina salvifica di Cristo; pratica la carità del Signore in opere buone e fraterne: «Tu non puoi pregare in casa come in chiesa, dove c'è il popolo di Dio raccolto, dove il grido è elevato a Dio con un cuore solo. [...] Là c'è qualcosa di più, l'unisono degli spiriti, l'accordo delle anime, il legame della carità, le preghiere dei sacerdoti».

L'OBBLIGO DELLA DOMENICA

2180 - Il precetto della Chiesa definisce e precisa la Legge del Signore: «La domenica e le altre feste di precetto i fedeli sono tenuti all'obbligo di partecipare alla Messa». «Soddisfa il precetto di partecipare alla Messa chi vi assiste dovunque venga celebrata nel rito cattolico, o nello stesso giorno di festa, o nel vespro del giorno precedente».

2181 - L'Eucaristia domenicale fonda e conferma tutto l'agire cristiano. Per questo i fedeli sono tenuti a partecipare all'Eucaristia nei giorni di precetto, a meno che siano giustificati da un serio motivo (per esempio, la malattia, la cura dei lattanti) o ne siano dispensati dal loro parroco. Coloro che deliberatamente non ottemperano a questo obbligo commet­tono un peccato grave.

2182 - La partecipazione alla celebrazione comunitaria dell'Eucaristia domenicale è una testimonianza di appartenenza e di fedeltà a Cristo e alla sua Chiesa. In questo modo i fedeli attestano la loro comunione nella fede e nella carità. Essi testimoniano al tempo stesso la santità di Dio e la loro speranza nella salvezza. Si rafforzano vicendevolmente sotto l'assistenza dello Spirito Santo.

2183 - «Se per mancanza del ministro sacro o per altra grave causa diventa im­possibile la partecipazione alla celebrazione eucaristica, si raccomanda vivamen­te che i fedeli prendano parte alla liturgia della Parola, se ve n'è qualcuna nella chiesa parrocchiale o in un altro luogo sacro, celebrata secondo le disposizioni del Vescovo diocesano, oppure attendano per un congruo tempo alla preghiera personalmente o in famiglia, o, secondo l'opportunità, in gruppi di famiglie».

GIORNO DI GRAZIA E DI CESSAZIONE DAL LAVORO

2184 - Come Dio «cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro» (Gn 2,2), così anche la vita dell'uomo è ritmata dal lavoro e dal riposo. L'istituzione del giorno del Signore contribuisce a dare a tutti la possi­bilità di godere di sufficiente riposo e tempo libero che permetta loro di curare la vita familiare, culturale, sociale e religiosa.

2185 - Durante la domenica e gli altri giorni festivi di precetto, i fedeli si asterranno dal dedicarsi a lavori o attività che impediscano il culto dovuto a Dio, la letizia propria del giorno del Signore, la pratica delle opere di misericordia e la necessaria distensione della mente e del cor­po. Le necessità familiari o una grande utilità sociale costituiscono giustificazioni legittime di fronte al precetto del riposo domenicale. I fe­deli vigileranno affinché legittime giustificazioni non creino abitudini pregiudizievoli per la religione, la vita di famiglia e la salute. L'amore della verità cerca il sacro tempo libero, la necessità dell'amo­re accetta il giusto lavoro».

2186 - È doveroso per i cristiani che dispongono di tempo libero ricor­darsi dei loro fratelli che hanno i medesimi bisogni e i medesimi diritti e non possono riposarsi a causa della povertà e della miseria. Dalla pietà cristiana la domenica è tradizionalmente consacrata alle opere di bene e agli umili servizi di cui necessitano i malati, gli infermi, gli an­ziani. I cristiani santificheranno la domenica anche dando alla loro fa­miglia e ai loro parenti il tempo e le attenzioni che difficilmente si pos­sono loro accordare negli altri giorni della settimana. La domenica è un tempo propizio per la riflessione, il silenzio, lo studio e la meditazione, che favoriscono la crescita della vita interiore e cristiana.

2187 - Santificare le domeniche e i giorni di festa esige un serio impegno comu­ne. Ogni cristiano deve evitare di imporre, senza necessità, ad altri ciò che im­pedirebbe loro di osservare il giorno del Signore. Quando i costumi (sport, ri­storanti, ecc.) e le necessità sociali (servizi pubblici, ecc.) richiedono a certuni un lavoro domenicale, ognuno si senta responsabile di riservarsi un tempo suffi­ciente di libertà. I fedeli avranno cura, con moderazione e carità, di evitare gli eccessi e le violenze cui talvolta danno luogo i divertimenti di massa. Nonostan­te le rigide esigenze dell'economia, i pubblici poteri vigileranno per assicurare ai cittadini un tempo destinato al riposo e al culto divino. I datori di lavoro han­no un obbligo analogo nei confronti dei loro dipendenti.

2188 - Nel rispetto della libertà religiosa e del bene comune di tutti, i cristiani devono adoperarsi per far riconoscere dalle leggi le domeniche e i giorni di festa della Chiesa come giorni festivi. Spetta a loro offrire a tutti un esempio pubblico di preghiera, di rispetto e di gioia e difendere le loro tradizioni come un prezioso contributo alla vita spirituale della società umana. Se la legislazione del paese o altri motivi obbliga­no a lavorare la domenica, questo giorno sia tuttavia vissuto come il giorno della nostra liberazione, che ci fa partecipare alla «adunanza festosa e all'assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli» (Eb 12,22-23).

In sintesi

2189 - Osserva il giorno di sabato per santificarlo» (Dt 5,12). «Il setti­mo giorno vi sarà riposo assoluto, sacro al Signore» (Es 31,15).

2190 - Il sabato, che rappresentava il compimento della prima creazione, è sostituito dalla domenica, che ricorda la nuova creazione, iniziata con la risurrezione di Cristo.

2191 - La Chiesa celebra il giorno della risurrezione di Cristo nell'ottavo giorno, che si chiama giustamente giorno del Signore, o domenica.

2192 - «Il giorno di domenica (…) deve essere osservato in tutta la Chiesa come il primordiale giorno festivo di precetto» «La domenica e le altre feste di precetto i fedeli sono tenuti all'obbligo di partecipare alla Messa»

2193 - «La domenica e le altre feste di precetto i fedeli [...] si astengano [...] da quei lavori e da quegli affari che impediscono di rendere culto a Dio e turbano la letizia propria del giorno del Signore o il dovuto riposo della mente e del corpo».

2194 - L'istituzione della domenica contribuisce a dare a tutti la possibilità di «godere di sufficiente riposo e tempo libero che permetta loro di curare la vita familiare, culturale, sociale e religiosa».

2195 - Ogni cristiano deve evitare di imporre, senza necessità, ad altri ciò che impedirebbe loro di osservare il giorno del Signore.

CAPITOLO SECONDO

«AMERAI IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO»

Gesù disse ai suoi discepoli: «Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri o (Gv 13,34).

2196 - Rispondendo alla domanda rivoltagli sul primo dei comanda­menti, Gesù disse: «Il primo è: "Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l'unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza". E il secondo è questo: "Amerai il prossimo tuo come te stesso". Non c'è altro coman­damento più importante di questo» (Mc 12,29-31). L'Apostolo san Paolo lo richiama: «Chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti, il precetto: Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare e qualsiasi altro comandamento, si riassume in queste parole: Amerai il prossimo tuo come te stesso. L'amo­re non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l'amore» (Rm 13,8-10)

Articolo 4

IL QUARTO COMANDAMENTO

«Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio» (Es 20,12). «Stava loro sottomesso» (Lc 2,51). Lo stesso Signore Gesù ha ricordato l'importanza di questo «comandamento di Dio». L'Apostolo insegna: «Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo é giusto. Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra» (Ef 6,l~3).

2197 - Il quarto comandamento apre la seconda tavola della Legge. Indica l'ordine della carità. Dio ha voluto che, dopo lui, onoriamo i nostri genitori ai quali dobbiamo la vita e che ci hanno trasmesso la conoscenza di Dio. Siamo tenuti ad onorare e rispettare tutti coloro che Dio, per il nostro bene, ha rivestito della sua autorità.

2198 - Questo comandamento è espresso nella forma positiva di un do­vere da compiere. Annunzia i comandamenti successivi, concernenti un rispetto particolare della vita, del matrimonio, dei beni terreni, della pa­rola. Costituisce uno dei fondamenti della dottrina sociale della Chiesa.

2199 - Il quarto comandamento si rivolge espressamente ai figli in ordi­ne alle loro relazioni con il padre e con la madre, essendo questa rela­zione la più universale. Concerne parimenti i rapporti di parentela con i membri del gruppo familiare. Chiede di tributare onore, affetto e rico­noscenza ai nonni e agli antenati. Si estende infine ai doveri degli alun­ni nei confronti degli insegnanti, dei dipendenti nei confronti dei datori di lavoro, dei subordinati nei confronti dei loro superiori, dei cittadini verso la loro patria, verso i pubblici amministratori e i governanti. Questo comandamento implica e sottintende i doveri dei genitori, tutori, docenti, capi, magistrati, governanti, di tutti coloro che esercita­no un'autorità su altri o su una comunità di persone.

2200 - L'osservanza del quarto comandamento comporta una ricompen­sa: «Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio» (Es 20,1 2). l rispetto di que­sto comandamento procura, insieme con i frutti spirituali, frutti temporali di pace e di prosperità. Al contrario, la trasgressione di questo comandamento arreca gravi danni alle comunità e alle persone umane.

I. La famiglia nel piano di Dio.

NATURA DELLA FAMIGLIA

2201 - La comunità coniugale è fondata sul consenso degli sposi. Il ma­trimonio e la famiglia sono ordinati al bene degli sposi e alla procrea­zione ed educazione dei figli. L'amore degli sposi e la generazione dei figli stabiliscono tra i membri di una medesima famiglia relazioni perso­nali e responsabilità primarie.

2202 - Un uomo e una donna uniti in matrimonio formano insieme con i loro figli una famiglia. Questa istituzione precede qualsiasi riconosci­mento da parte della pubblica autorità; si impone da sé. La si conside­rerà come il normale riferimento, in funzione del quale devono essere valutate le diverse forme di parentela.

2203 - Creando l'uomo e la donna, Dio ha istituito la famiglia umana e l'ha dotata della sua costituzione fondamentale. I suoi membri sono persone uguali in dignità. Per il bene comune dei suoi membri e della società, la famiglia comporta una diversità di responsabilità, di diritti e di doveri.

LA FAMIGLIA CRISTIANA 2204 - «La famiglia cristiana offre una rivelazione e una realizzazione specifica della comunione ecclesiale; anche per questo motivo, può e de­ve essere chiamata “Chiesa domestica” ». Essa è una comunità di fede, di speranza e di carità; nella Chiesa riveste una singolare importanza come è evidente nel Nuovo Testamento.

2205 - La famiglia cristiana è una comunione di persone, segno e immagi­ne della comunione del Padre e del Figlio nello Spirito Santo. La sua atti­vità procreatrice ed educativa è il riflesso dell'opera creatrice del Padre. La famiglia è chiamata a condividere la preghiera e il sacrificio di Cristo. La preghiera quotidiana e la lettura della Parola di Dio corroborano in essa la carità. La famiglia cristiana è evangelizzatrice e missionaria.

2206 - Le relazioni in seno alla famiglia comportano un'affinità di senti­menti, di affetti e di interessi, che nasce soprattutto dal reciproco ri­spetto delle persone. La famiglia è una comunità privilegiata chiamata a realizzare un'amorevole apertura di animo tra i coniugi e una continua collaborazione tra i genitori nell'educazione dei figli.

II. La famiglia e la società.

2207 - La famiglia è la cellula originaria della vita sociale. È la società naturale in cui l'uomo e la donna sono chiamati al dono di sé nell'a­more e nel dono della vita. L'autorità, la stabilità e la vita di relazione in seno alla famiglia costituiscono i fondamenti della libertà, della sicu­rezza, della fraternità nell'ambito della società. La famiglia è la comuni­tà nella quale, fin dall'infanzia, si possono apprendere i valori morali, si può incominciare ad onorare Dio e a fare buon uso della libertà. La vita di famiglia è un'iniziazione alla vita nella società.

2208 - La famiglia deve vivere in modo che i suoi membri si aprano al­l'attenzione e all'impegno in favore dei giovani e degli anziani, delle persone malate o bandicappate e dei poveri. Numerose sono le famiglie che, in certi momenti, non hanno la possibilità di dare tale aiuto. Toc­ca allora ad altre persone, ad altre famiglie e, sussidiariamente, alla so­cietà provvedere ai bisogni di costoro: «Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo» (Gc 1,27).

2209 - La famiglia deve essere aiutata e difesa con appropriate misure sociali. Là dove le famiglie non sono in grado di adempiere alle loro funzioni, gli altri corpi sociali hanno il dovere di aiutarle e di sostenere l'istituto familiare. In base al principio di sussidiarietà, le comunità più grandi si guarderanno dall'usurpare le loro prerogative o di ingerirsi nella loro vita.

2210 - L'importanza della famiglia per la vita e il benessere della socie­tà, comporta per la società stessa una particolare responsabilità nel sostenere e consolidare il matrimonio e la famiglia. Il potere civile con­sideri «come un sacro dovere rispettare, proteggere e favorire la loro vera natura, la moralità pubblica e la prosperità domestica.

2211 - La comunità politica ha il dovere di onorare la famiglia, di assisterla, e di assicurarle in particolare: la libertà di costituirsi, di procreare figli e di educarli secondo le propone convinzioni morali e religiose; la tutela della stabilità del vincolo coniugale e dell'istituto familiare; la libertà di professare la propria fede, di trasmetterla, di educare in essa i figli, avvalendosi dei mezzi e delle istituzioni necessarie; il diritto alla proprietà privata, la libertà di intraprendere un'attività, di pro­curarsi un lavoro e una casa, il diritto di emigrare; in conformità alle istituzioni dei paesi, il diritto alle cure mediche, all'assi­stenza per le persone anziane, agli assegni familiari; la difesa della sicurezza e della salute, particolarmente in ordine a pericoli come la droga, la pornografia, l'alcolismo, ecc.; la libertà di formare associazioni con altre famiglie e di essere in tal modo rappresentate presso le autorità civili.

2212 - Il quarto comandamento illumina le altre relazioni nella società. Nei nostri fratelli e nelle nostre sorelle vediamo i figli dei nostri genito­ri; nei nostri cugini, i discendenti dei nostri avi; nei nostri concittadini, i figli della nostra patria; nei battezzati, i figli della Chiesa, nostra Ma­dre; in ogni persona umana, un figlio o una figlia di colui che vuole es­sere chiamato «Padre nostro». Conseguentemente, le nostre relazioni con il prossimo sono di carattere personale Il prossimo non è un «in­dividuo» della collettività umana; è «qualcuno» che, per le sue origini conosciute, merita un'attenzione e un rispetto singolari.

2213 - Le comunità umane sono composte di persone. Il loro buon go­verno non si limita alla garanzia dei diritti e all'osservanza dei doveri, come pure al rispetto dei contratti. Giuste relazioni tra imprenditori e dipendenti, governanti e cittadini presuppongono la naturale benevolen­za conforme alla dignità delle persone umane, cui stanno a cuore la giustizia e la fraternità.

III. Doveri dei membri della famiglia.

DOVERI DEI FIGLI

2214 - La paternità divina è la sorgente della paternità umana; è la paternità divina che fonda l'onore dovuto ai genitori. Il rispetto dei figli, minorenni o adulti, per il proprio padre e la propria madre si nutre dell'affetto naturale nato dal vincolo che li unisce. Questo rispet­to è richiesto dal comando divino.

2215 - Il rispetto per i genitori (pietà filiale) è fatto di riconoscenza verso coloro che, con il dono della vita, il loro amore e il loro lavoro, hanno messo al mondo i loro figli e hanno loro permesso di crescere in età, in sapienza e in grazia. «Onora tuo padre con tutto il cuore e non dimen­ticare i dolori di tua madre. Ricorda che essi ti hanno generato; che darai loro in cambio di quanto ti hanno dato?» (Sir 7,27-28).

2216 - Il rispetto filiale si manifesta anche attraverso la vera docilità e la vera obbedienza: «Figlio mio, osserva il comando di tuo padre, non disprezzare l'insegnamento di tua madre (...). Quando cammini ti guide­ranno; quando riposi, veglieranno su di te; quando ti desti, ti parleran­no» (Prv 6,20-22). «Il figlio saggio ama la disciplina, lo spavaldo non ascolta il rimprovero» (Prv 13,1).

2217 - Per tutto il tempo in cui vive nella casa dei suoi genitori, il figlio deve obbedire ad ogni loro richiesta motivata dal suo proprio bene o da quello della famiglia. «Figli, obbedite ai genitori in tutto; ciò è gradito al Signore» (Col 3,20). I figli devono anche obbedire agli ordini ragionevoli dei loro educatori e di tutti coloro ai quali i genitori li hanno affidati. Ma se in coscienza sono per­suasi che è moralmente riprovevole obbedire a un dato ordine, non vi obbedi­scano. Crescendo, i figli continueranno a rispettare i loro genitori. Preverranno i loro desideri, chiederanno spesso i loro consigli, accetteranno i loro giustificati ammonimenti. Con l'emancipazione cessa l'obbedienza dei figli verso i genitori, ma non il rispetto che ad essi è sempre dovuto. Questo trova, in realtà, la sua radice nel timore di Dio, uno dei doni dello Spirito Santo.

2218 - Il quarto comandamento ricorda ai figli divenuti adulti le loro responsabilità verso i genitori. Nella misura in cui possono, devono dare loro l'aiuto materiale e morale, negli anni della vecchiaia e in tempo di malattia, di solitudine o di indigenza. Gesù richiama questo dovere di riconoscenza. «Il Signore vuole che il padre sia onorato dai figli, ha stabilito il dirit­to della madre sulla prole. Chi onora il padre espia i peccati, chi riveri­sce la madre è come chi accumula tesori. Chi onora il padre avrà gioia dai propri figli, sarà esaudito nel giorno della sua preghiera. Chi riveri­sce suo padre vivrà a lungo; chi obbedisce al Signore dà consolazione alla madre» (Sir 3,2-6). «Figlio, soccorri tuo padre nella vecchiaia, non contristarlo durante la sua vita. Anche se perdesse il senno, compatiscilo e non disprezzarlo mentre sei nel pieno del vigore. [...] Chi abbandona il padre è come un bestemmiatore, chi insulta la madre è maledetto dal Signore» (Sir 3,12- 13.16).

2219 - Il rispetto filiale favorisce l'armonia di tutta la vita familiare; concerne anche le relazioni tra fratelli e sorelle. Il rispetto verso i genito­ri si riflette su tutto l'ambiente familiare. «Corona dei vecchi sono i fi­gli dei figli» (Prv 17,6). «Con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza» sopportatevi «a vicenda con amore» (Ef 4,2).

2220 - I cristiani devono una speciale gratitudine a coloro dai quali hanno ricevuto il dono della fede, la grazia del Battesimo e la vita nella Chiesa. Può trattarsi dei genitori, di altri membri della famiglia, dei nonni, di Pastori, di catechisti, di altri maestri o amici. «Mi ricordo della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunice, e ora, ne sono certo, anche in te» (2 Tm 1,5).

DOVERI DEI GENITORI

2221 - La fecondità dell'amore coniugale non si riduce alla sola pro­creazione dei figli, ma deve estendersi alla loro educazione morale e alla loro formazione spirituale. La funzione educativa dei genitori «è tanto importante che, se manca, può a stento essere supplita». Il diritto e il dovere dell'educazione sono, per i genitori, primari e inalienabili.

2222 - I genitori devono considerare i loro figli come figli di Dio e ri­spettarli come persone umane. Educano i loro figli ad osservare la Legge di Dio mostrandosi essi stessi obbedienti alla volontà del Padre dei cieli.

2223 - I genitori sono i primi responsabili dell'educazione dei loro figli. Testimoniano tale responsabilità innanzi tutto con la creazione di una fa­miglia, in cui la tenerezza, il perdono, il rispetto, la fedeltà e il servizio disinteressato rappresentano la norma. Il focolare domestico è un luogo particolarmente adatto per educare alle virtù. Questa educazione richiede che si impari l'abnegazione, un retto modo di giudicare, la padronanza di sé, condizioni di ogni vera libertà. I genitori insegneranno ai figli a subordinare «le dimensioni materiali e istintive a quelle interiori e spiri­tuali». I genitori hanno anche la grave responsabilità di dare ai loro figli buoni esempi. Riconoscendo con franchezza davanti ai figli le pro­prie mancanze, saranno meglio in grado di guidarli e di correggerli: «Chi ama il proprio figlio usa spesso la frusta [...]. Chi corregge il pro­prio figlio ne trarrà vantaggio» (Sir 30,1-2). «E voi, padri, non inaspri­te i vostri figli, ma allevateli nell'educazione e nella disciplina del Signore» (Ef 6,4).

2224 - Il focolare domestico costituisce l'ambito naturale per l'iniziazio­ne dell'essere umano alla solidarietà e alle responsabilità comunitarie. I genitori insegneranno ai figli a guardarsi dai compromessi e dagli sban­damenti che minacciano le società umane.

2225 - Dalla grazia del sacramento del Matrimonio i genitori hanno ri­cevuto la responsabilità e il privilegio di evangelizzare i loro figli. Li inizieranno, fin dai primi anni di vita, ai misteri della fede dei quali essi, per i figli, sono «i primi annunziatori». Li faranno partecipare alla vita della Chiesa fin dalla più tenera età. I modi di vivere in famiglia possono sviluppare le disposizioni affettive che, per l'intera esistenza, costituiscono autentiche condizioni preliminari e sostegni di una fede viva.

2226 - L'educazione alla fede da parte dei genitori deve incominciare fin dalla più tenera età dei figli. Essa si realizza già allorché i membri della famiglia si aiutano a crescere nella fede attraverso la testimonianza di una vita cristiana vissuta in conformità al Vangelo. La catechesi fami­liare precede, accompagna e arricchisce le altre forme d'insegnamento della fede. I genitori hanno la missione di insegnare ai figli a pregare e a scoprire la loro vocazione di figli di Dio. La parrocchia è la comu­nità eucaristica e il cuore della vita liturgica delle famiglie cristiane; è un luogo privilegiato della catechesi dei figli e dei genitori.

2227 - I figli, a loro volta, contribuiscono alla crescita dei propri genito­ri nella santità Tutti e ciascuno, con generosità e senza mai stancarsi, si concederanno vicendevolmente il perdono che le offese, i litigi, le ingiustizie e le infedeltà esigono. L'affetto reciproco lo suggerisce. La carità di Cristo lo richiede.

2228 - Durante l'infanzia, il rispetto e l'affetto dei genitori si esprimono innanzi tutto nella cura e nell'attenzione prodigate nell'allevare i propri figli, e nel provvedere ai loro bisogni materiali e spirituali. Durante la loro crescita, il medesimo rispetto e la medesima dedizione portano i genitori ad educare i figli al retto uso della ragione e della libertà.

2229 - Primi responsabili dell'educazione dei figli, i genitori hanno il di­ritto di scegliere per loro una scuola rispondente alle proprie convinzio­ni. È, questo, un diritto fondamentale. I genitori, nei limiti del possibile, hanno il dovere di scegliere le scuole che li possano aiutare nel mi­gliore dei modi nel loro compito di educatori cristiani. I pubblici pote­ri hanno il dovere di garantire tale diritto dei genitori e di assicurare le condizioni concrete per poterlo esercitare.

2230 - Diventando adulti, i figli hanno il dovere e il diritto di scegliere la propria professione e il proprio stato di vita. Assumeranno queste nuo­ve responsabilità in un rapporto confidente con i loro genitori, ai quali chiederanno e dai quali riceveranno volentieri avvertimenti e consigli. I genitori avranno cura di non costringere i figli né quanto alla scelta della professione, né quanto a quella del coniuge. Questo dovere di di­screzione non impedisce loro, anzi tutt'altro, di aiutarli con sapienti consigli, particolarmente quando progettano di fondare una famiglia.

2231 - Alcuni non si sposano, al fine di prendersi cura dei propri geni­tori, o dei propri fratelli e sorelle, di dedicarsi più esclusivamente ad una professione o per altri validi motivi. Costoro possono grandemente contribuire al bene della famiglia umana.

IV. La famiglia e il Regno.

2232 - I vincoli familiari, sebbene importanti, non sono però assoluti. Quanto più il figlio cresce verso la propria maturità e autonomia uma­ne e spirituali, tanto più la sua specifica vocazione, che viene da Dio, si fa chiara e forte. I genitori rispetteranno tale chiamata e favoriranno la risposta dei propri figli a seguirla. È necessario convincersi che la prima vocazione del cristiano è di seguire Gesù: «Chi ama il padre o la ma­dre più di me, non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me» (Mt 10,37).

2233 - Diventare discepolo di Gesù significa accettare l'invito ad appar­tenere alla famiglia di Dio, a condurre una vita conforme al suo modo di vivere: «Chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, questi è per me fratello, sorella e madre» (Mt 12,50). I genitori accoglieranno e rispetteranno con gioia e rendimento di grazie la chiamata rivolta dal Signore a qualcuno dei loro figli a seguir­lo nella verginità per il Regno, nella vita consacrata o nel ministero sacerdotale.

V. Le autorità nella società civile.

2234 - Il quarto comandamento di Dio ci prescrive anche di onorare tutti coloro che, per il nostro bene, hanno ricevuto da Dio un'autorità nella società. Mette in luce tanto i doveri di chi esercita l'autorità quanto quelli di chi ne beneficia.

DOVERI DELLE AUTORITÀ CIVILI

2235 - Coloro che sono rivestiti d'autorità, la devono esercitare come un servizio. «Colui che vorrà diventare grande tra voi, si farà vostro servo» (Mt 20,26). L'esercizio di un'autorità è moralmente delimitato dalla sua origine divina, dalla sua natura ragionevole e dal suo oggetto specifico. Nessuno può comandare o istituire ciò che è contrario alla dignità delle persone e alla legge naturale.

2236 - L'esercizio dell'autorità mira a rendere evidente una giusta gerar­chia dei valori al fine di facilitare l'esercizio della libertà e della responsabilità di tutti. I superiori attuino con saggezza la giustizia distributiva, tenendo conto dei bisogni e della collaborazione di ciascuno, e in vista della concordia e della pace. Abbiano cura che le norme e le disposizio­ni che danno non inducano in tentazione opponendo l'interesse perso­nale a quello della comunità.

2237 - I poteri politici sono tenuti a rispettare i diritti fondamentali della persona umana. Cercheranno di attuare con umanità la giustizia, nel ri­spetto del diritto di ciascuno, soprattutto delle famiglie e dei diseredati. I diritti politici connessi con la cittadinanza possono e devono esse­re concessi secondo le esigenze del bene comune. Non possono essere sospesi dai pubblici poteri senza un motivo legittimo e proporzionato. L'esercizio dei diritti politici è finalizzato al bene comune della nazione e della comunità umana.

DOVERI DEI CITTADINI

2238 - Coloro che sono sottomessi all'autorità considereranno i loro su­periori come rappresentanti di Dio, che li ha costituiti ministri dei suoi doni: «State sottomessi ad ogni istituzione umana per amore del Si­gnore (...). Comportatevi come uomini liberi, non servendovi della liber­tà come di un velo per coprire la malizia, ma come servitori di Dio» (1 Pt 2, 13.l6). La leale collaborazione dei cittadini comporta il diritto, talvolta il dovere, di fare le giuste rimostranze su ciò che a loro sembra nuocere alla dignità delle persone e al bene della comunità.

2239 - É dovere dei cittadini dare il proprio apporto ai poteri civili per il bene della società in spirito di verità, di giustizia, di solidarietà e di li­bertà. L'amore e il servizio della patria derivano dal dovere di ricono­scenza e dall'ordine della carità. La sottomissione alle autorità legittime e il servizio del bene comune esigono dai cittadini che essi compiano la loro funzione nella vita della comunità politica.

2240 - La sottomissione all'autorità e la corresponsabilità nel bene comune comportano l'esigenza morale del versamento delle imposte, dell'esercizio del diritto di voto, della difesa del paese: «Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispet­to» (Rm 13,7). I cristiani «abitano nella propria patria, ma come pellegrini; partecipano alla vita pubblica come cittadini, ma da tutto sono staccati come stranieri [...]. Obbediscono alle leggi vigenti, ma con la loro vita superano le leggi [...]. Così eccelso é il posto loro assegnato da Dio, e non è lecito disertarlo». L'Apostolo ci esorta ad elevare preghiere ed azioni di grazie «per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità» (1 Tm 2,2).

2241 - Le nazioni più ricche sono tenute ad accogliere, nella misura del possibile, lo straniero alla ricerca della sicurezza e delle risorse necessa­rie alla vita, che non gli é possibile trovare nel proprio paese di origine. I pubblici poteri avranno cura che venga rispettato il diritto naturale, che pone l'ospite sotto la protezione di coloro che lo accolgono. Le autorità politiche, in vista del bene comune, di cui sono responsabili, posso­no subordinare l'esercizio del diritto di immigrazione a diverse condizioni giuri­diche, in particolare al rispetto dei doveri dei migranti nei confronti del paese che li accoglie. L'immigrato è tenuto a rispettare con riconoscenza il patrimonio materiale e spirituale del paese che lo ospita, ad obbedire alle sue leggi, a con­tribuire ai suoi oneri.

2242 - Il cittadino è obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni delle autorità civili quando tali precetti sono contrari alle esigenze dell'ordine morale, ai diritti fondamentali delle persone o agli insegnamen­ti del Vangelo. Il rifiuto d'obbedienza alle autorità civili, quando le loro richieste contrastano con quelle della retta coscienza, trova la sua giu­stificazione nella distinzione tra il servizio di Dio e il servizio della comunità politica. «Rendete (…) a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21). «Bisogna obbedire a Dio piutto­sto che agli uomini» (At 5,29). «Dove i cittadini sono oppressi da un'autorità pubblica che va al di là delle sue competenze, essi non ricusino quelle cose che sono oggettiva­mente richieste dal bene comune; sia però loro lecito difendere i diritti propri e dei propri concittadini contro gli abusi di questa autorità, nel rispetto dei limiti dettati dalla legge naturale ed evangelica».

2243 - La resistenza all'oppressione del potere politico non ricorrerà le­gittimamente alle armi, salvo quando sussistano tutte insieme le seguen­ti condizioni: 1. in caso di violazioni certe, gravi e prolungate dei diritti fondamentali; 2. dopo che si siano tentate tutte le altre vie; 3. senza che si provochino disordini peggiori; 4. qualora vi sia una fondata speranza di successo; 5. se è impossibile intravedere ragionevolmente soluzioni migliori.

LA COMUNITÀ POLITICA E LA CHIESA

2244 - Ogni istituzione si ispira, anche implicitamente, ad una visione dell'uomo e del suo destino, da cui deriva i propri criteri di giudizio, la propria gerarchia dei valori, la propria linea di condotta. Nella maggior parte delle società le istituzioni fanno riferimento ad una certa premi­nenza dell'uomo sulle cose. Solo la Religione divinamente rivelata ha chiaramente riconosciuto in Dio, Creatore e Redentore, l'origine e il destino dell'uomo. La Chiesa invita i poteri politici a riferire i loro giu­dizi e le loro decisioni a tale ispirazione della verità su Dio e sull'uomo. Le società che ignorano questa ispirazione o la rifiutano in nome della loro indipendenza in rapporto a Dio, sono spinte a cercare in se stesse oppure a mutuare da una ideologia i loro riferimenti e il loro fine e, non tollerando che sia affermato un criterio oggettivo del bene e del male, si arrogano sull'uomo e sul suo destino un potere assoluto, dichiarato o non apertamente ammesso, come dimostra la storia.

2245 - «La Chiesa, che, a motivo della sua missione e della sua compe­tenza, non si confonde in alcun modo con la comunità politica, (…) è ad un tempo il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana». La Chiesa «rispetta e promuove anche la libertà politica e la responsabilità dei cittadini».

2246 - É proprio della missione della Chiesa «dare il suo giudizio mo­rale anche su cose che riguardano l'ordine politico, quando ciò sia ri­chiesto dai diritti fondamentali della persona e dalla salvezza delle anime. E questo farà utilizzando tutti e solo quei mezzi che sono conformi al Vangelo e al bene di tutti, secondo la diversità dei tempi e delle situazioni»

In sintesi

2247 - «Onora tuo padre e tua madre» (Dt 5,16; Mc 7,10).

2248 - Secondo il quarto comandamento, Dio ha voluto che, dopo lui, ono­riamo i nostri genitori e coloro che egli, per il nostro bene, ha rive­stito d'autorità.

2249 - La comunità coniugale é stabilita sull'alleanza e sul consenso degli sposi. Il matrimonio e la famiglia sono ordinati al bene dei coniugi, alla procreazione e all'educazione dei figli.

2250 - «La salvezza della persona e della società umana e cristiana e' strettamente connessa con una felice situazione della comunità coniugale e familiare».

2251 - I figli devono ai loro genitori rispetto, riconoscenza, giusta obbe­dienza e aiuto. Il rispetto filiale favorisce l'armonia di tutta la vita familiare.

2252 - I genitori sono i primi responsabili dell'educazione dei propri figli alla fede, alla preghiera e a tutte le virtù. Hanno il dovere di prov­vedere, nella misura del possibile, ai bisogni materiali e spirituali dei propri figli.

2253 - I genitori devono rispettare e favorire l'educazione dei propri figli. Ricorderanno a se stessi ed insegneranno ai figli che la prima voca­zione del cristiano é seguire Gesù.

2254 - La pubblica autorità e' tenuta a rispettare i diritti fondamentali del­la persona umana e le condizioni per l'esercizio della sua libertà.

2255 - È dovere dei cittadini collaborare con i poteri civili all'edificazione della società in uno spirito di verità, di giustizia, di solidarietà e di libertà.

2256 - Il cittadino é obbligato in coscienza a non seguire le prescrizioni delle autorità civili quando tali precetti si oppongono alle esigenze dell'ordine morale. «Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini» (At 5,29).

2257 - Ogni società ispira i propri giudizi e la propria condotta ad una vi­sione dell'uomo e del suo destino. Al di fuori della luce del Vangelo su Dio e sull'uomo, é facile che le società diventino «totalitarie».

Articolo 5

IL QUINTO COMANDAMENTO

Non uccidere (Es 20,13). «Avete inteso che fu detto agli antichi: "Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio". Ma io vi dico: Chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5,21-22).

2258 - «La vita umana e sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l'a­zione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine: nessuno, in nessuna circostanza, può rivendicare a sé il diritto di distruggere direttamente un essere mano innocente.

I. Il rispetto della vita umana.

LA TESTIMONIANZA DELLA STORIA SACRA

2259 - La Scrittura, nel racconto dell'uccisione di Abele da parte del fratello Caino, rivela, fin dagli inizi della storia umana, la presenza nell'uomo della collera e della cupidigia, conseguenze del peccato origi­nale. L'uomo è diventato il nemico del suo simile. Dio dichiara la scel­leratezza di questo fratricidio: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello» (Gn 4,10-11).

2260 - L'Alleanza tra Dio e l'umanità è intessuta di richiami al dono divino della vita umana e alla violenza omicida dell'uomo: «Del sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto [...]. Chi sparge il sangue dell'uomo, dall'uomo il suo sangue sarà spar­so, perché ad immagine di Dio egli ha fatto l'uomo» (Gn 9,5-6). L'Antico Testamento ha sempre ritenuto il sangue come un segno sacro della vita. Questo insegnamento è necessario in ogni tempo.

2261 - La Scrittura precisa la proibizione del quinto comandamento: «Non far morire l'innocente e il giusto» (Es 23,7). L'uccisione volonta­ria di un innocente è gravemente contraria alla dignità dell'essere uma­no, alla «regola d'oro» e alla santità del Creatore. La legge che vieta questo omicidio ha una validità universale: obbliga tutti e ciascuno, sempre e dappertutto.

2262 - Nel discorso della montagna il Signore richiama il precetto: «Non uccidere» (Mt 5,21); vi aggiunge la proibizione dell'ira, dell'odio, della vendetta. Ancora di più: Cristo chiede al suo discepolo di porgere l'altra guancia, di amare i propri nemici. Egli stesso non si è difeso e ha ingiunto a Pietro di rimettere la spada nel fodero.

LA LEGITTIMA DIFESA

2263 - La legittima difesa delle persone e delle società non costituisce un'eccezione alla proibizione di uccidere l'innocente, uccisione in cui consiste l'omicidio volontario. «Dalla difesa personale possono seguire due effetti, il primo dei quali è la conservazione della propria vita; mentre l'altro è l'uccisione dell'attentatore». - «Nulla impedisce che vi siano due effetti di uno stesso atto, dei quali uno sia intenzionale e l'altro preterintenzionale.

2264 - L'amore verso se stessi resta un principio fondamentale della moralità. È quindi legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita. Chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale: Se uno nel difendere la propria vita usa maggior violenza del necessa­rio, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita [...]. E non è necessario per la salvezza dell'anima che uno rinunzi alla legittima difesa per evitare l'uccisione di altri: poiché un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui».

2265 - La legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l'ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell'autorità hanno il diritto di usa­re anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affi­data alla loro responsabilità.

2266 - Corrisponde ad un'esigenza di tutela del bene comune lo sforzo dello Stato inteso a contenere il diffondersi di comportamenti lesivi dei diritti dell'uomo e delle regole fondamentali della convivenza civile. La legittima autorità pubblica ha il diritto ed il dovere di infliggere pene proporzionate alla gravità del delitto. La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa. Quando è volontariamen­te accettata dal colpevole, essa assume valore di espiazione. La pena poi, oltre che a difendere l'ordine pubblico e a tutelare la sicurezza del­le persone, mira ad uno scopo medicinale: nella misura del possibile, essa deve contribuire alla correzione del colpevole.

2267 - L'insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell'identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall'ag­gressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni con­crete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l'ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo « sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti».

L’OMICIDIO VOLONTARIO

2268 - Il quinto comandamento proibisce come gravemente peccaminoso l'omicidio diretto e volontario. L'omicida e coloro che volontariamente cooperano all'uccisione commettono un peccato che grida vendetta al cielo. L'infanticidio, il fratricidio, il parricidio e l'uccisione del coniuge sono cri­mini particolarmente gravi a motivo dei vincoli naturali che infrangono. Preoc­cupazioni eugenetiche o di igiene pubblica non possono giustificare nessuna uccisione, fosse anche comandata dai pubblici poteri.

2269 - Il quinto comandamento proibisce qualsiasi azione fatta con l'in­tenzione di provocare indirettamente la morte di una persona. La legge morale vieta tanto di esporre qualcuno ad un rischio mortale senza gra­ve motivo, quanto di rifiutare l'assistenza ad una persona in pericolo. Tollerare, da parte della società umana, condizioni di miseria che portano alla morte senza che ci si sforzi di porvi rimedio, è una scandalosa ingiustizia e una colpa grave. Quanti nei commerci usano pratiche usuraie e mercantili che pro­vocano la fame e la morte dei loro fratelli in umanità, commettono indiretta­mente un omicidio, che è loro imputabile. L'omicidio involontario non è moralmente imputabile. Ma non si è scagionati da una colpa grave qualora, senza motivi proporzionati, si è agito in modo tale da causare la morte, anche senza l'intenzione di provocarla.

L'ABORTO

2270 - La vita umana deve essere rispettata e protetta in modo assoluto fin dal momento del concepimento. Dal primo istante della sua esisten­za, l'essere umano deve vedersi riconosciuti i diritti della persona, tra i quali il diritto inviolabile di ogni essere innocente alla vita. «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato» (Ger 1,5). «Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra» (SaI 139,15).

2271 - Fin dal primo secolo la Chiesa ha dichiarato la malizia morale di ogni aborto provocato. Questo insegnamento non è mutato. Rimane invariabile. L'aborto diretto, cioè voluto come un fine o come un mez­zo, è gravemente contrario alla legge morale: «Non uccidere il bimbo con l'aborto, e non sopprimerlo dopo la na­scita». «Dio, padrone della vita, ha affidato agli uomini l'altissima missio­ne di proteggere la vita, missione che deve essere adempiuta in modo degno dell'uomo. Perciò la vita, una volta concepita, deve essere protet­ta con la massima cura; e l'aborto come pure l'infanticidio sono abomi­nevoli delitti.

2272 - La cooperazione formale a un aborto costituisce una colpa gra­ve. La Chiesa sanziona con una pena canonica di scomunica questo de­litto contro la vita umana. «Chi procura l'aborto, se ne consegue l'ef­fetto, incorre nella scomunica latae sententiae - «per il fatto stesso d'aver commesso il delitto» e alle condizioni previste dal diritto. La Chiesa non intende in tal modo restringere il campo della misericordia. Essa mette in evidenza la gravità del crimine commesso, il danno irre­parabile causato all'innocente ucciso, ai suoi genitori e a tutta la società.

2273 - Il diritto inalienabile alla vita di ogni individuo umano innocente rappresenta un elemento costitutivo della società civile e della sua legislazione: «I diritti inalienabili della persona dovranno essere riconosciuti e rispettati da parte della società civile e dell'autorità politica; tali diritti dell'uomo non dipen­dono né dai singoli individui, né dai genitori e neppure rappresentano una con­cessione della società e dello Stato: appartengono alla natura umana e sono inerenti alla persona in forza dell'atto creativo da cui ha preso origine. Tra questi diritti fondamentali bisogna, a questo proposito, ricordare: il diritto alla vita e all'integrità fisica di ogni essere umano dal concepimento alla morte». «Nel momento in cui una legge positiva priva una categoria di esseri uma­ni della protezione che la legislazione civile deve loro accordare, lo Stato viene a negare l'uguaglianza di tutti davanti alla legge. Quando lo Stato non pone la sua forza al servizio dei diritti di ciascun cittadino, e in particolare di chi è più debole, vengono minati i fondamenti stessi di uno Stato di diritto. [...] Come conseguenza del rispetto e della protezione che vanno accordati al nascituro a partire dal momento del suo concepimento, la legge dovrà prevedere appropria­te sanzioni penali per ogni deliberata violazione dei suoi diritti.

2274 - L'embrione, poiché fin dal concepimento deve essere trattato co­me una persona, dovrà essere difeso nella sua integrità, curato e guari­to, per quanto è possibile, come ogni altro essere umano. La diagnosi prenatale è moralmente lecita, se «rispetta la vita e l'integrità del­l'embrione e del feto umano ed è orientata alla sua salvaguardia o alla sua gua­rigione individuale [...]. Ma essa è gravemente in contrasto con la legge morale quando contempla l'eventualità, in dipendenza dai risultati, di provocare un aborto: una diagnosi (…) non deve equivalere a una sentenza di morte».

2275 - «Si devono ritenere leciti gli interventi sull'embrione umano a patto che rispettino la vita e l'integrità dell'embrione, non comportino per lui rischi sproporzionati, ma siano finalizzati alla sua guarigione, al miglioramento delle sue condizioni di salute o alla sua sopravvivenza individuale. É immorale produrre embrioni umani destinati a essere sfruttati come “materiale biologico” disponibile». Alcuni tentativi d'intervento sul patrimonio cromosomico o genetica non sono terapeutici, ma mirano alla produzione di esseri umani selezionati secondo il sesso o altre qualità prestabilite. Queste manipolazioni sono contrarie alla di­gnità personale dell'essere umano, alla sua integrità e alla sua identità» unica, irrepetibile.

L'EUTANASIA

2276 - Coloro la cui vita è minorata o indebolita richiedono un rispetto particolare. Le persone ammalate o handicappate devono essere soste­nute perché possano condurre un'esistenza per quanto possibile normale.

2277 - Qualunque ne siano i motivi e i mezzi, l'eutanasia diretta consi­ste nel mettere fine alla vita di persone handicappate, ammalate o pros­sime alla morte. Essa è moralmente inaccettabile. Così un'azione oppure un’omissione che, da sé o intenzionalmente, provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore, costituisce un'uccisione gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore. L'errore di giudizio, nel quale si può essere incorsi in buona fede, non muta la natura di quest'atto omicida, sempre da condannare e da escludere.

2278 - L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha la rinuncia all’accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire. Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente.

2279 - Anche se la morte è considerata imminente, le cure che d'ordinario sono dovute ad una persona ammalata non possono essere legittimamente interrotte. L’uso di analgesici per alleviare le sofferenze del moribondo, anche con il ri­schio di abbreviare i suoi giorni, può essere moralmente conforme alla dignità umana, se la morte non è voluta né come fine né come mezzo, ma è soltanto prevista e tollerata come inevitabile. Le cure palliative costituiscono una forma privilegiata della carità disinteressata. A questo titolo devono essere incoraggiate.

IL SUICIDIO

2280 - Ciascuno è responsabile della propria vita davanti a Dio che gliel'ha donata. Egli ne rimane il sovrano Padrone. Noi siamo tenuti a riceverla con riconoscenza e a preservarla per il suo onore e per la sal­vezza delle nostre anime. Siamo amministratori, non proprietari della vita che Dio ci ha affidato. Non ne disponiamo.

2281 - Il suicidio contraddice la naturale inclinazione dell'essere umano a conservare e a perpetuare la propria vita. Esso è gravemente contra­rio al giusto amore di sé. Al tempo stesso è un'offesa all'amore del prossimo, perché spezza ingiustamente i legami di solidarietà con la so­cietà familiare, nazionale e umana, nei confronti delle quali abbiamo degli obblighi. Il suicidio è contrario all'amore del Dio vivente.

2282 - Se è commesso con l'intenzione che serva da esempio, soprattut­to per i giovani, il suicidio si carica anche della gravità dello scandalo. La cooperazione volontaria al suicidio è contraria alla legge morale. Gravi disturbi psichici, l'angoscia o il timore grave della prova, della sofferenza o della tortura possono attenuare la responsabilità del suicida.

2283 - Non si deve disperare della salvezza eterna delle persone che si sono date la morte. Dio, attraverso le vie che egli solo conosce, può loro preparare l'occasione di un salutare pentimento. La Chiesa prega per le persone che hanno attentato alla loro vita

Il. Il rispetto della dignità delle persone.

IL RISPETTO DELL'ANIMA ALTRUI: LO SCANDALO

2284 - Lo scandalo è l'atteggiamento o il comportamento che induce al­tri a compiere il male. Chi scandalizza si fa tentatore del suo prossimo. Attenta alla virtù e alla rettitudine; può trascinare il proprio fratello al­la morte spirituale. Lo scandalo costituisce una colpa grave se chi lo provoca con azione o omissione induce deliberatamente altri in una grave mancanza.

2285 - Lo scandalo assume una gravità particolare a motivo dell'autori­tà di coloro che lo causano o della debolezza di coloro che lo subisco­no. Ha ispirato a nostro Signore questa maledizione: «Chi scandalizza anche uno solo di questi piccoli, (…) sarebbe meglio per lui che gli fos­se appesa al collo una macina girata da asino, e fosse gettato negli abissi del mare» (Mt l8,6). Lo scandalo è grave quando a provocarlo sono coloro che, per natura o per funzione, sono tenuti ad insegnare e ad educare gli altri. Gesù lo rimprovera agli scribi e ai farisei: li para­gona a lupi rapaci in veste di pecore.

2286 - Lo scandalo può essere provocato dalla legge o dalle istituzioni, dalla moda o dall'opinione pubblica. Così, si rendono colpevoli di scandalo coloro che promuovono leggi o strutture sociali che portano alla degradazione dei costumi e alla corruzione della vita re­ligiosa, o a «condizioni sociali che, volutamente o no, rendono ardua o prati­camente impossibile una condotta di vita cristiana, conformata ai precetti del Sommo Legislatore». La stessa cosa vale per i capi di imprese i quali danno regolamenti che inducono alla frode, per i maestri che «esasperano» i loro allievi o per coloro che, manipolando l'opinione pubblica, la sviano dai valori morali.

2287 - Chi usa i poteri di cui dispone in modo tale da spingere ad agire male, si rende colpevole di scandalo e responsabile del male che, diret­tamente o indirettamente, ha favorito. «È inevitabile che avvengano scandali, ma guai a colui per cui avvengono» (Lc 17,1).

IL RISPETTO DELLA SALUTE

2288 - La vita e la salute fisica sono beni preziosi donati da Dio. Dob­biamo averne ragionevolmente cura, tenendo conto delle necessità altrui e del bene comune. La cura della salute dei cittadini richiede l'apporto della società perché si abbiano condizioni d'esistenza che permettano di crescere e di raggiungere la maturità: cibo e indumenti, abitazione, assistenza sanita­ria, insegnamento di base, lavoro, previdenza sociale.

2289 - Se la morale richiama al rispetto della vita corporea, non ne fa tuttavia un valore assoluto. Essa si oppone ad una concezione neo-pagana, che tende a promuovere il culto del corpo, a sacrificargli tutto, a idolatrare la perfezione fisica e il successo sportivo. A motivo della scelta selettiva che tale concezione opera tra i forti e i deboli, essa può portare alla perversione dei rapporti umani.

2290 - La virtù della temperanza dispone ad evitare ogni sorta di eccessi, l'abuso dei cibi, dell'alcool, del tabacco e dei medicinali. Coloro che, in stato di ubriachezza o per uno smodato gusto della velocità, mettono in pericolo l'incolumità altrui e la propria sulle strade, in mare, o in volo, si rendono gravemente colpevoli.

2291 - L'uso della droga causa gravissimi danni alla salute e alla vita umana. Esclusi i casi di prescrizioni strettamente terapeutiche, costitui­sce una colpa grave. La produzione clandestina di droghe e il loro traf­fico sono pratiche scandalose; costituiscono una cooperazione diretta, poiché spingono a pratiche gravemente contrarie alla legge morale.

IL RISPETTO DELLA PERSONA E LA RICERCA SCIENTIFICA

2292 - Le sperimentazioni scientifiche, mediche o psicologiche, sulle per­sone o sui gruppi umani, possono concorrere alla guarigione dei malati e al progresso della salute pubblica.

2293 - La ricerca scientifica di base e anche la ricerca applicata costituiscono un espressione significativa della signoria dell'uomo sulla creazione. La scienza e la tecnica sono preziose risorse quando vengono messe al servizio dell'uomo e ne promuovono lo sviluppo integrale a beneficio di tutti; non possono tuttavia, da sole, indicare il senso dell'esistenza e del progresso umano. La scienza e la tecnica sono ordinate all'uomo, dal quale traggono origine e sviluppo; esse, quindi, trovano nella persona e nei suoi valori morali l'indicazione del loro fine e la coscienza dei loro limiti

2294 - È illusorio rivendicare la neutralità morale della ricerca scientifica e delle sue applicazioni. D'altra parte, i criteri orientativi non possono essere dedotti né dalla semplice efficacia tecnica, né dall'utilità che può derivarne per gli uni a scapito degli altri, né, peggio ancora, dalle ideologie dominanti. La scienza e la tecnica richiedono, per il loro stesso significato intrinseco, l'incondizionato rispetto dei criteri fondamentali della moralità; devono essere al servizio della persona umana, dei suoi inalienabili diritti, del suo bene vero e integrale, in conformità al progetto e alla volontà di Dio.

2295 - Le ricerche o sperimentazioni sull'essere umano non possono le­gittimare atti in se stessi contrari alla dignità delle persone e alla legge morale. L'eventuale consenso dei soggetti non giustifica simili atti. La sperimentazione sull'essere umano non è moralmente legittima se fa correre rischi sproporzionati o evitabili per la vita o l'integrità fisica e psichica dei soggetti. La sperimentazione sugli esseri umani non è con­forme alla dignità della persona se, oltre tutto, viene fatta senza il con­senso esplicito del soggetto o dei suoi aventi diritto.

2296 - Il trapianto di organi è conforme alla legge morale se i danni e i rischi fi­sici e psichici in cui incorre il donatore sono proporzionati al bene che si cerca per il destinatario. La donazione di organi dopo la morte è un atto nobile e meritorio ed è da incoraggiare come manifestazione di generosa solidarietà. Non è moralmente accettabile se il donatore o i suoi aventi diritto non vi han­no dato il loro esplicito consenso. È inoltre moralmente inammissibile provoca­re direttamente la mutilazione invalidante o la morte di un essere umano, sia pure per ritardare i! decesso di altre persone.

IL RISPETTO DELL'INTEGRITÀ CORPOREA

2297 - I rapimenti e la presa di ostaggi fanno regnare il terrore e, con la minaccia, esercitano intollerabili pressioni sulle vittime. Essi sono mo­ralmente illeciti. Il terrorismo minaccia, ferisce e uccide senza discrimi­nazione; esso è gravemente contrario alla giustizia e alla carità. La tor­tura, che si serve della violenza fisica o morale per strappare confessioni, per punire i colpevoli, per spaventare gli oppositori, per soddisfare l'odio, è contraria al rispetto della persona e della dignità umana. Al di fuori di prescrizioni mediche di carattere strettamente terapeutico, le amputazioni, mutilazioni o sterilizzazioni direttamente volontarie praticate a persone innocenti sono contrarie alla legge morale.

2298 - Nei tempi passati, da parte delle autorità legittime si è fatto comunemen­te ricorso a pratiche crudeli per salvaguardare la legge e l'ordine, spesso senza protesta dei Pastori della Chiesa, i quali nei loro propri tribunali hanno essi stessi adottato le prescrizioni del diritto romano sulla tortura. Accanto a tali fatti deplorevoli, però, la Chiesa ha sempre insegnato il dovere della clemenza e della misericordia; ha vietato al clero di versare il sangue. Nei tempi recenti è diventato evidente che tali pratiche crudeli non erano né necessarie per l'ordine pubblico, né conformi ai legittimi diritti della persona umana. Al contrario, esse portano alle peggiori degradazioni. Ci si deve adoperare per la loro abolizione. Bisogna pregare per le vittime e per i loro carnefici

IL RISPETTO DEI MORTI

2299 - Ai moribondi saranno prestate attenzioni e cure per aiutarli a vi­vere i loro ultimi momenti con dignità e pace. Saranno sostenuti dalla preghiera dei loro congiunti. Costoro si faranno premura affinché i malati ricevano in tempo opportuno i sacramenti che preparano all'in­contro con il Dio vivente.

2300 - I corpi dei defunti devono essere trattati con rispetto e carità nella fede e nella speranza della risurrezione. La sepoltura dei morti è un'opera di misericordia corporale; M rende onore ai figli di Dio, templi dello Spirito Santo.

2301 - L'autopsia dei cadaveri può essere moralmente ammessa per motivi di inchiesta legale o di ricerca scientifica. Il dono gratuito di organi dopo la morte è legittimo e può essere meritorio. La Chiesa permette la cremazione, se tale scelta non mette in questione la fede nella risurrezione dei corpi.

III. La difesa della pace.

LA PACE

2302 - Richiamando il comandamento: «Non uccidere» (Mt 5,21), no­stro Signore chiede la pace del cuore e denuncia l'immoralità dell'ira omicida e dell'odio. L'ira è un desiderio di vendetta. «Desiderare la vendetta per il ma­le di chi va punito è illecito»; ma è lodevole imporre una riparazione «al fine di correggere i vizi e di conservare il bene della giustizia». Se l'ira si spinge fino al proposito di uccidere il prossimo o di ferirlo in modo brutale, si oppone gravemente alla carità; è un peccato mortale. Il Signore dice: «Chiunque si adira contro il proprio fratello, sarà sot­toposto a giudizio» (Mt 5,22).

2303 - L'odio volontario è contrario alla carità. L'odio del prossimo è un peccato quando l'uomo vuole deliberatamente per lui il male. L'odio del prossimo è un peccato grave quando deliberatamente si desidera per lui un grave danno. «Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste...(Mt 5,44-45).

2304 - Il rispetto e lo sviluppo della vita umana richiedono la pace. La pace non è la semplice assenza della guerra e non può ridursi ad assicurare l'equilibrio delle forze contrastanti. La pace non si può ottener sulla terra senza la tutela dei beni delle persone, la libera comunicazione tra gli esseri umani, il rispetto della dignità delle persone e dei popoli, l'assidua pratica della fratellanza. È la «tranquillità dell'ordine» È «frutto della giustizia» (Is 32.17) ed effetto della carità.

2305 - La pace terrena è immagine e frutto della pace di Cristo, «Principe della pace» (Is 9,5) messianica. Con il sangue della sua croce, egli ha distrutto in se stesso l'inimicizia, ha riconciliato gli uomini con Dio e ha fatto della sua Chiesa il sacramento dell'unità del gene umano e della sua unione con Dio. «Egli è la nostra pace» (Ef 2,14) E proclama: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9).

2306 - Coloro che, per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, rinunciano all'azione violenta e cruenta e ricorrono a mezzi di difesa che sono al portata dei più deboli, rendono testimonianza alla carità evangelica purché ciò si faccia senza pregiudizio per i diritti e i doveri degli ali uomini e delle società. Essi legittimamente attestano la gravità dei rischi fisici e morali del ricorso alla violenza, che causa rovine e morti.

EVITARE LA GUERRA

2307 - Il quinto comandamento proibisce la distruzione volontaria della vita umana. A causa dei mali e delle ingiustizie che ogni guerra provoca, la Chiesa con insistenza esorta tutti a pregare e ad operare perché la bontà divina ci liberi dall'antica schiavitù della guerra.

2308 - Tutti i cittadini e tutti i governanti sono tenuti ad adoperarsi per evitare le guerre. «Fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà un'autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa».

2309 - Si devono considerare con rigore le strette condizioni che giusti­ficano una legittima difesa con la forza militare. Tale decisione, per la sua gravità, è sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale. Occorre contemporaneamente: che il danno causato dall'aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; che ci siano fondate condizioni di successo; che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione. Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della «guerra giusta». La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune.

2310 - I pubblici poteri, in questo caso, hanno il diritto e il dovere di imporre ai cittadini gli obblighi necessari alla difesa nazionale. Coloro che si dedicano al servizio della patria nella vita militare sono servitori della sicurezza e della libertà dei popoli. Se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono veramente al bene comune della nazione e al mantenimento della pace.

2311 - I pubblici poteri provvederanno equamente al caso di coloro che, per motivi di coscienza, ricusano l'uso delle armi; essi sono nondimeno tenuti a prestare qualche altra forma di servizio alla comunità umana.

2312 - La Chiesa e la ragione umana dichiarano la permanente validità della legge morale durante i conflitti armati. «Né per il fatto che una guerra è ormai disgraziatamente scoppiata, diventa per questo lecita ogni cosa tra le parti in conflitto»

2313 - Si devono rispettare e trattare con umanità i non-combattenti, i soldati feriti e i prigionieri. Le azioni manifestamente contrarie al diritto delle genti e ai suoi principi universali, non diversamente dalle disposizioni che le impongo­no, sono crimini. Non basta un'obbedienza cieca a scusare coloro che vi si sottomettono. Così lo sterminio di un popolo, di una nazione o di una minoranza etnica deve essere condannato come peccato mortale. Si è moralmente in obbligo di far resistenza agli ordini che comandano un «genocidio».

2314 - «Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distru­zione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto con­tro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione de­ve essere condannato. Un rischio della guerra moderna è di offrire l'occasione di commettere tali crimini a chi detiene armi scientifiche, in particolare atomiche, biologiche o chimiche.

2315 - L'accumulo delle armi sembra a molti un modo paradossale di dissuadere dalla guerra eventuali avversari. Costoro vedono in esso il più efficace dei mezzi atti ad assicurare la pace tra le nazioni. Riguardo a tale mezzo di dissuasione vanno fatte severe riserve morali. La corsa agli armamenti non assicura la pace. Lungi dall'eliminare le cause di guerra, rischia di aggravarle. L'impiego di ricchezze enormi nella prepa­razione di armi sempre nuove impedisce di soccorrere le popolazioni in­digenti; ostacola lo sviluppo dei popoli. L'armarsi ad oltranza moltipli­ca le cause di conflitti ed aumenta il rischio del loro propagarsi.

2316 - La produzione e il commercio delle armi toccano il bene comune delle nazioni e della comunità internazionale. Le autorità pubbliche hanno pertanto il diritto e il dovere di regolamentarli. La ricerca di in­teressi privati o collettivi a breve termine non può legittimare imprese che fomentano la violenza e i conflitti tra le nazioni e che compromet­tono l'ordine giuridico internazionale.

2317 - Le ingiustizie, gli eccessivi squilibri di carattere economico o sociale, l'invidia, la diffidenza e l'orgoglio che dannosamente imperversa­no tra gli uomini e le nazioni, minacciano incessantemente la pace e causano le guerre. Tutto quanto si fa per eliminare questi disordini contribuisce a costruire la pace e ad evitare la guerra: «Gli uomini, in quanto peccatori, sono e saranno sempre sotto la mi­naccia della guerra fino alla venuta di Cristo; ma, in quanto riescono, uniti nell'amore, a vincere il peccato, essi vincono anche la violenza, fi­no alla realizzazione di quella parola divina: “Forgeranno le loro spade in vomeri, le loro lance in falci; un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo, non si eserciteranno più nell'arte della guerra” (Is 2,4)

In sintesi

2318 - Dio «ha in mano l'anima di ogni vivente e il soffio di ogni carne umana» (Gb 12,10).

2319 - Ogni vita umana, dal momento del concepimento fino alla morte, e sacra, perché la persona umana è stata voluta per se stessa ad immagine e somiglianza del Dio vivente e santo.

2320 - L'uccisione di un esvere umano è gravemente contraria alla dignità della persona e alla santità del Creatore.

2321 - La proibizione dell'omicidio non abroga il diritto di togliere, ad un ingiusto aggressore, la possibilità di nuocere. La legittima difesa è un dovere grave per chi ha la responsabilità della vita altrui o del bene comune.

2322 - Fin dal concepimento il bambino ha diritto alla vita. L'aborto diretto, cioè voluto come un fine o come un mezzo, è una pratica «vergognosa», gravemente contraria alla legge morale. La Chiesa condanna con la pena canonica di scomunica questo delitto contro la vita umana.

2323 - Dal momento che deve essere trattato come una persona fin dal concepimento, l'embrione deve essere difeso nella sua integrità, cura­to e guarito come ogni altro essere umano.

2324 - L'eutanasia volontaria, qualunque ne siano le forme e i motivi, costituisce un omicidio. È gravemente contraria alla dignità della persona umana e al rispetto del Dio vivente, suo Creatore.

2325 - Il suicidio è gravemente contrario alla giustizia, alla speranza e alla carità. E’ proibito dal quinto comandamento.

2326 - Lo scandalo costituisce una colpa grave quando chi lo provoca con azione o con omissione deliberatamente spinge altri a peccare grave­mente.

2327 - Si deve fare tutto ciò che è ragionevolmente possibile per evitare la guerra, dati i mali e le ingiustizie di cui è causa. La Chiesa prega: «Dalla fame, dalla peste e dalla guerra liberaci, Signore».

2328 - La Chiesa e la ragione umana dichiarano la permanente validità della legge morale durante i conflitti armati. Le pratiche contrarie al diritto delle genti e ai suoi principi universali, deliberatamente messe in atto, sono crimini.

2329 - La corsa agli armamenti è una delle piaghe più gravi dell'umanità e danneggia in modo intollerabile i poveri.

2330 - «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).

Articolo 6

IL SESTO COMANDAMENTO

Non commettere adulterio (Es 20,14)). Avete inteso che fu detto: “Non commettere adulterio”; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,27-28).

I. «Maschio e femmina li creò...»

2331 - «Dio è amore e vive in se stesso un mistero di comunione e di amore. Creandola a sua immagine [...] Dio iscrive nell'umanità dell'uo­mo e della donna la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità dell'amore e della comunione «Dio creò l'uomo a sua immagine; [...] maschio e femmina li creò» (Gn 1,27); «Siate fecondi e moltiplicatevi» (Gn 1,28); «Quando Dio creò l'uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femmina li creò, li benedisse e li chiamò uomini quando furono creati» (Gn 5,1-2).

2332 - La sessualità esercita un'influenza su tutti gli aspetti della perso­na umana, nell'unità del suo corpo e della sua anima. Essa concerne particolarmente l'affettività, la capacità di amare e di procreare, e, in un modo più generale, l'attitudine ad intrecciare rapporti di comunione con altri.

2333 - Spetta a ciascuno, uomo o donna, riconoscere ed accettare la propria identità sessuale. La differenza e la complementarità fisiche, mo­rali e spirituali sono orientate ai beni del matrimonio e allo sviluppo della vita familiare. L'armonia della coppia e della società dipende in parte dal modo in cui si vivono tra i sessi la complementarità, il biso­gno vicendevole e il reciproco aiuto.

2334 - «Creando l'uomo “'maschio e femmina”, Dio dona la dignità personale in egual modo all'uomo e alla donna». «L'uomo è una per­sona, in eguale misura l'uomo e la donna: ambedue infatti sono stati creati ad immagine e somiglianza del Dio personale».

2335 - Ciascuno dei due sessi, con eguale dignità, anche se in modo differente, è immagine della potenza e della tenerezza di Dio. L'unione dell'uomo e della donna nel matrimonio è una maniera di imitare, nella carne, la generosità e la fecondità del Creatore: «L'uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e i due saranno una sola carne» (Gn 2,24). Da tale unione derivano tutte le generazioni umane.

2336 - Gesù è venuto a restaurare la creazione nella purezza delle sue origini. Nel discorso della montagna dà un'interpretazione rigorosa del progetto di Dio: «Avete inteso che fu detto: “Non commettere adulte­rio”; ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,27-28). L'uomo non deve separare quello che Dio ha congiunto. La Tradizione della Chiesa ha considerato il sesto comandamento come inglobante l'insieme della sessualità umana

Il. La vocazione alla castità.

2337 - La castità esprime la raggiunta integrazione della sessualità nella persona e conseguentemente l'unità interiore dell'uomo nel suo essere cor­poreo e spirituale. La sessualità, nella quale si manifesta l'appartenenza dell'uomo al mondo materiale e biologico, diventa personale e veramente umana allorché è integrata nella relazione da persona a persona, nel dono reciproco, totale e illimitato nel tempo, dell'uomo e della donna. La virtù della castità, quindi, comporta l'integrità della persona e l'integralità del dono.

L'INTEGRITÀ DELLA PERSONA

2338 - La persona casta conserva l'integrità delle forze di vita e di amo­re che sono in lei. Tale integrità assicura l'unità della persona e si op­pone a ogni comportamento che la ferirebbe. Non tollera né doppiezza di vita, né doppiezza di linguaggio.

2339 - La castità richiede l'acquisizione del dominio di sé, che è pedago­gia per la libertà umana. L'alternativa è evidente: o l'uomo comanda alle sue passioni e consegue la pace, oppure si lascia asservire da esse e diventa infelice. «La dignità dell'uomo richiede che egli agisca secon­do scelte consapevoli e libere, mosso cioè e indotto da convinzioni per­sonali, e non per un cieco impulso o per mera coazione esterna. Ma l'uomo ottiene tale dignità quando, liberandosi da ogni schiavitù delle passioni, tende al suo fine con scelta libera del bene, e si procura da sé e con la sua diligente iniziativa i mezzi convenienti».

2340 - Colui che vuole restare fedele alle promesse del suo Battesimo e re­sistere alle tentazioni, avrà cura di valersi dei mezzi corrispondenti: la conoscenza di sè, la pratica di un'ascesi adatta alle situazioni in cui viene a trovarsi, l'obbedienza ai divini comandamenti, l'esercizio delle virtù morali e la fedeltà alla preghiera. «La continenza in verità ci raccoglie e ci ricon­duce a quell'unità, che abbiamo perduto disperdendoci nel molteplice».

2341 - La virtù della castità è strettamente dipendente dalla virtù cardi­nale della temperanza, che mira a far condurre dalla ragione le passioni e gli appetiti della sensibilità umana.

2342 - Il dominio di sé è un'opera di lungo respiro. Non lo si potrà mai ritenere acquisito una volta per tutte. Suppone un impegno da ricomin­ciare ad ogni età della vita. Lo sforzo richiesto può essere maggiore in certi periodi, quelli, per esempio, in cui si forma la personalità, l'infan­zia e l'adolescenza.

2343 - La castità conosce leggi di crescita, la quale passa attraverso tap­pe segnate dall'imperfezione e assai spesso dal peccato. L'uomo virtuo­so e casto «si costruisce giorno per giorno, con le sue numerose libere scelte: per questo egli conosce, ama e compie il bene morale secondo tappe di crescita».

2344 - La castità rappresenta un impegno eminentemente personale; implica anche uno sforzo culturale, poiché «il perfezionamento della persona umana e lo sviluppo della stessa società [sono] tra loro interdi­pendenti. La castità suppone il rispetto dei diritti della persona, in particolare quello di ricevere un'informazione ed un'educazione che ri­spettino le dimensioni morali e spirituali della vita umana.

2345 - La castità è una virtù morale. Essa è anche un dono di Dio, una grazia, un frutto dello Spirito. Lo Spirito Santo dona di imitare la pu­rezza di Cristo a colui che è stato rigenerato dall'acqua del Battesimo.

L'INTEGRALITÀ DEL DONO DI SE'

2346 - La carità è la forma di tutte le virtù. Sotto il suo influsso, la castità appare come una scuola del dono della persona. La padronanza di sé è ordinata al dono di sé. La castità rende colui che la pratica un testimone, presso il prossimo, della fedeltà e della tenerezza di Dio.

2347 - La virtù della castità si dispiega nell'amicizia. Indica al discepolo come seguire ed imitare colui che ci ha scelti come suoi amici, si è totalmente donato a noi e ci ha reso partecipi della sua condizione divina. La castità è promessa di immortalità. La castità si esprime particolarmente nell'amicizia per il prossimo. Coltivata tra persone del medesimo sesso o di sesso diverso, l'amicizia costituisce un gran bene per tutti. Conduce alla comunione spirituale.

LE DIVERSE FORME DELLA CASTITÀ

2348 - Ogni battezzato è chiamato alla castità. Il cristiano si è rivestito di modello di ogni castità. Tutti i credenti in Cristo sono chia­mati a condurre una vita casta secondo il loro particolare stato di vita. Al momento del Battesimo il cristiano si è impegnato a vivere la sua affettività nella castità.

2349 - «La castità deve distinguere le persone nei loro differenti stati di vita: le une nella verginità o nel celibato consacrato, un modo eminente di dedicarsi più facilmente a Dio solo, con cuore indiviso; le altre, nella maniera quale è determinata per tutti dalla legge morale e secondo che siano sposate o celibi. Le persone sposate sono chiamate a vivere la castità coniugale; le altre praticano la castità nella continenza: Ci sono Ire forme della virtù di castità: quella degli sposi, quella della vedovanza, infine quella della verginità. Non lodiamo l'una escludendo le altre. [...] Sotto questo aspetto, la disciplina della Chiesa è ricca.

2350 - I fidanzati sono chiamati a vivere la castità nella continenza. Messi così alla prova, scopriranno il reciproco rispetto, si alleneranno alla fedeltà e alla speranza di riceversi l'un l'altro da Dio. Riserveranno al tempo del matrimonio le manifestazioni di tenerezza proprie dell'a­more coniugale. Si aiuteranno vicendevolmente a crescere nella castità.

LE OFFESE ALLA CASTITÀ

2351 - La lussuria è un desiderio disordinato o una fruizione sregolata del piacere venereo. Il piacere sessuale è moralmente disordinato quan­do è ricercato per se stesso, al di fuori delle finalità di procreazione e di unione.

2352 - Per masturbazione si deve intendere l'eccitazione volontaria degli organi genitali, al fine di trarne un piacere venereo. «Sia il Magistero della Chiesa nella linea di una tradizione costante sia il senso morale dei fedeli hanno affermato senza esitazione che la masturbazione è un atto intrinsecamente e gravemente disordinato». «Qualunque ne sia il motivo, l'uso deliberato della facoltà sessuale al di fuori dei rapporti coniugali normali contraddice essenzialmente la sua finalità». Il godimento sessuale vi è ricercato al di fuori della «relazione sessuale richiesta dall'ordine morale, quella che realizza, in un contesto di vero amore, l'intégro senso della mutua donazione e della procreazione umana». Al fine di formulare un equo giudizio sulla responsabilità morale dei soggetti e per orientare l'azione pastorale, si terrà conto dell'imma­turità affettiva, della forza delle abitudini contratte, dello stato d'ango­scia o degli altri fattori psichici o sociali che possono attenuare, se non addirittura ridurre al minimo, la colpevolezza morale.

2353 - La fornicazione è l'unione carnale tra un uomo e una donna libe­ri, al di fuori del matrimonio. Essa è gravemente contraria alla dignità delle persone e della sessualità umana naturalmente ordinata sia al bene degli sposi, sia alla generazione e all'educazione dei figli. Inoltre è un grave scandalo quando vi sia corruzione dei giovani.

2354 - La pornografia consiste nel sottrarre all'intimità dei partner gli atti sessuali, reali o simulati, per esibirli deliberatamente a terze perso­ne. Offende la castità perché snatura l'atto coniugale, dono intimo e re­ciproco degli sposi. Lede gravemente la dignità di coloro che vi si pre­stano (attori, commercianti, pubblico), poiché l'uno diventa per l'altro oggetto di un piacere rudimentale e di un illecito guadagno, immerge gli uni e gli altri nell'illusione di un mondo irreale. E’ una colpa grave. Le autorità civili devono impedire la produzione e la diffusione di materiali pornografici.

2355 - La prostituzione offende la dignità della persona che si prostitui­sce, ridotta al piacere venereo che procura. Colui che paga pecca grave­mente contro se stesso: viola la castità, alla quale lo impegna il Battesi­mo e macchia il suo corpo, tempio dello Spirito Santo. La prostituzio­ne costituisce una piaga sociale. Normalmente colpisce donne, ma an­che uomini, bambini o adolescenti (in questi due ultimi casi il peccato è, al tempo stesso, anche uno scandalo). Il darsi alla prostituzione è sempre gravemente peccaminoso, tuttavia l'imputabilità della colpa può essere attenuata dalla miseria, dal ricatto e dalla pressione sociale.

2356 - Lo stupro indica l'entrata con forza, mediante violenza, nell'inti­mità sessuale di una persona. Esso viola la giustizia e la carità. Lo stu­pro lede profondamente il diritto di ciascuno al rispetto, alla libertà, all'integrità fisica e morale. Arreca un grave danno, che può segnare la vittima per tutta la vita. É sempre un atto intrinsecamente cattivo. Ancora più grave è lo stupro commesso da parte di parenti stretti (incesto) o di educatori ai danni degli allievi che sono loro affidati.

CASTITÀ E OMOSESSUALITÀ

2357 - L'omosessualità designa le relazioni tra uomini o donne che pro­vano un attrattiva sessuale, esclusiva o predominante, verso persone del medesimo sesso. Si manifesta in forme molto varie lungo i secoli e nelle differenti culture. La sua genesi psichica rimane in gran parte inspiega­bile. Appoggiandosi sulla Sacra Scrittura, che presenta le relazioni omo­sessuali come gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre dichiarato che «gli atti di omosessualità sono intrinsecamente disordinati». Sono contrari alla legge naturale. Precludono all'atto sessuale il dono della vita. Non sono il frutto di una vera complementarità affettiva e sessua­le. In nessun caso possono essere approvati.

2358 - Un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta ten­denze omosessuali profondamente radicate. Questa inclinazione, oggetti­vamente disordinata, costituisce per la maggior parte di loro una prova. Perciò devono essere accolti con rispetto, compassione, delicatezza. A loro riguardo si eviterà ogni marchio di ingiusta discriminazione. Tali persone sono chiamate a realizzare la volontà di Dio nella loro vita, e, se sono cristiane, a unire al sacrificio della croce del Signore le difficol­tà che possono incontrare in conseguenza della loro condizione.

2359 - Le persone omosessuali sono chiamate alla castità. Attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un'amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana.

III. L'amore degli sposi.

2360 - La sessualità è ordinata all'amore coniugale dell'uomo e della donna. Nel matrimonio l'intimità corporale degli sposi diventa un segno e un pegno della comunione spirituale. Tra i battezzati, i legami del matrimonio sono santificati dal sacramento.

2361 - «La sessualità, mediante la quale l'uomo e la donna si donano l'uno all'altra con gli atti propri ed esclusivi degli sposi, non è affatto qualcosa di puramente biologico, ma riguarda l'intimo nucleo della per­sona umana come tale. Essa si realizza in modo veramente umano solo se è parte integrante dell'amore con cui l'uomo e la donna si impegna­no totalmente l'uno verso l'altra fino alla morte»: «Tobia si alzò dal letto e disse a Sara: “Sorella, alzati! Preghiamo e domandiamo al Signore che ci dia grazia e salvezza”. Essa si alzò e si misero a pregare e a chiedere che venisse su di loro la salvezza, dicen­do: “Benedetto sei tu, Dio dei nostri padri [...]. Tu hai creato Adamo e hai creato Eva sua moglie, perchè gli fosse di aiuto e di sostegno. Da loro due nacque tutto il genere umano. Tu hai detto: non è cosa buona che l'uomo resti solo; facciamogli un aiuto simile a lui. Ora non per lussuria io prendo questa mia parente, ma con rettitudine d'intenzione. Degnati di avere misericordia di me e di lei e di farci giungere insieme alla vecchiaia”. E dissero insieme: “Amen, amen!”. Poi dormirono per tutta la notte» (Tb 8,4-9).

2362 - «Gli atti coi quali i coniugi si uniscono in casta intimità, sono onorevoli e degni, e, compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano, ed arricchiscono vicendevol­mente in gioiosa gratitudine gli sposi stessi. La sessualità è sorgente di gioia e di piacere: «Il Creatore stesso (…) ha stabilito che nella reciproca donazione fisica totale gli sposi provino un piacere e una soddisfazione sia del corpo sia dello spirito. Quindi, gli sposi non commettono nessun male cercando tale piacere e godendone. Accettano ciò che il Creatore ha voluto per loro. Tuttavia gli sposi devono saper restare nei limiti di una giusta moderazione.

2363 - Mediante l'unione egli sposi si realizza il duplice fine del matri­monio: il bene degli stessi sposi e la trasmissione della vita. Non si pos­sono disgiungere questi due significati o valori del matrimonio, senza alterare la vita spirituale della coppia e compromettere i beni del matri­monio e l'avvenire della famiglia. L'amore coniugale dell'uomo e della donna è così posto sotto la duplice esigenza della fedeltà e della fecondità.

LA FEDELTÀ CONIUGALE

2364 - La coppia coniugale forma una «intima comunità di vita e dì amore [che], fondata dal Creatore e strutturata con leggi proprie, è sta­bilita dal patto coniugale, vale a dire dall'irrevocabile consenso perso­nale». Gli sposi si donano definitivamente e totalmente l'uno all'altro. Non sono più due, ma ormai formano una carne sola. L'alleanza stipu­lata liberamente dai coniugi impone loro l'obbligo di conservarne l'unità e l'indissolubilità. «L'uomo (…) non separi ciò che Dio ha congiun­to» (Mc lo,9).

2365 - La fedeltà esprime la costanza nel mantenere la parola data. Dio è fedele. Il sacramento del Matrimonio fa entrare l'uomo e la donna nella fedeltà di Cristo alla sua Chiesa. Mediante la castità coniugale, essi rendono testimonianza a questo mistero di fronte al mondo. San Giovanni Crisostomo suggerisce ai giovani sposi di fare questo di­scorso alla loro sposa: «Ti ho presa tra le mie braccia, ti amo, ti prefe­risco alla mia stessa vita. Infatti l'esistenza presente è un soffio, e il mio desiderio più vivo è di trascorrerla con te in modo tale da avere la cer­tezza che non saremo separati in quella futura. [...] Metto l'amore per te al di sopra di tutto e nulla sarebbe per me più penoso che il non essere sempre in sintonia con te».

LA FECONDITÀ DEL MATRIMONIO

2366 - La fecondità è un dono, un fine del matrimonio; infatti l'amore coniugale tende per sua natura ad essere fecondo. Il figlio non viene ad aggiungersi dall'esterno al reciproco amore degli sposi; sboccia nel cuo­re stesso del loro mutuo dono, di cui è frutto e compimento. Perciò la Chiesa, che «sta dalla parte della vita», insegna che «qualsiasi atto matrimoniale deve rimanere aperto per sé alla trasmissione della vita». «Tale dottrina, più volte esposta dal Magistero della Chiesa, è fondata sulla connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l'uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell'atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo».

2367 - Chiamati a donare la vita, gli sposi partecipano della potenza creatrice e della paternità di Dio. «Nel compito di trasmettere la vita umana e di educarla, che deve essere considerato come la loro propria missione, i coniugi sanno di essere cooperatori dell'amore di Dio Crea­tore e come suoi interpreti. E perciò adempiranno il loro dovere con umana e cristiana responsabilità».

2368 - Un aspetto particolare di tale responsabilità riguarda la regola­zione della procreazione. Per validi motivi gli sposi possono voler distanziare le nascite dei loro figli. Devono però verificare che il loro desiderio non sia frutto di egoismo, ma sia conforme alla giusta genero­sità di una paternità responsabile. Inoltre regoleranno il loro comporta­mento secondo i criteri oggettivi della moralità: «Quando si tratta di comporre l'amore coniugale con la trasmissione responsabile della vita, il carattere morale del comportamento non di­pende solo dalla sincera intenzione e dalla valutazione dei motivi, ma va determinato da criteri oggettivi, che hanno il loro fondamento nella natura stessa della persona umana e dei suoi atti, criteri che rispettano, in un contesto di vero amore, l'integro senso della mutua donazione e della procreazione umana; e tutto ciò non sarà possibile se non venga coltivata con sincero animo la virtù della castità coniugale».

2369 - «Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l'atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore e il suo ordinamento all'altissima vocazione dell'uomo alla paternità.

2370 - La continenza periodica, i metodi di regolazione delle nascite ba­sati sull'auto-osservazione e il ricorso ai periodi infecondi sono con­formi ai criteri oggettivi della moralità. Tali metodi rispettano il corpo degli sposi, incoraggiano tra loro la tenerezza e favoriscono l'educazio­ne ad una libertà autentica. Al contrario, è intrinsecamente cattiva «ogni azione che, o in previsione dell'atto coniugale, o nel suo compi­mento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, dì impedire la procreazione». «Al linguaggio nativo che esprime la reciproca donazione totale dei co­niugi, la contraccezione impone un linguaggio oggettivamente contrad­dittorio, quello cioè del non donarsi all'altro in totalità: ne deriva non soltanto il positivo rifiuto all'apertura alla vita, ma anche una falsifica­zione dell'interiore verità dell'amore coniugale, chiamato a donarsi in totalità personale. [...] La differenza antropologica e al tempo stesso morale, che esiste tra la contraccezione e il ricorso ai ritmi temporali [...], coinvolge in ultima analisi due concezioni della persona e della ses­sualità umana tra loro irriducibili».

2371 - «Sia chiaro a tutti che la vita dell'uomo e il compito di trasmet­terla non sono limitati solo a questo tempo e non si possono commisurare e capire in questo mondo soltanto, ma riguardano sempre il destino eterno degli uomini».

2372 - Lo Stato é responsabile del benessere dei cittadini. È legittimo che, a questo titolo, prenda iniziative al fine di orientare l'incremento della popolazione. Può far­lo con un'informazione obiettiva e rispettosa, mai però con imposizioni autoritarie e cogenti. Non può legittimamente sostituirsi all'iniziativa degli sposi, primi respon­sabili della procreazione e dell'educazione dei propri figli. In questo campo non è autorizzato a intervenire con mezzi contrari alla legge morale.

IL DONO DEL FIGLIO

2373 - La Sacra Scrittura e la pratica tradizionale della Chiesa vedono nelle famiglie numerose un segno della benedizione divina e della gene­rosità dei genitori.

2374 - Grande è la sofferenza delle coppie che si scoprono sterili. «Che mi darai? chiede Abramo a Dio. Io me ne vado senza figli...» (Gn 15,2). «Dammi dei figli, se no io muoio!», grida Rachele al marito Giacobbe (Gn 30,1).

2375 - Le ricerche finalizzate a ridurre la sterilità umana sono da inco­raggiare, a condizione che si pongano «al servizio della persona uma­na, dei suoi diritti inalienabili e del suo bene vero e integrale, secondo il progetto e la volontà di Dio»

2376 - Le tecniche che provocano una dissociazione dei genitori, per l'intervento di una persona estranea alla coppia (dono di sperma o di ovocita, prestito del­l'utero) sono gravemente disoneste. Tali tecniche (inseminazione e fecondazione artificiali eterologhe) ledono il diritto del figlio a nascere da un padre e da una madre conosciuti da lui e tra loro legati dal matrimonio. Tradiscono «il diritto esclusivo [degli sposi] a diventare padre e madre soltanto l'uno attraverso l'altro».

2377 - Praticate in seno alla coppia, tali tecniche (inseminazione e fecondazione artificiali omologhe) sono, forse, meno pregiudizievoli, ma rimangono moral­mente inaccettabili. Dissociano l'atto sessuale dall'atto procreatore. L'atto che fonda l'esistenza del figlio non è più un atto con il quale due persone si dona­no l'una all'altra, bensì un atto che o affida la vita e l'identità dell’mbrione al potere dei medici e dei biologi e instaura un dominio della tecnica sull'origine e sul destino della persona umana. Una siffatta relazione di dominio è in sé con­traria alla dignità e all'uguaglianza che dev'essere comune a genitori e figli». «La procreazione è privata dal punto di vista morale della sua perfezione pro­pria quando non è voluta come il frutto dell'atto coniugale, e cioè del gesto specifico dell'unione degli sposi [...]; soltanto il rispetto del legame che esiste tra i significati dell'atto coniugale e il rispetto dell'unità dell'essere umano consente una procreazione conforme alla dignità della persona».

2378 - Il figlio non è qualcosa di dovuto, ma un dono. Il «dono più grande del matrimonio» è una persona umana. Il figlio non può essere considerato come oggetto di proprietà: a ciò condurrebbe il riconosci­mento di un preteso «diritto al figlio». In questo campo, soltanto il figlio ha veri diritti: quello «di essere il frutto dell'atto specifico dell'amore coniugale dei suoi genitori e anche il diritto a essere rispettato come persona dal momento del suo concepimento».

2379 - Il Vangelo mostra che la sterilità fisica non è un male assoluto. Gli sposi che, dopo aver esaurito i legittimi ricorsi alla medicina, sof­frono di sterilità, si uniranno alla croce del Signore, sorgente di ogni fecondità spirituale. Essi possono mostrare la loro generosità adottando bambini abbandonati oppure compiendo servizi significativi a favore del prossimo.

IV. Le offese alla dignità del matrimonio.

2380 - L'adulterio. Questa parola designa l'infedeltà coniugale. Quando due persone, di cui almeno una è sposata, intrecciano tra loro una rela­zione sessuale, anche episodica, commettono un adulterio. Cristo con­danna l'adulterio anche se consumato con il semplice desiderio. Il sesto comandamento e il Nuovo Testamento proibiscono l'adulterio in modo assoluto. I profeti ne denunciano la gravità. Nell'adulterio essi vedono simboleggiato il peccato di idolatria.

2381 - L'adulterio è un'ingiustizia. Chi lo commette viene meno agli im­pegni assunti. Ferisce quel segno dell'Alleanza che è il vincolo matrimoniale, lede il diritto dell'altro coniuge e attenta all'istituto del matrimo­nio, violando il contratto che lo fonda. Compromette il bene della generazione umana e dei figli, i quali hanno bisogno dell'unione stabile dei genitori.

IL DIVORZIO

2382 - Il Signore Gesù ha insistito sull'intenzione originaria del Creato­re, che voleva un matrimonio indissolubile. Ha abolito le tolleranze che erano state a poco a poco introdotte nella Legge antica. Tra i battezzati «il Matrimonio rato e consumato non può essere sciolto da nessuna potestà umana e per nessuna causa, eccetto la morte».

2383 - La separazione degli sposi, con la permanenza del vincolo matrimo­niale, può essere legittima in certi casi contemplati dal diritto canonico. Se il divorzio civile rimane l'unico modo possibile di assicurare certi diritti legittimi, quali la cura dei figli o la tutela del patrimonio, può essere tollerato, senza che costituisca una colpa morale

2384 - Il divorzio è una grave offesa alla legge naturale. Esso pretende di sciogliere il patto, liberamente stipulato dagli sposi, di vivere l'uno con l'altro fino alla morte. Il divorzio offende l'Alleanza della salvezza, di cui il Matrimonio sacramentale è segno. Il fatto di contrarre un nuo­vo vincolo nuziale, anche se riconosciuto dalla legge civile, accresce la gravità della rottura: il coniuge risposato si trova in tal caso in una condizione di adulterio pubblico e permanente: «Se il marito, dopo essersi separato dalla propria moglie, si unisce ad un'altra donna, é lui stesso adultero, perché fa commettere un adulterio a tale donna; e la donna che abita con lui é adultera, perché ha attirato a sé il marito di un'altra».

2385 - Il carattere immorale del divorzio deriva anche dal disordine che esso introduce nella cellula familiare e nella società. Tale disordine ge­nera gravi danni: per il coniuge, che si trova abbandonato; per i figli, traumatizzati dalla separazione dei genitori, e sovente contesi tra questi; per il suo effetto contagioso, che lo rende una vera piaga sociale.

2386 - Può avvenire che uno dei coniugi sia vittima innocente del divor­zio pronunciato dalla legge civile; questi allora non contravviene alla norma morale. C'è infatti una differenza notevole tra il coniuge che si è sinceramente sforzato di rimanere fedele al sacramento del Matrimonio e si vede ingiustamente abbandonato, e colui che, per sua grave colpa, distrugge un matrimonio canonicamente valido.

ALTRE OFFESE ALLA DIGNITÀ DEL MATRIMONIO

2387 - Si comprende il dramma di chi, desideroso di convertirsi al Van­gelo, si vede obbligato a ripudiare una o più donne con cui ha condiviso anni di vita coniugale. Tuttavia la poligamia è in contrasto con la legge morale. Contraddice radicalmente la comunione coniugale; essa, «infatti, nega in modo diretto il disegno di Dio quale ci viene rivelato alle origini, perché è contraria alla pari dignità personale dell'uomo e della donna, che nel matrimonio si donano con un amore totale e per­ciò stesso unico ed esclusivo». Il cristiano che prima era poligamo, per giustizia, ha il grave dovere di rispettare gli obblighi contratti nei confronti delle donne che erano sue mogli e dei suoi figli.

2388 - L'incesto consiste in relazioni intime tra parenti o affini, in un grado che impedisce tra loro il matrimonio. San Paolo stigmatizza questa colpa particolarmente grave: «Si sente da per tutto parlare d'immoralità tra voi (…) al punto che uno convive con la moglie di suo pa­dre! [...] Nel nome del Signore nostro Gesù, (…) questo individuo sia dato in balia di Satana per la rovina della sua carne...» (I Cor 5,1.3-5). L'incesto corrompe le relazioni familiari e segna un regresso verso l'ani­malità.

2389 - Si possono collegare all'incesto gli abusi sessuali commessi da adulti su fanciulli o adolescenti affidati alla loro custodia. In tal caso la colpa è, al tempo stesso, uno scandaloso attentato all'integrità fisica e morale dei ragazzi, i quali ne resteranno segnati per tutta la loro vita, ed è altresì una violazione della responsabilità educativa

2390 - Si ha una libera unione quando l'uomo e la donna rifiutano di dare una forma giuridica e pubblica a un legame che implica l'intimità sessuale. L'espressione è fallace: che senso può avere una unione in cui le persone non si impegnano l'una nei confronti dell'altra. e manifestano in tal modo una man­canza di fiducia nell'altro, in se stessi o nell'avvenire? L'espressione abbraccia situazioni diverse: concubinato, rifiuto del ma­trimonio come tale, incapacità di legarsi con impegni a lungo termine. Tutte queste situazioni costituiscono un'offesa alla dignità del matrimo­nio; distruggono l'idea stessa della famiglia; indeboliscono il senso della fedeltà. Sono contrarie alla legge morale: l'atto sessuale deve avere po­sto esclusivamente nel matrimonio; al di fuori di esso costituisce sempre un peccato grave ed esclude dalla comunione sacramentale.

2391 - Molti attualmente reclamano una specie di «diritto alla prova» quando c'è intenzione di sposarsi. Qualunque sia la fermezza del propo­sito di coloro che si impegnano in rapporti sessuali prematuri, tali rap­porti «non consentono di assicurare, nella sua sincerità e fedeltà, la re­lazione interpersonale di un uomo e di una donna, e specialmente di proteggerla dalle fantasie e dai capricci». L'unione carnale è moral­mente legittima solo quando tra l'uomo e la donna si sia instaurata una comunità di vita definitiva. L'amore umano non ammette la «prova». Esige un dono totale e definitivo delle persone tra loro.

In sintesi

2392 - «L'amore è la fondamentale e nativa vocazione di ogni essere umano».

2393 - Creando l'essere umano uomo e donna, Dio dona all'uno e all'altra, in modo uguale, la dignità personale. Spetta a ciascuno, uomo e donna, riconoscere e accettare la propria identità sessuale.

2394 - Cristo é il modello della castità. Ogni battezzato é chiamato a con­durre una vita casta, ciascuno secondo lo stato di vita che gli è proprio.

2395 - La castità significa l'integrazione della sessualità nella persona. Richiede che si acquisisca la padronanza della persona.

2396 - Tra i peccati gravemente contrari alla castità, vanno citati la ma­sturbazione, la fornicazione, la pornografia e le pratiche omosessuali.

2397 - L'alleanza liberamente contratta dagli sposi implica un amore fede­le. Essa impone loro l'obbligo di conservare l'indissolubilità del loro Matrimonio.

2398 - La fecondità é un bene, un dono, un fine del matrimonio. Donando la vita, gli sposi partecipano della paternità di Dio.

2399 - La regolazione delle nascite rappresenta uno degli aspetti della pa­ternità e della maternità responsabili. La legittimità delle intenzioni degli sposi non giustifica il ricorso a mezzi moralmente inaccettabili (per esempio, la sterilizzazione diretta o la contraccezione).

2400 - L'adulterio e il divorzio, la poligamia e la libera unione costituisco­no gravi offese alla dignità del matrimonio.

Articolo 7

IL SETTIMO COMANDAMENTO

«Non rubare» (Es 20,15). Non rubare » (Mt 19,18).

2401 - Il settimo comandamento proibisce di prendere o di tenere ingiu­stamente i beni del prossimo e di arrecare danno al prossimo nei suoi beni in qualsiasi modo. Esso prescrive la giustizia e la carità nella ge­stione dei beni materiali e del frutto del lavoro umano. Esige, in vista del bene comune, il rispetto della destinazione universale dei beni e del diritto di proprietà privata. La vita cristiana si sforza di ordinare a Dio e alla carità fraterna i beni di questo mondo.

I. La destinazione universale e la proprietà privata dei beni.

2402 - All'inizio, Dio ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dell'umanità, affinché se ne prendesse cura, la dominasse con il suo lavoro e ne godesse i frutti. I beni della creazione sono destinati a tutto il genere umano. Tuttavia la terra è suddivisa tra gli uomini, per­ché sia garantita la sicurezza della loro vita, esposta alla precarietà e minacciata dalla violenza. L'appropriazione dei beni è legittima al fine di garantire la libertà e la dignità delle persone, di aiutare ciascuno a soddisfare i propri bisogni fondamentali e i bisogni di coloro di cui ha la responsabilità. Tale appropriazione deve consentire che si manifesti una naturale solidarietà tra gli uomini.

2403 - Il diritto alla proprietà privata, acquisita o ricevuta in giusto mo­do, non elimina l'originaria donazione della terra all'insieme dell'umani­tà. La destinazione universale dei beni rimane primaria, anche se la pro­mozione del bene comune esige il rispetto.

2404 - «L'uomo, usando dei beni creati, deve considerare le cose este­riori che legittimamente possiede, non solo come proprie, ma anche co­me comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui, ma anche agli altri». La proprietà di un bene fa di colui che lo possiede un amministratore della provvidenza; deve perciò farlo fruttificare e spartirne i frutti con gli altri, e, in primo luogo, con i propri congiunti

2405 - I beni di produzione - materiali o immateriali - , come terreni o stabilimenti, competenze o arti, esigono le cure di chi li possiede, perché la loro fecondità vada a vantaggio del maggior numero di persone. Coloro che possiedono beni d'uso e di consumo devono usarne con moderazione, riservando la parte migliore all'ospite, al malato, al povero.

2406 - L'autorità politica ha il diritto e il dovere di regolare il legittimo esercizio del diritto di proprietà in funzione del bene comune.

II. Il rispetto delle persone e dei loro beni.

2407 - In materia economica, il rispetto della dignità umana esige la pratica della virtù della temperanza, per moderare l'attaccamento ai be­ni di questo mondo; della virtù della giustizia, per rispettare i diritti del prossimo e dargli ciò che gli è dovuto; e della solidarietà, seguendo la regola aurea e secondo la liberalità del Signore il quale, da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà.

IL RISPETTO DEI BENI ALTRUI

2408 - Il settimo comandamento proibisce il furto, cioè l'usurpazione del bene altrui contro la ragionevole volontà del proprietario. Non c'è furto se il consenso può essere presunto, o se il rifiuto è contrario alla ragione e alla destinazione universale dei beni È questo il caso della necessità urgente ed evidente, in cui l'unico mezzo per soddisfare bisogni immediati ed essenziali (nutrimento, rifugio, indumenti...) è di disporre e di usare beni altrui.

2409 - Ogni modo di prendere e di tenere ingiustamente i beni del pros­simo, anche se non è in contrasto con le disposizioni della legge civile, è contrario al settimo comandamento. Così, tenere deliberatamente cose avute in prestito o oggetti smarriti; commettere frode nel commercio; pagare salari ingiusti; alzare i prezzi, speculando sull'ignoranza o sul bisogno altrui. Sono pure moralmente illeciti: la speculazione, con la quale si agisce per far ar­tificiosamente variare la stima dei beni, in vista di trarne un vantaggio a danno di altri; la corruzione, con la quale si svia il giudizio di coloro che devono prendere decisioni in base al diritto; l'appropriazione e l'uso privato dei beni sociali di un'impresa; i lavori eseguiti male, la frode fiscale, la contraffazione di assegni e di fatture, le spese eccessive, lo sperpero. Arrecare volontariamente un danno alle proprietà private o pubbliche è contrario alla legge morale ed esige il risarcimento

2410 - Le promesse devono essere mantenute, e i contratti rigorosamente osservati nella misura in cui l'impegno preso è moralmente giusto. Una parte rilevante della vita economica e sociale dipende dal valore dei contratti tra le persone fisiche o morali. E’il caso dei contratti commer­ciali di vendita o di acquisto, dei contratti d'affitto o di lavoro. Ogni contratto deve essere stipulato e applicato in buona fede.

2411 - I contratti sottostanno alla giustizia commutativa, che regola gli scambi tra le persone e tra le istituzioni nel pieno rispetto dei loro di­ritti. La giustizia commutativa obbliga strettamente; esige la salvaguar­dia dei diritti di proprietà, il pagamento dei debiti e l'adempimento del­le obbligazioni liberamente contrattate. Senza la giustizia commutativa, qualsiasi altra forma di giustizia è impossibile. Va distinta la giustizia commutativa dalla giustizia legale, che riguarda ciò che il cittadino deve equamente alla comunità, e dalla giustizia distributiva, che regola ciò che la comunità deve ai cittadini in proporzione alle loro prestazioni e ai loro bisogni.

2412 - In forza della giustizia commutativa, la riparazione dell'ingiustizia commessa esige la restituzione al proprietario di ciò di cui è stato derubato: Gesù fa l'elogio di Zaccheo per il suo proposito: «Se ho frodato qualcuno, re­stituisco quattro volte tanto» (Lc 19,8). Coloro che, direttamente o indiretta­mente, si sono appropriati di un bene altrui, sono tenuti a restituirlo, o, se la cosa non c'è più, a rendere l'equivalente in natura o in denaro, come anche a corrispondere i frutti e i profitti che sarebbero stati legittimamente ricavati dal proprietario. Allo stesso modo hanno l'obbligo della restituzione, in proporzio­ne alla loro responsabilità o al vantaggio avutone, tutti coloro che in qualche modo hanno preso parte al furto, oppure ne hanno approfittato con cognizione di causa; per esempio, coloro che l'avessero ordinato, o appoggiato, o avessero ricettato la refurtiva.

2413 - I giochi d'azzardo (gioco delle carte, ecc.) o le scommesse non sono in se stessi contrari alla giustizia. Diventano moralmente inaccettabili allorché privano la persona di ciò che le è necessario per far fronte ai bisogni propri e altrui. La passione del gioco rischia di diventare una grave schiavitù. Truccare le scommesse o barare nei giochi costituisce una mancanza grave, a meno che il danno causato sia tanto lieve da non poter essere ragionevolmente considerato significativo da parte di chi lo subisce.

2414 - Il settimo comandamento proibisce gli atti o le iniziative che, per qualsiasi ragione, egoistica o ideologica, mercantile o totalitaria, porta­no all'asservimento di esseri umani, a misconoscere la loro dignità perso­nale, ad acquistarli, a venderli e a scambiarli come se fossero merci. Ri­durre le persone, con la violenza, ad un valore d'uso oppure ad una fonte di guadagno, è un peccato contro la loro dignità e i loro diritti fondamentali. San Paolo ordinava ad un padrone cristiano di trattare il suo schiavo cristiano «non più come schiavo, ma (…) come un fratello carissimo (…), come uomo, nel Signore» (Fm 16).

IL RISPETTO DELL INTEGRITÀ DELLA CREAZIONE

2415 - Il settimo comandamento esige il rispetto dell'integrità della crea­zione. Gli animali, come anche le piante e gli esseri inanimati, sono na­turalmente destinati al bene comune dell'umanità passata, presente e fu­tura. L'uso delle risorse minerali, vegetali e animali dell'universo non può essere separato dal rispetto delle esigenze morali. La signoria sugli esseri inanimati e sugli altri viventi accordata dal Creatore all'uomo non è assoluta; deve misurarsi con la sollecitudine per la qualità della vita del prossimo, compresa quella delle generazioni future; esige un religioso rispetto dell'integrità della creazione.

2416 - Gli animali sono creature di Dio. Egli li circonda della sua prov­vida cura. Con la loro semplice esistenza lo benedicono e gli rendono gloria. Anche gli uomini devono essere benevoli verso di loro. Ci si ricorderà con quale delicatezza i santi, come san Francesco d'Assisi o san Filippo Neri, trattassero gli animali.

2417 - Dio ha consegnato gli animali a colui che egli ha creato a sua immagine. È dunque legittimo servirsi degli animali per provvedere al nutrimento o per confezionare indumenti. Possono essere addomesticati, perché aiutino l'uomo nei suoi lavori e anche a ricrearsi negli svaghi. Le sperimentazioni mediche e scientifiche sugli animali sono pratiche moralmente accettabili, se rimangono entro limiti ragionevoli e contri­buiscono a curare o salvare vite umane.

2418 - È contrario alla dignità umana far soffrire inutilmente gli animali e disporre indiscriminatamente della loro vita. È pure indegno dell'uomo spendere per gli animali somme che andrebbero destinate, prio­ritariamente, a sollevare la miseria degli uomini. Si possono amare gli animali; ma non si devono far oggetto di quell'affetto che è dovuto soltanto alle persone.

III. La dottrina sociale della Chiesa.

2419 - «La rivelazione cristiana [...] ci guida a un approfondimento del­le leggi che regolano la vita sociale». La Chiesa riceve dal Vangelo la piena rivelazione della verità dell'uomo. Quando compie la sua missione di annunziare il Vangelo, attesta all'uomo, in nome di Cristo, la sua di­gnità e la sua vocazione alla comunione delle persone; gli insegna le esigenze della giustizia e della pace, conformi alla sapienza divina.

2420 - La Chiesa dà un giudizio morale, in materia economica e sociale, «quando ciò sia richiesto dai diritti fondamentali della persona o dalla salvezza delle anime». Per ciò che attiene alla sfera della moralità, es­sa è investita di una missione distinta da quella delle autorità politiche: la Chiesa si interessa degli aspetti temporali del bene comune in quanto sono ordinati al Bene supremo, nostro ultimo fine. Cerca di inculcare le giuste disposizioni nel rapporto con i beni terreni e nelle relazioni so­cio-economiche.

2421 - La dottrina sociale della Chiesa si è sviluppata nel secolo diciannovesi­mo, all'epoca dell'impatto del Vangelo con la moderna società industriale, le sue nuove strutture per la produzione dei beni di consumo, la sua nuova conce­zione della società, dello Stato e dell'autorità, le sue nuove forme di lavoro e di proprietà. Lo sviluppo della dottrina della Chiesa, in materia economica e sociale, attesta il valore permanente dell'insegnamento della Chiesa e, ad un tempo, il vero senso della sua Tradizione sempre viva e vitale.

2422 - L'insegnamento sociale della Chiesa costituisce un corpo dottri­nale, che si articola a mano a mano che la Chiesa, alla luce di tutta la parola rivelata da Cristo Gesù, con l'assistenza dello Spirito Santo, interpreta gli avvenimenti nel corso della storia. Tale insegnamento diventa tanto più accettabile per gli uomini di buona volontà quanto più profondamente ispira la condotta dei fedeli.

2423 - La dottrina sociale della Chiesa propone principi di riflessione; formula criteri di giudizio, offre orientamenti per l'azione: Ogni sistema secondo cui i rapporti sociali sarebbero completamente determinati dai fattori economici, è contrario alla natura della persona umana e dei suoi atti.

2424 - Una teoria che fa del profitto la regola esclusiva e il fine ultimo dell'atti­vità economica è moralmente inaccettabile. Il desiderio smodato del denaro non manca di produrre i suoi effetti perversi. È una delle cause dei numerosi con­flitti che turbano l'ordine sociale. Un sistema che sacrifica «i diritti fondamentali delle singole persone e dei gruppi all'organizzazione collettiva della produzione» è contrario alla dignità dell'uomo. Ogni pratica che riduce le persone a non essere altro che puri stru­menti in funzione del profitto, asservisce l'uomo, conduce all'idolatria del dena­ro e contribuisce alla diffusione dell'ateismo. «Non potete servire a Dio e a mammona» (Mt 6,24; Lc 16,13).

2425 - La Chiesa ha rifiutato le ideologie totalitarie e atee associate, nei tempi moderni, al «comunismo» o al «socialismo». Peraltro essa ha pure rifiutato, nella pratica del «capitalismo», l'individualismo e il primato assoluto della leg­ge del mercato sul lavoro umano. La regolazione dell'economia mediante la sola pianificazione centralizzata perverte i legami sociali alla base; la sua regola­zione mediante la sola legge del mercato non può attuare la giustizia sociale, perché «esistono numerosi bisogni umani che non hanno accesso al mercato». E’ necessario favorire una ragionevole regolazione del mercato e delle iniziative economiche, secondo una giusta gerarchia dei valori e in vista del bene comune.

IV. L'attività economica e la giustizia sociale.

2426 - Lo sviluppo delle attività economiche e l'aumento della produ­zione sono destinati a soddisfare i bisogni degli esseri umani. La vita economica non mira solo ad accrescere la produzione dei beni e ad au­mentare il profitto o la potenza; essa è prima di tutto ordinata al servi­zio delle persone, dell'uomo nella sua integralità e di tutta la comunità umana. Realizzata secondo i propri metodi, l'attività economica deve essere esercitata nell'ambito dell'ordine morale, nel rispetto della giustizia sociale, in modo che risponda al disegno di Dio sull'uomo.

2427 - Il lavoro umano proviene immediatamente da persone create ad immagine di Dio e chiamate a prolungare, le une con le altre e per le altre, l'opera della creazione sottomettendo la terra. Il lavoro, quindi, è un dovere: «Chi non vuol lavorare, neppure mangi» (2 Ts 3,l0). Il la­voro esalta i doni del Creatore e i talenti ricevuti. Può anche essere redentivo. Sopportando la penosa fatica del lavoro in unione con Gesù, l'artigiano di Nazaret e il crocifisso del Calvario, l'uomo in un certo modo coopera con il Figlio di Dio nella sua opera redentrice. Si mostra discepolo di Cristo portando la croce, ogni giorno, nell'attività che è chiamato a compiere. Il lavoro può essere un mezzo di santificazione e un'animazione delle realtà terrene nello Spirito di Cristo

2428 - Nel lavoro la persona esercita e attualizza una parte delle capaci­tà iscritte nella sua natura. Il valore primario del lavoro riguarda l'uo­mo stesso, che ne è l'autore e il destinatario. Il lavoro è per l'uomo, e non l'uomo per il lavoro. Ciascuno deve poter trarre dal lavoro i mezzi di sostentamento per la propria vita e per quella dei suoi familiari, e per servire la comunità umana.

2429 - Ciascuno ha il diritto di iniziativa economica; ciascuno userà legit­timamente i propri talenti per concorrere a un'abbondanza di cui tutti possano godere, e per raccogliere dai propri sforzi i giusti frutti. Procu­rerà di conformarsi agli ordinamenti emanati dalle legittime autorità in vista del bene comune.

2430 - La vita economica chiama in causa interessi diversi, spesso tra lo­ro opposti. Così si spiega l'emergere dei conflitti che la caratterizzano. Si farà di tutto per comporre tali conflitti attraverso negoziati che rispettino i diritti e i doveri di ogni parte sociale: i responsabili delle imprese, i rappresentanti dei lavoratori, per esempio le organizzazioni sindacali, ed, eventualmente, i pubblici poteri.

2431 - La responsabilità dello Stato. «L'attività economica, in par­ticolare quella dell'economia di mercato, non può svolgersi in un vuoto istituzionale, giuridico e politico. Essa suppone, al contrario, sicurezza circa le garanzie delle libertà individuali e della proprietà, oltre che una moneta stabile e servizi pubblici efficienti. Il principale compito dello Stato, pertanto, è quello di garantire tale sicurezza, di modo che chi lavora possa godere i frutti del proprio lavoro e, quindi, si senta stimolato a compierlo con efficienza e onestà. [...] Compito dello Stato è quello di sorvegliare e guidare l'esercizio dei diritti umani nel settore economico; in questo campo, tuttavia, la prima respon­sabilità non è dello Stato, bensì dei singoli e dei diversi gruppi e associazioni di cui si compone la società».

2432 - I responsabili di imprese hanno, davanti alla società, la responsa­bilità economica ed ecologica delle loro operazioni. Hanno il dovere di considerare il bene delle persone e non soltanto l'aumento dei profitti. Questi, comunque, sono necessari. Permettono di realizzare gli investi­menti che assicurano l'avvenire delle imprese. Garantiscono l'occupazione.

2433 - L'accesso al lavoro e alla professione deve essere aperto a tutti, senza ingiusta discriminazione: a uomini e a donne, a chi è in buone condizioni psico-fisiche e ai disabili, agli autoctoni e agli immigrati. In rapporto alle circostanze, la società deve da parte sua aiutare i cittadini a trovare un lavoro e un impiego.

2434 - Il giusto salario è il frutto legittimo del lavoro. Rifiutano o non darlo a tempo debito può rappresentare una grave ingiustizia. Per sta­bilire l'equa remunerazione, si deve tener conto sia dei bisogni sia delle prestazioni di ciascuno. «Il lavoro va remunerato in modo tale da ga­rantire i mezzi sufficienti per permettere al singolo e alla sua famiglia una vita dignitosa su un piano materiale, sociale, culturale e spirituale, corrispondentemente al tipo di attività e grado di rendimento economi­co di ciascuno, nonché alle condizioni dell'impresa e al bene comu­ne». Non è sufficiente l'accordo tra le parti a giustificare moralmente l'ammontare del salario.

2435 - Lo sciopero è moralmente legittimo quando appare come lo stru­mento inevitabile, o quanto meno necessario, in vista di un vantaggio proporzionato. Diventa moralmente inaccettabile allorché è accompa­gnato da violenze oppure gli si assegnano obiettivi non direttamente connessi con le condizioni di lavoro o in contrasto con il bene comune.

2436 - È ingiusto non versare agli organismi di sicurezza sociale i con­tributi stabiliti dalle legittime autorità. La disoccupazione, per carenza di lavoro, quasi sempre rappresenta, per chi ne è vittima, un'offesa alla sua dignità e una minaccia per l'equilibrio della vita. Oltre al danno che egli subisce personalmente, numerosi rischi ne derivano per la sua famiglia.

V. Giustizia e solidarietà tra le nazioni.

2437 - A livello internazionale, la disuguaglianza delle risorse e dei mez­zi economici è tale da provocare un vero «fossato» tra le nazioni. Da una parte vi sono coloro che possiedono e incrementano i mezzi dello sviluppo, e, dall'altra, quelli che accumulano i debiti.

2438 - Varie cause, di natura religiosa, politica, economica e finanziaria danno oggi «alla questione sociale (…) una dimensione mondiale». Tra le nazioni, le cui politiche sono già interdipendenti, è necessaria la solidarietà. E questa diventa indispensabile allorché si tratta di bloccare «i meccanismi perversi» che ostacolano lo sviluppo dei paesi meno progrediti. A sistemi finanziari abusivi se non usurai, relazioni com­merciali inique tra le nazioni, alla corsa agli armamenti si deve sostitui­re uno sforzo comune per mobilitare le risorse verso obiettivi di svilup­po morale, culturale ed economico, «ridefinendo le priorità e le scale di valori, in base alle quali si decidono le scelte»

2439 - Le nazioni ricche hanno una grave responsabilità morale nei con­fronti di quelle che da se stesse non possono assicurarsi i mezzi del proprio sviluppo o ne sono state impedite in conseguenza di tragiche vicende storiche. Si tratta di un dovere di solidarietà e di carità; ed anche di un obbligo di giustizia, se il benessere delle nazioni ricche proviene da risorse che non sono state equamente pagate.

2440 - L'aiuto diretto costituisce una risposta adeguata a necessità im­mediate, eccezionali, causate, per esempio, da catastrofi naturali, da epidemie, ecc. Ma esso non basta a risanare i gravi mali che derivano da situazioni di miseria, né a far fronte in modo duraturo ai bisogni. Occorre anche riformare le istituzioni economiche e finanziarie interna­zionali perché possano promuovere rapporti equi con i paesi meno svi­luppati. È necessario sostenere lo sforzo dei paesi poveri che sono alla ricerca del loro sviluppo e della loro liberazione. Questi principi vanno applicati in una maniera tutta particolare nell'ambito del lavoro agricolo. I contadini, specialmente nel terzo mondo, costituiscono la massa preponderante dei poveri.

2441 - Alla base di ogni sviluppo completo della società umana sta la crescita del senso di Dio e della conoscenza di sé. Allora lo sviluppo moltiplica i beni materiali e li mette al servizio della persona e della sua libertà. Riduce la miseria e lo sfruttamento economico. Fa crescere il rispetto delle identità culturali e l'apertura alla trascendenza

2442 - Non spetta ai Pastori della Chiesa intervenire direttamente nell'a­zione politica e nell'organizzazione della vita sociale. Questo compito fa parte della vocazione dei fedeli laici, i quali operano di propria iniziati­va insieme con i loro concittadini. L'azione sociale può implicare una pluralità di vie concrete; comunque, avrà sempre come fine il bene co­mune e sarà conforme al messaggio evangelico e all'insegnamento della Chiesa. Compete ai fedeli laici «animare, con impegno cristiano, le realtà temporali, e, in esse, mostrare di essere testimoni e operatori di pace e di giustizia».

VI. L'amore per i poveri.

2443 - Dio benedice coloro che soccorrono i poveri e disapprova coloro che se ne disinteressano: «Dà a chi ti domanda e a chi desidera da te un prestito non volgere le spalle» (Mt 5,42). «Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date» (Mt 10,8). Gesù Cristo riconoscerà i suoi eletti proprio da quanto avranno fatto per i poveri. Allorché «ai poveri è predicata la buona novella» (Mt 1 l,5), è segno che Cristo è presente.

2444 - «L'amore della Chiesa per i poveri [...] appartiene alla sua co­stante tradizione. Si ispira al Vangelo delle beatitudini, alla povertà di Gesù e alla sua attenzione per i poveri. L'amore per i poveri è anche una delle motivazioni del dovere di lavorare per far parte dei be­ni a chi si trova in necessità. Tale amore per i poveri non riguarda soltanto la povertà materiale, ma anche le numerose forme di povertà culturale e religiosa.

2445 - L'amore per i poveri è inconciliabile con lo smodato amore per le ricchezze o con il loro uso egoistico: «E ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che vi sovrasta­no! Le vostre ricchezze sono imputridite, le vostre vesti sono state divo­rate dalle tarme; il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggine si leverà a testimonianza contro di voi e divo­rerà le vostre carni come un fuoco. Avete accumulato tesori per gli ulti­mi giorni! Ecco, il salario da voi defraudato ai lavoratori che hanno mietuto le vostre terre grida; e le proteste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore degli eserciti. Avete gozzovigliato sulla terra e vi siete saziati di piaceri, vi siete ingrassati per il giorno della strage. Ave­te condannato e ucciso il giusto ed egli non può opporre resistenza» (Gc 5,1-6).

2446 - San Giovanni Crisostomo lo ricorda con forza: «Non condivide­re con i poveri i propri beni è defraudarli e togliere loro la vita. [...] Non sono nostri i beni che possediamo: sono dei poveri». «Siano an­zitutto adempiuti gli obblighi di giustizia perché non si offra come do­no di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia»: «Quando doniamo ai poveri le cose indispensabili, non facciamo loro delle elargizioni personali, ma rendiamo loro ciò che è loro. Più che compiere un atto di carità, adempiamo un dovere di giustizia».

2447 - Le opere di misericordia sono azioni caritatevoli con le quali soc­corriamo il nostro prossimo nelle sue necessità corporali e spirituali. Istruire, consigliare, consolare, confortare sono opere di misericordia spirituale, come pure perdonare e sopportare con pazienza. Le opere di misericordia corporale consistono segnatamente nel dare da mangiare a chi ha fame, nell'ospitare i senza tetto, nel vestire chi ha bisogno di in­dumenti, nel visitare gli ammalati e i prigionieri, nel seppellire i morti. Tra queste opere, fare l'elemosina ai poveri e una delle principali testimonianze della carità fraterna: è pure una pratica di giustizia che piace a Dio: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare faccia altrettanto» (Lc 3,11). Piuttosto date in elemosina quel che c'è dentro, e tutto sarà puro per voi» (Lc 11,41). Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro; “Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi”, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova?» (Gc 2,l5-16).

2448 - «Nelle sue molteplici forme spogliamento materiale, ingiusta oppressione, malattie fisiche e psichiche, e infine la morte - la miseria umana è il segno evidente della naturale condizione di debolezza, in cui l'uomo si trova dopo il primo peccato, e il segno del suo bisogno di salvezza. È per questo che la miseria dell'uomo ha attirato la compas­sione di Cristo Salvatore, il quale ha voluto prenderla su di sé, e identi­ficarsi con più piccoli tra i fratelli (Mt 25,40.45). È pure per questo che gli oppressi dalla miseria sono oggetto di un amore di preferenza da parte della Chiesa, la quale, fin dalle origini, malgrado l'infedeltà di molti dei suoi membri, non ha cessato di impegnarsi a sollevarli, a di­fenderli e a liberarli. Ciò ha fatto con innumerevoli opere di beneficen­za, che rimangono sempre e dappertutto indispensabili».

2449 - Fin dall'Antico Testamento tutte le varie disposizioni giuridiche (anno di remissione, divieto di prestare denaro a interesse e di trattene­re un pegno, obbligo di dare la decima, di pagare ogni giorno il salario ai lavoratori giornalieri, diritto di racimolare e spigolare) sono in con­sonanza con l'esortazione del Deuteronomio: «I bisognosi non manche­ranno mai nel paese; perciò io ti do questo comando e ti dico: Apri ge­nerosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nel tuo paese» (Dt 15,11). Gesù fa sua questa parola: «I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me» (Gv 12,8). Non vanifica con ciò la parola veemente degli antichi profeti: comprano «con denaro gli indigenti e il povero per un paio di sandali...» (Am 8,6), ma ci invita a riconoscere la sua presenza nei poveri che sono suoi fratelli: Il giorno in cui sua madre la rimproverò di accogliere in casa poveri e infermi, santa Rosa da Lima senza esitare le disse: «Quando serviamo i poveri e i malati, serviamo Gesù. Non dobbiamo lasciar mancare l'aiu­to al nostro prossimo, perché nei nostri fratelli serviamo Gesù».

In sintesi

2450 - «Non rubare» (Dt 5,19). «Né ladri, né avari, (…) né rapaci eredi­teranno il regno di Dio» (1 Cor 6,10).

2451 - Il settimo comandamento prescrive la pratica della giustizia e della carità nella gestione dei beni terreni e dei frutti del lavoro umano.

2452 - I beni della creazione sono destinati all'intero genere umano. Il di­ritto alla proprietà privata non abolisce la destinazione universale dei beni.

2453 - Il settimo comandamento proibisce il furto. Il furto consiste nell'u­surpare il bene altrui, contro la volontà ragionevole del proprietario.

2454 - Ogni modo di prendere ed usare ingiustamente i beni altrui è con­trario al settimo comandamento. L'ingiustizia commessa esige ripa­razione. La giustizia commutativa esige la restituzione di ciò che si è rubato.

2455 - La legge morale proibisce gli atti che, a scopi mercantili o totalita­ri, provocano l'asservimento di esseri umani, il loro acquisto, la loro vendita, il loro scambio, come se fossero merci.

2456 - Il dominio accordato dal Creatore all'uomo sulle risorse minerali, vegetali e animali dell'universo, non può essere disgiunto dal rispetto degli obblighi morali, compresi quelli che riguardano le generazioni future.

2457 - Gli animali sono affidati all'uomo, il quale dev’essere benevolo verso di essi. Possono servire alla giusta soddisfazione dei suoi bisogni.

2458 - La Chiesa dà un giudizio in materia economica e sociale quando i diritti fondamentali della persona o la salvezza delle anime lo esigo­no. Essa si interessa del bene comune temporale degli uomini in funzione del suo ordinamento al Bene supremo, ultimo nostro fine.

2459 - L'uomo stesso e l'autore, il centro e il fine di tutta la vita economi­ca e sociale. Il nodo decisivo della questione sociale é che i beni creati da Dio per tutti in effetti arrivino a tutti, secondo la giustizia e con l'aiuto della carità.

2460 - Il valore primario del lavoro riguarda l'uomo stesso, il quale ne e l'autore e il destinatario. Mediante il lavoro, l'uomo partecipa all'o­pera della creazione. Compiuto in unione con Cristo, il lavoro può essere redentivo.

2461 - Il vero sviluppo e quello dell'uomo nella sua integralità. Si tratta di far crescere la capacità di ogni persona a rispondere alla propria vocazione, quindi alla chiamata di Dio.

2462 - L'elemosina fatta ai poveri e una testimonianza di carità fraterna: e anche un'opera di giustizia che piace a Dio.

2463 - Nella moltitudine di esseri umani senza pane, senza tetto, senza fis­sa dimora, come non riconoscere Lazzaro, il mendicante affamato della parabola? Come non risentire Gesù: «Non l'avete fatto a me» (Mt 25,45)?

Articolo 8

L'OTTAVO COMANDAMENTO

«Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo» (Es 20,16). «Fu detto agli antichi: ”Non spergiurare, ma adempi con il Signore i tuoi giuramenti”» (Mt 5,33).

2464 - L'ottavo comandamento proibisce di falsare la verità nelle rela­zioni con gli altri. Questa norma morale deriva dalla vocazione del po­polo santo ad essere testimone del suo Dio il quale è verità e vuole la verità. Le offese alla verità esprimono, con parole o azioni, un rifiuto di impegnarsi nella rettitudine morale: sono profonde infedeltà a Dio e, in tal senso, scalzano le basi dell'Alleanza.

I. Vivere nella verità.

2465 - L'Antico Testamento attesta: Dio é sorgente di ogni verità. La sua Parola è verità. La sua Legge è verità. La sua «fedeltà dura per ogni generazione» (Sal 19,90). Poiché Dio è il «Verace» (Rm 3,4), i mem­bri del suo popolo sono chiamati a vivere nella verità.

2466 - In Gesù Cristo la verità di Dio si è manifestata interamente. Pie­no di grazia e di verità, egli è la «luce del mondo» (Gv 8,12), egli e la verità. Chiunque crede in lui non rimane nelle tenebre. Il discepolo di Gesù rimane fedele alla sua parola, per conoscere la verità che fa liberi e che santifica. Seguire Gesù è vivere dello Spirito di verità che il Padre manda nel suo nome e che guida «alla verità tutta inte­ra» (Gv 16,13). Ai suoi discepoli Gesù insegna l'amore incondizionato della verità: «Sia il vostro parlare si, si; no, no » (Mt 5,37).

2467 - L'uomo è naturalmente proteso alla verità. Ha il dovere di ri­spettarla e di attestarla: «A motivo della loro dignità tutti gli uomini, in quanto sono persone, [...] sono spinti dalla loro stessa natura e tenu­ti per obbligo morale a cercare la verità, in primo luogo quella concer­nente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità conosciuta e ordinare tutta la loro vita secondo le esigenze della verità».

2468 - La verità in quanto rettitudine dell'agire e del parlare umano è detta veracità, sincerità o franchezza. La verità o veracità è la virtù che consiste nel mostrarsi veri nei propri atti e nell'affermare il vero nelle proprie parole, rifuggendo dalla doppiezza, dalla simulazione e dall'ipo­crisia.

2469 - «Sarebbe impossibile la convivenza umana se gli uomini non avessero fiducia reciproca, cioè se non si dicessero la verità». La virtù della verità dà giustamente all'altro quanto gli è dovuto. La vera­cità rispetta il giusto equilibrio tra ciò che deve essere manifestato e il segreto che deve essere conservato: implica l'onestà e la discrezione. Per giustizia, «un uomo deve onestamente manifestare a un altro la verità».

2470 - Il discepolo di Cristo accetta di «vivere nella verità», cioè nella semplicità di una vita conforme all'esempio del Signore e rimanendo nella sua verità. «Se diciamo che siamo in comunione con lui e cammi­niamo nelle tenebre, mentiamo e non mettiamo in pratica la verità» (1 Gv 1,6).

II. «Rendere testimonianza alla verità».

2471 - Davanti a Pilato Cristo proclama di essere venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità. Il cristiano non deve vergognarsi «della testimonianza da rendere al Signore» (2 Tm 1,8). Nelle situazio­ni in cui si richiede che si testimoni la fede, il cristiano ha il dovere di professarla senza equivoci, come ha fatto san Paolo davanti ai suoi giu­dici. Il credente deve «conservare una coscienza irreprensibile davanti a Dio e davanti agli uomini» (At 24,16).

2472 - Il dovere dei cristiani di prendere parte alla vita della Chiesa li spinge ad agire come testimoni del Vangelo e degli obblighi che ne deri­vano. Tale testimonianza è trasmissione della fede in parole e opere. La testimonianza è un atto di giustizia che comprova o fa conoscere la verità: «Tutti i cristiani, dovunque vivono, sono tenuti a manifestare con l'e­sempio della vita e con la testimonianza della parola l'uomo nuovo, che hanno rivestito col Battesimo, e la forza dello Spirito Santo, dal quale sono stati rinvigoriti con la Confermazione».

2473 - Il martirio è la suprema testimonianza resa alla verità della fede; il martire è un testimone che arriva fino alla morte. Egli rende testimo­nianza a Cristo, morto e risorto, al quale è unito dalla carità. Rende testimonianza alla verità della fede e della dottrina cristiana. Affronta la morte con un atto di fortezza. «Lasciate che diventi pasto delle bel­ve. Solo così mi sarà concesso di raggiungere Dio».

2474 - Con la più grande cura la Chiesa ha raccolto le memorie di co­loro che, per testimoniare la fede, sono giunti sino alla fine. Si tratta degli atti dei martiri Costituiscono gli archivi della verità scritti a lette­re di sangue: «Nulla mi gioverebbe tutto il mondo e tutti i regni di quaggiù; per me è meglio morire per [unirmì a] Gesù Cristo, che essere re sino ai confini della terra. Io cerco colui che morì per noi; io voglio colui che per noi risuscitò. Il parto è imminente...». «Ti benedico per avermi giudicato degno di questo giorno e di quest'o­ra, degno di essere annoverato tra i tuoi martiri [...]. Tu hai mantenuto la tua promessa, o Dio della fedeltà e della verità. Per questa grazia e per tutte le cose, ti lodo, ti benedico, ti rendo gloria per mezzo di Gesù Cristo, Sacerdote eterno e onnipotente, Figlio tuo diletto. Per lui, che vive e regna con te e con lo Spirito, sia gloria a te, ora e nei secoli dei secoli. Amen».

III. Le offese alla verità.

2475 - I discepoli di Cristo hanno rivestito «l'uomo nuovo, creato se­condo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,24). «Deposta la menzogna» (Ef 4,25), essi devono respingere «ogni malizia e ogni frode e ipocrisia, le gelosie e ogni maldicenza» (1 Pt 2,1).

2476 - Falsa testimonianza e spergiuro. Un'affermazione contraria alla verità, quando è fatta pubblicamente, riveste una gravità particolare. Fatta davanti ad un tribunale, diventa una falsa testimonianza. Quan­do la si fa sotto giuramento, è uno spergiuro. Simili modi dì compor­tarsi contribuiscono sia alla condanna di un innocente sia alla assolu­zione di un colpevole, oppure ad aggravare la pena in cui è incorso l'accusato. Compromettono gravemente l'esercizio della giustizia e l'equità della sentenza pronunciata dai giudici.

2477 - Il rispetto della reputazione delle persone rende illecito ogni atteg­giamento ed ogni parola che possano causare un ingiusto danno. Si rende colpevole: di giudizio temerario colui che, anche solo tacitamente, ammette co­me vera, senza sufficiente fondamento, una colpa morale nel prossimo; di maldicenza colui che, senza un motivo oggettivamente valido, rivela i difetti e le mancanze altrui a persone che li ignorano; di calunnia colui che, con affermazioni contrarie alla verità, nuoce alla reputazione degli altri e dà occasione a giudizi erronei sul loro conto.

2478 - Per evitare il giudizio temerario, ciascuno cercherà di interpreta­re, per quanto è possibile, in un senso favorevole i pensieri, le parole e le azioni del suo prossimo: «Ogni buon cristiano deve essere più disposto a salvare l'espressione oscura del prossimo che a condannarla; e se non la può salvare, cerchi di sapere quale significato egli le dà; e, se le desse un significato erroneo, lo corregga con amore; e, se non basta, cerchi tutti i mezzi adatti perché, dandole il significato giusto, si salvi dall'errore».

2479 - Maldicenze e calunnie distruggono la reputazione e l'onore del prossimo. Ora, l'onore è la testimonianza sociale resa alla dignità uma­na, e ognuno gode di un diritto naturale all'onore del proprio nome, alla propria reputazione e al rispetto. Perciò la maldicenza e la calunnia offendono le virtù della giustizia e della carità.

2480 - È da bandire qualsiasi parola o atteggiamento che, per lusinga, adulazione o compiacenza, incoraggi e confermi altri nella malizia dei lo­ro atti e nella perversità della loro condotta. L'adulazione è una colpa grave se si fa complice di vizi o di peccati gravi. Il desiderio di rendersi utile o l'amicizia non giustificano una doppiezza del linguaggio. L'adu­lazione è un peccato veniale quando nasce soltanto dal desiderio di riu­scire gradito, evitare un male, far fronte ad una necessità, conseguire vantaggi leciti

2481 - La iattanza o millanteria costituisce una colpa contro la verità. Ciò vale anche per l'ironia che tende ad intaccare l'apprezzamento di qualcuno caricaturando, in maniera malevola, qualche aspetto del suo comportamento.

2482 - «La menzogna consiste nel dire il falso con l'intenzione di ingan­nare». Nella menzogna il Signore denuncia un'opera diabolica: «Voi [...] avete per padre il diavolo (…). Non vi è verità in lui. Quando dice il falso, parla del suo, perché è menzognero e padre della menzogna» (Gv 8,44).

2483 - La menzogna è l'offesa più diretta alla verità. Mentire è parlare o agire contro la verità per indurre in errore. Ferendo il rapporto del­l'uomo con la verità e con il suo prossimo, la menzogna offende la re­lazione fondamentale dell'uomo e della sua parola con il Signore.

2484 - La gravità della menzogna si commisura alla natura della verità che essa deforma, alle circostanze, alle intenzioni del mentitore, ai dan­ni subiti da coloro che ne sono vittime. Se la menzogna, in sé, non co­stituisce che un peccato veniale, diventa mortale quando lede in modo grave le virtù della giustizia e della carità.

2485 - La menzogna è per sua natura condannabile. È una profanazio­ne della parola, la cui funzione è di comunicare ad altri la verità cono­sciuta. Il proposito deliberato di indurre il prossimo in errore con affer­mazioni contrarie alla verità costituisce una mancanza in ordine alla giustizia e alla carità. La colpevolezza è maggiore quando l'intenzione di ingannare rischia di avere conseguenze funeste per coloro che sono sviati dal vero.

2486 - La menzogna (essendo una violazione della virtù della veracità) è un'autentica violenza fatta all'altro. Lo colpisce nella sua capacità di conoscere, che è la condizione di ogni giudizio e di ogni decisione. Contiene in germe la divisione degli spiriti e tutti i mali che questa genera. La menzogna è dannosa per ogni società; scalza la fiducia tra gli uomini e lacera il tessuto delle relazioni sociali.

2487 - Ogni colpa commessa contro la giustizia e la verità impone il do­vere di riparazione, anche se il colpevole è stato perdonato. Quando è impossibile riparare un torto pubblicamente, bisogna farlo in privato; a colui che ha subito un danno, qualora non possa essere risarcito diret­tamente, va data soddisfazione moralmente, in nome della carità. Tale dovere di riparazione riguarda anche le colpe commesse contro la reputazione altrui. La riparazione, morale e talvolta materiale, deve essere commisurata al danno che è stato arrecato. Essa obbliga in coscienza.

IV. Il rispetto della verità.

2488 - Il diritto alla comunicazione della verità non è incondizionato. Ognuno deve conformare la propria vita al precetto evangelico dell'a­more fraterno. Questo richiede, nelle situazioni concrete, che si vagli se sia opportuno o no rivelare la verità a chi la domanda.

2489 - La carità e il rispetto della verità devono suggerire la risposta ad ogni richiesta di informazione o di comunicazione. Il bene e la sicurezza altrui, il rispetto della vita privata, il bene comune sono motivi suffi­cienti per tacere ciò che è opportuno che non sia conosciuto, oppure per usare un linguaggio discreto. Il dovere di evitare lo scandalo spesso esige una discrezione rigorosa. Nessuno è tenuto a palesare la verità a chi non ha il diritto di conoscerla.

2490 - Il segreto del sacramento della Riconciliazione è sacro, e non può essere violato per nessun motivo. «Il sigillo sacramentale è inviolabile; pertanto non è assolutamente lecito al confessore tradire anche solo in parte il penitente con parole o in qualunque altro modo e per qualsiasi causa».

2491 - I segreti proféssionali - di cui sono in possesso, per esempio, uo­mini politici, militari, medici e giuristi - o le confidenze fatte sotto il si­gillo del segreto, devono essere serbati, tranne i casi eccezionali in cui la custodia del segreto dovesse causare a chi li confida, a chi ne viene messo a parte, o a terzi danni molto gravi ed evitabili soltanto median­te la divulgazione della verità. Le informazioni private dannose per al­tri, anche se non sono state confidate sotto il sigillo del segreto, non devono essere divulgate senza un motivo grave e proporzionato.

2492 - Ciascuno deve osservare il giusto riserbo riguardo alla vita priva­ta delle persone. I responsabili della comunicazione devono mantenere un giusto equilibrio tra le esigenze del bene comune e il rispetto dei diritti particolari. L'ingerenza dell'informazione nella vita privata di persone impegnate in un'attività politica o pubblica è da condannare nella misura in cui viola la loro intimità e la loro libertà.

V. L'uso dei mezzi di comunicazione sociale.

2493 - Nella società moderna i mezzi di comunicazione sociale hanno un ruolo di singolare importanza nell'informazione, nella promozione culturale e nella formazione. Tale ruolo cresce in rapporto ai progressi tecnici, alla ricchezza e alla varietà delle notizie trasmesse, all'influenza esercitata sull'opinione pubblica.

2494 - L'informazione attraverso i mass-media è al servizio del bene co­mune. La società ha diritto ad un'informazione fondata sulla verità, la libertà, la giustizia e la solidarietà: «Il retto esercizio di questo diritto richiede che la comunicazione nel suo contenuto sia sempre vera e, salve la giustizia e la carità, integra; inoltre, nel modo, sia onesta e conveniente, cioè rispetti scrupolosamen­te le leggi morali, i legittimi diritti e la dignità dell'uomo, sia nella ri­cerca delle notizie, sia nella loro divulgazione.

2495 - «E’ necessario che tutti i membri della società assolvano, anche in questo settore, i propri doveri di giustizia e di carità. Perciò si adoperino, anche me­diante l'uso di questi strumenti, a formare e a diffondere opinioni pubbliche rette». La solidarietà appare come una conseguenza di una comunicazione ve­ra e giusta, e di una libera circolazione delle idee, che favoriscono la conoscen­za ed il rispetto degli altri.

2496 - I mezzi di comunicazione sociale (in particolare i mass-media) possono generare una certa passività nei recettori, rendendoli consumatori poco vigili di messaggi o di spettacoli. Di fronte ai mass-media i fruitori si imporranno mo­derazione e disciplina. Si sentiranno in dovere di formarsi una coscienza illumi­nata e retta, al fine di resistere più facilmente alle influenze meno oneste.

2497 - Proprio per i doveri relativi alla loro professione, i responsabili della stampa hanno l'obbligo, nella diffusione dell'informazione, di servire la verità e di non offendere la carità. Si sforzeranno di rispettare, con pari cura, la natura dei fatti e i limiti del giudizio critico sulle persone. Devono evitare di cadere nella diffamazione

2498 - «Particolari doveri in questo settore incombono sull'autorità civile in vi­sta del bene comune [...]. E infatti compito della stessa autorità, nel suo pro­prio ambito, difendere e proteggere [...] la vera e giusta libertà di informazio­ne». Mediante la promulgazione di leggi e l'efficace loro applicazione il potere pubblico provvederà affinché dall'abuso dei media «non derivino gravi danni alla moralità pubblica e al progresso della società. L'autorità civile punirà la violazione dei diritti di ciascuno alla reputazione e al segreto intorno alla vita privata. A tempo debito e onestamente fornirà le informazioni che riguardano il bene generale o danno risposta alle fondate inquietudini della popolazione. Nulla può giustificare il ricorso a false informazioni per manipolare, mediante i mass-media, l'opinione pubblica. Non si attenterà, con simili interventi, alla libertà degli individui e dei gruppi.

2499 - Il senso morale denuncia la piaga degli stati totalitari che sistematica­mente falsano la verità, esercitano mediante i mass-media un'egemonia politica sull'opinione pubblica, «manipolano » gli accusati e i testimoni di processi pub­blici e credono di consolidare il loro dispotismo soffocando o reprimendo tutto ciò che essi considerano come «delitti d'opinione».

VI. Verità, bellezza e arte sacra.

2500 - La pratica del bene si accompagna ad un piacere spirituale gra­tuito e alla bellezza morale. Allo stesso modo, la verità è congiunta alla gioia e allo splendore della bellezza spirituale. La verità è bella per se stessa. All'uomo, dotato d'intelligenza, è necessaria la verità della paro­la, espressione razionale della conoscenza della realtà creata ed increata; ma la verità può anche trovare altre forme di espressione umana, com­plementari, soprattutto quando si tratta di evocare ciò che essa com­porta di indicibile, le profondità del cuore umano, le elevazioni dell'ani­ma, il mistero di Dio. Ancora prima di rivelarsi all'uomo mediante pa­role di verità, Dio si rivela a lui per mezzo del linguaggio universale della creazione, opera della sua Parola, della sua Sapienza: dall'ordine e dall'armonia del cosmo, che sia il bambino sia lo scienziato sanno sco­prire, «dalla grandezza e bellezza delle creature per analogia si conosce l'autore» (Sap 13,5), «perché li ha creati lo stesso autore della bellezza» (Sap 13,3). «La Sapienza è un'emanazione della potenza di Dio, un effluvio genui­no della gloria dell'Onnipotente, per questo nulla di contaminato in es­sa si infiltra. É un riflesso della luce perenne, uno specchio senza mac­chia dell'attività di Dio e un'immagine della sua bontà» (Sap 7,25-26). Essa in realtà è più bella del sole e supera ogni costellazione di astri; paragonata alla luce, risulta superiore; a questa, infatti, succede la not­te, ma contro la Sapienza la malvagità non può prevalere» (Sap 7,29-30). «Mi sono innamorato della sua bellezza» (Sap 8,2).

2501 - «Creato ad immagine di Dio», l'uomo esprime la verità del suo rapporto con Dio Creatore anche mediante la bellezza delle proprie opere artistiche. L'arte, invero, è una forma di espressione propriamente umana. Al di là dell'inclinazione a soddisfare le necessità vitali, comune a tutte le creature viventi, essa è una sovrabbondanza gratuita della ric­chezza interiore dell'essere umano. Frutto di un talento donato dal Creatore e dello sforzo dell'uomo, l'arte è una forma di sapienza prati­ca che unisce intelligenza e abilità per esprimere la verità di una real­tà nel linguaggio accessibile alla vista o all'udito. L'arte comporta inol­tre una certa somiglianza con l'attività di Dio nel creato, nella misura in cui trae ispirazione dalla verità e dall'amore per gli esseri. Come ogni altra attività umana, l'arte non ha in sé il proprio fine assoluto, ma è ordinata al fine ultimo dell'uomo e da esso nobilitata.

2502 - L'arte sacra è vera e bella quando, nella sua forma, corrisponde alla vocazione che le è propria: evocare e glorificare, nella fede e nella adorazione, il mistero trascendente di Dio, bellezza eccelsa di verità e di amore, apparsa in Cristo «irradiazione della sua gloria e impronta del­la sua sostanza» (Eb 1,3), nel quale «abita corporalmente tutta la pie­nezza della divinità» (Col 2,9), bellezza spirituale riflessa nella santissi­ma Vergine Maria, negli angeli e nei santi. L'autentica arte sacra con­duce l'uomo all'adorazione, alla preghiera e all'amore di Dio Creatore e Salvatore, Santo e Santificatore.

2503 - Per questo i Vescovi, personalmente o per mezzo di delegati, devono prendersi cura di promuovere l'arte sacra, antica e moderna, in tutte le sue for­me, e di tenere lontano, con il medesimo zelo, dalla liturgia e dagli edifici del culto, tutto ciò che non è conforme alla verità della fede e all'autentica bellezza dell'arte sacra.

In sintesi

2504 - «Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo» (Es 20,16). I discepoli di Cristo hanno rivestito «l'uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,24).

2505 - La verità o veracità é la virtù che consiste nel mostrarsi veri nelle proprie azioni e nell'esprimere il vero nelle proprie parole, rifuggen­do dalla doppiezza, dalla simulazione e dall'ipocrisia.

2506 - Il cristiano non deve vergognarsi «della testimonianza da rendere al Signore» (2 Tm 1,8) in atti e parole. Il martirio é la suprema testi­monianza resa alla verità della fede.

2507 - Il rispetto della reputazione e dell'onore delle persone proibisce ogni atteggiamento o parola di maldicenza o di calunnia.

2508 - La menzogna consiste nel dire il falso con l'intenzione di ingannare il prossimo

2509 - Una colpa commessa contro la verità esige riparazione.

2510 - La regola d'oro aiuta a discernere, nelle situazioni concrete, se sia o non sia opportuno palesare la verità a chi la domanda.

2511 - «Il sigillo sacramentale é inviolabile». I segreti professionali van­no serbati. Le confidenze pregiudizievoli per altri non devono essere divulgate.

2512 - La società ha diritto a un'informazione fondata sulla verità, sulla li­bertà, sulla giustizia. È opportuno imporsi.

2513 - Le belle arti, ma soprattutto l'arte sacra, «per loro natura, hanno relazione con l'infinita bellezza divina, che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell'uomo, e sono tanto più orientate a Dio e all'incremento della sua lode e della sua gloria, in quanto nes­sun altro fine é loro assegnato se non di contribuire quanto più effi­cacemente possibile, con le loro opere, a indirizzare pienamente le menti degli uomini a Dio».

Articolo 9

IL NONO COMANDAMENTO

«Non desiderare la casa del tuo prossimo. Non desiderare la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17). «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulte­rio con lei nel suo cuore» (Mt 5,28).

2514 - San Giovanni distingue tre tipi di smodato desiderio o concupi­scenza: la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita. Secondo la tradizione catechistica cattolica, il nono comandamento proibisce la concupiscenza carnale; il decimo la concupi­scenza dei beni altrui.

2515 - La «concupiscenza», nel senso etimologico, può designare ogni forma veemente di desiderio umano. La teologia cristiana ha dato a questa parola il significato specifico di moto dell'appetito sensibile che si oppone ai dettami della ragione umana. L'Apostolo san Paolo la identifica con l'opposizione della «carne» allo «spirito». È conse­guenza della disobbedienza del primo peccato. Ingenera disordine nelle facoltà morali dell'uomo e, senza essere in se stessa una colpa, inclina l'uomo a commettere il peccato.

2516 - Già nell'uomo, essendo un essere composto, spirito e corpo, esiste una certa tensione, si svolge una certa lotta di tendenze tra lo «spiri­to» e la «carne». Ma essa di fatto appartiene all'eredità del peccato, ne è una conseguenza e, al tempo stesso, una conferma. Fa parte del­l'esperienza quotidiana del combattimento spirituale: «Per l'Apostolo non si tratta di discriminare e di condannare il corpo, che con l'anima spirituale costituisce la natura dell'uomo e la sua sog­gettività personale; egli si occupa invece delle opere, o meglio delle sta­bili disposizioni - virtù e vizi moralmente buone o cattive, che sono frutto di sottomissione (nel primo caso) oppure di resistenza (nel secon­do) all'azione salvifica dello Spirito Santo. Perciò l'Apostolo scrive: “Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spinto” Gal 5,25».

I. La purificazione del cuore.

2517 - Il cuore é la sede della personalità morale: «Dal cuore proven­gono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adultèri, le prostituzioni» (Mt 15,19). La lotta contro la concupiscenza carnale passa attraverso la purificazione del cuore e la pratica della temperanza: «Conservati nella semplicità, nell'innocenza, e sarai come i bambini, i quali non conoscono il male che devasta la vita degli uomini».

2518 - La sesta beatitudine proclama: «Beati i puri di cuore, perché ve­dranno Dio» (Mt 5,8). I «puri di cuore» sono coloro che hanno ac­cordato la propria intelligenza e la propria volontà alle esigenze della santità di Dio, in tre ambiti soprattutto: la carità la castità o rettitu­dine sessuale l'amore della verità e l'ortodossia della fede. C'è un legame tra la purezza del cuore, del corpo e della fede: i fedeli devono credere gli articoli del Simbolo, «affinché credendo, ob­bediscano a Dio; obbedendo, vivano onestamente; vivendo onestamente, purifichino il loro cuore, e purificando il loro cuore, compren­dano quanto credono».

2519 - Ai «puri di cuore» è promesso che vedranno Dio faccia a faccia e che saranno simili a lui. La purezza del cuore è la condizione preli­minare per la visione. Fin d'ora essa ci permette di vedere secondo Dio di accogliere l'altro come un «prossimo»; ci consente di percepire il corpo umano, il nostro e quello del prossimo, come un tempio dello Spirito Santo, una manifestazione della bellezza divina.

Il. La lotta per la purezza.

2520 - Il Battesimo conferisce a colui che lo riceve la grazia della purifi­cazione da tutti i peccati. Ma il battezzato deve continuare a lottare contro la concupiscenza della carne e i desideri disordinati. Con la grazia di Dio giunge alla purezza del cuore: mediante la virtù e il dono della castità, perché la castità permette di amare con un cuore retto e indiviso; mediante la purezza d'intenzione che consiste nel tenere sempre pre­sente il vero fine dell'uomo: con un occhio semplice, il battezzato cerca di trovare e di compiere in tutto la volontà di Dio; mediante la purezza dello sguardo, esteriore ed interiore; mediante la disciplina dei sentimenti e dell'immaginazione; mediante il rifiuto di ogni compiacenza nei pensieri impuri, che inducono ad allontanarsi dalla via dei divini comandamenti: «La vista provoca negli stolti il desiderio» (Sap 15,5); mediante la preghiera: «Pensavo che la continenza si ottenesse con le proprie forze e delle mie non ero sicuro. A tal segno ero stolto da ignorare che [...] nessuno può essere continente, se tu non lo concedi. E tu l'avresti concesso, se avessi bussato alle tue orecchie col gemito del mio cuore e lanciato in te la mia pena con fede salda».

2521 - La purezza esige il pudore. Esso è una parte integrante della tem­peranza. Il pudore preserva l'intimità della persona. Consiste nel rifiuto di svelare ciò che deve rimanere nascosto. E’ ordinato alla castità, di cui esprime la delicatezza. Regola gli sguardi e i gesti in conformità alla dignità delle persone e della loro unione.

2522 - Il pudore custodisce il mistero delle persone e del loro amore. Suggerisce la pazienza e la moderazione nella relazione amorosa; richie­de che siano rispettate le condizioni del dono e dell'impegno definitivo dell'uomo e della donna tra loro. Il pudore è modestia. Ispira la scelta dell'abbigliamento. Conserva il silenzio o il riserbo là dove traspare il rischio di una curiosità morbosa. Diventa discrezione.

2523 - Esiste non soltanto un pudore dei sentimenti, ma anche del corpo. Insor­ge, per esempio, contro l'esposizione del corpo umano in funzione di una curiosità morbosa in certe pubblicità, o contro la sollecitazione di certi mass-media a spingersi troppo in là nella rivelazione di confidenze intime. Il pudore detta un modo di vivere che consente di resistere alle suggestioni della moda e alle pressioni delle ideologie dominanti.

2524 - Le forme che il pudore assume variano da una cultura all'altra. Dovun­que, tuttavia, esso appare come il presentimento di una dignità spirituale pro­pria dell'uomo. Nasce con il risveglio della coscienza del soggetto. Insegnare il pudore ai fanciulli e agli adolescenti è risvegliare in essi il rispetto della persona umana.

2525 - La purezza cristiana richiede una purificazione dell'ambiente socia­le. Esige dai mezzi di comunicazione sociale un'informazione attenta al rispetto e alla moderazione. La purezza del cuore libera dal diffuso erotismo e tiene lontani dagli spettacoli che favoriscono la curiosità morbosa e l'illusione.

2526 - La cosiddetta permissività dei costumi si basa su una erronea concezione della libertà umana. La libertà, per costruirsi, ha bisogno di lasciarsi educare preliminarmente dalla legge morale. E’ necessario chiedere ai responsabili dell'educazione di impartire alla gioventù un insegnamento rispettoso della verità, delle qualità del cuore e della dignità morale e spirituale dell'uomo.

2527 - «La Buona Novella di Cristo rinnova continuamente la vita e la cultura dell'uomo decaduto, combatte e rimuove gli errori e i mali deri­vanti dalla sempre minacciosa seduzione del peccato. Continuamente purifica ed eleva la moralità dei popoli. Con la ricchezza soprannatura­le, feconda come dall'interno, fortifica, completa e restaura in Cristo le qualità dello spirito e le doti di ciascun popolo e di ogni età».

In sintesi

2528 - «Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5,28).

2529 - Il nono comandamento mette in guardia dal desiderio smodato o concupiscenza carnale.

2530 - La lotta contro la concupiscenza carnale passa attraverso la purificazione del cuore e la pratica della temperanza.

2531 - La purezza del cuore ci farà vedere Dio: fin d'ora ci consente di vedere ogni cosa secondo Dio.

2532 - La purificazione del cuore esige la preghiera, la pratica della casti­tà, la purezza dell'intenzione e dello sguardo.

2533 - La purezza del cuore richiede il pudore, che e' pazienza, modestia e discrezione. Il pudore custodisce l'intimità della persona.

Articolo 10

IL DECIMO COMANDAMENTO

«Non desiderare [...] alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo» (Es 20,17). «Non desiderare la casa del tuo prossimo, né il suo campo, né il suo schiavo, né la sua schiava, né il suo bue, né il suo asino, né alcuna del­le cose che sono del tuo prossimo» (Dt 5,21). «Là dov'é il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21).

2534 - Il decimo comandamento sdoppia e completa il nono, che verte sulla concupiscenza della carne. Il decimo proibisce la cupidigia dei be­ni altrui, che è la radice del furto, della rapina e della frode, vietati dal settimo comandamento. «La concupiscenza degli occhi» (1 Gv 2,16) porta alla violenza e all'ingiustizia, proibite dal quinto comandamento. La bramosia, come la fornicazione, trova origine nell'idolatria vietata nelle prime tre prescrizioni della Legge. Il decimo comandamento riguarda l'intenzione del cuore; insieme con il nono riassume tutti i pre­cetti della Legge.

I. Il disordine delle cupidigie.

2535 - L'appetito sensibile ci porta a desiderare le cose piacevoli che non abbiamo. Così, quando si ha fame si desidera mangiare, quando si ha freddo si desidera riscaldarsi. Tali desideri, in se stessi, sono buoni; ma spesso non restano nei limiti della ragione e ci spingono a bramare ingiustamente ciò che non ci spetta e appartiene, o è dovuto ad altri.

2536 - Il decimo comandamento proibisce l'avidità e il desiderio di appropriarsi senza misura dei beni terreni; vieta la cupidigia sregolata, generata dalla smodata brama delle ricchezze e del potere in esse insito. Proibisce anche il desiderio di commettere un'ingiustizia, con la quale si danneggerebbe il prossimo nei suoi beni temporali: «La formula: Non desiderare è come un avvertimento generale che ci spinge a moderare il desiderio e l'avidità delle cose altrui. C'è infatti in noi una latente sete di cupidigia per tutto ciò che non è nostro; sete mai sazia, di cui la Sacra Scrittura scrive: L'avaro non sarà mai sazio del suo denaro (Qo 5,9)».

2537 - Non si trasgredisce questo comandamento desiderando ottenere cose che appartengono al prossimo, purché ciò avvenga con giusti mez­zi. La catechesi tradizionale indica con realismo «coloro che maggior­mente devono lottare contro le cupidigie peccaminose» e che, dunque, «devono con più insistenza essere esortati ad osservare questo coman­damento»: «Sono, cioè, quei commercianti e quegli approvvigionatori di mercati che aspettano la scarsità delle merci e la carestia per trarne un profitto con ac­caparramenti e speculazioni; [...] quei medici che aspettano con ansia le malattie; quegli avvocati e magistrati desiderosi di cause e di liti...».

2538 - Il decimo comandamento esige che si bandisca dal cuore umano l'invidia. Allorché il profeta Natan volle suscitare il pentimento del re Davide, gli narrò la storia del povero che possedeva soltanto una peco­ra, la quale era per lui come una figlia, e del ricco che, malgrado aves­se bestiame in gran numero, invidiava quel povero e finì per portargli via la sua pecora. L'invidia può condurre ai peggiori misfatti. «La morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo» (Sap 2,24): «Noi ci facciamo guerra vicendevolmente, ed è l'invidia ad amarci gli uni contro gli altri. [...] Se tutti si accaniscono cosi a far vacillare il corpo di Cristo, dove si arriverà? Siamo quasi in procinto di snervarlo. [...] Ci diciamo membra di un medesimo Organismo e ci divoriamo come farebbero le belve».

2539 - L'invidia è un vizio capitale. Consiste nella tristezza che si prova davanti ai beni altrui e nel desiderio smodato di appropriarsene, sia pu­re indebitamente. Quando arriva a volere un grave male per il prossi­mo, l'invidia diventa peccato mortale: Sant'Agostino vedeva nell'invidia «il peccato diabolico per eccellenza «Dall'invidia nascono l'odio, la maldicenza, la calunnia, la gioia causa­ta dalla sventura del prossimo e il dispiacere causato dalla sua fortuna».

2540 - L'invidia rappresenta una delle forme della tristezza e quindi un rifiuto della carità; il battezzato lotterà contro l'invidia mediante la benevolenza. L'invidia spesso è causata dall'orgoglio; il battezzato si impegnerà a vivere nell'umiltà. «Vorreste vedere Dio glorificato da voi? Ebbene, rallegratevi dei pro­gressi del vostro fratello, ed ecco che Dio sarà glorificato da voi. Dio sarà lodato si dirà - dalla vittoria sull'invidia riportata dal suo servo, che ha saputo fare dei meriti altrui il motivo della propria gioia.

I. I desideri dello Spirito.

2541 - L'economia della Legge e della grazia libera il cuore degli uo­mini dalla cupidigia e dall'invidia: lo rivolge al desiderio del sommo Bene; lo apre ai desideri dello Spirito Santo, che appaga il cuore umano. Il Dio delle promesse da sempre ha messo in guardia l'uomo dalla seduzione di ciò che, fin dalle origini, appare «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza» (Gn 3,6).

2542 - La Legge data a Israele non è mai bastata a giustificare coloro che le erano sottomessi; anzi, è diventata lo strumento della «concupi­scenza». Il fatto che il volere e il fare non coincidano indica il conflitto tra la Legge di Dio, la quale è la legge della mente, e un'altra legge «che mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra» (Rtn 7,23).

2543 - «Ora, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono» (Rm 3,21-22). Da allora i credenti in Cristo «hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri» (GaI 5,24); essi sono guidati dallo Spirito e seguono i desideri dello Spirito.

III. La povertà di cuore.

2544 - Ai suoi discepoli Gesù chiede di preferire lui a tutto e a tutti, e propone di rinunziare a tutti i loro averi per lui e per il Vangelo. Poco prima della sua passione ha additato loro come esempio la povera vedova di Gerusalemme, la quale, nella sua miseria, ha dato tutto quanto aveva per vivere. Il precetto del distacco dalle ricchezze è vincolante per entrare nel regno dei cieli.

2545 - Tutti i fedeli devono sforzarsi «di rettamente dirigere i propri af­fetti, affinché dall'uso delle cose di questo mondo e dall'attaccamento alle ricchezze, contrario allo spirito della povertà evangelica, non siano impediti di tendere alla carità perfetta.

2546 - «Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3). Le beatitudini rivelano un ordine di felicità e di grazia, di bellezza e di pace. Gesù esalta la gioia dei poveri, ai quali già appartiene il Regno: «Il Verbo chiama povertà di spirito l'umiltà volontaria dell'animo uma­no, e l'Apostolo ci addita come esempio la povertà di Dio quando dice: Da ricco che era, si è fatto povero per noi (2 Cor 8,9)».

2547- Il Signore apostrofa i ricchi, perché trovano la loro consolazione nell'abbondanza dei beni. «Il superbo cerca la potenza terrena, mentre il povero in spirito cerca il regno dei cieli». L'abbandono alla provvidenza del Padre del cielo libera dall'apprensione per il domani. La fi­ducia in Dio prepara alla beatitudine dei poveri. Essi vedranno Dio.

IV. «Voglio vedere Dio».

2548 - Il desiderio della vera felicità libera l'uomo dallo smodato attac­camento ai beni di questo mondo, per avere compimento nella visione e nella beatitudine di Dio. «La promessa di vedere Dio supera ogni feli­cità. [...] Nella Scrittura, vedere equivale a possedere (…). Chi vede Dio, ha conseguito tutti i beni che si possono concepire».

2549 - Il popolo santo deve lottare, con la grazia che viene dall'alto, per ottenere i beni che Dio promette. Per possedere e contemplare Dio, i cristiani mortificano le loro brame e trionfano, con la grazia di Dio, sulle seduzioni del piacere e del potere.

2550 - Lungo questo cammino della perfezione, lo Spirito e la Sposa chiamano chi li ascolta alla piena comunione con Dio: «Là sarà la vera gloria, dove nessuno verrà lodato per sbaglio o per adulazione; il vero onore, che non sarà rifiutato a nessuno che ne sia degno, non sarà riconosciuto a nessuno che ne sia indegno; né d'altra parte questi potrebbe pretenderlo, perché vi sarà ammesso solo chi è degno. Vi sarà la vera pace, dove nessuno subirà avversità da parte di se stesso o da parte di altri. Premio della virtù sarà colui che diede la virtù e che promise se stesso come ciò del quale non può esservi nulla di migliore e di più grande. (…) “'Sarò vostro Dio e voi sarete il mio popolo” (Lv 26,12) (…). Ancora questo indicano (…) le parole dell'Apo­stolo: “Perchè Dio sia tutto in tutti!” (1 Cor 15,28). Egli sarà il fine di tutti i nostri desideri, contemplato senza fine, amato senza fastidio, lo­dato senza stanchezza. Questo dono, questo affetto, questo atto sarà certamente comune a tutti, come la stessa vita eterna».

In sintesi

2551 - «Là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21).

2552 - Il decimo comandamento proibisce la sfrenata cupidigia, generata dalla brama smodata delle ricchezze e del potere insito in esse.

2553 - L'invidia é la tristezza che si prova davanti ai beni altrui e l'irresi­stibile desiderio di appropriarsene. E’ un vizio capitale.

2554 - Il battezzato combatte l'invidia con la benevolenza, l'umiltà e l'ab­bandono alla provvidenza di Dio.

2555 - I cristiani «hanno crocifisso la carne con le sue passioni e i suoi desideri» (Gal 5,24); sono guidati dallo Spirito e seguono i suoi desideri.

2556 - Il distacco dalle ricchezze é indispensabile per entrare nel regno dei cieli. «Beati i poveri in spirito» (Mt 5,3).

2557 - Il vero desiderio dell'uomo è: «Voglio vedere Dio». La sete di Dio è estinta dall'acqua della vita eterna.

 

PARTE QUARTA

LA PREGHIERA CRISTIANA

 

SEZIONE PRIMA

LA PREGHIERA DELLA VITA CRISTIANA

CHE COS’E’ LA PREGHIERA?

«Per me la preghiera è uno slancio del cuore, è un semplice sguardo gettato verso il cielo, è un grido di riconoscenza e di amore nella prova come nella gioia».

LA PREGHIERA COME DONO DI DIO

2559 - «La preghiera è l'elevazione dell'anima a Dio o la domanda a Dio di beni convenienti». Da dove partiamo pregando? Dall'altezza del nostro orgoglio e della nostra volontà o «dal profondo» (SaI 130,1) di un cuore umile e contrito? È colui che si umilia ad essere esaltato. L'umiltà è il fondamento della preghiera. «Nemmeno sappia­mo che cosa sia conveniente domandare» (Rm 8,26). L'umiltà è la di­sposizione necessaria per ricevere gratuitamente il dono della preghiera: l'uomo è un mendicante di Dio.

2560 - «Se tu conoscessi il dono di Dio!» (Gv 4,10). La meraviglia del­la preghiera si rivela proprio là, presso i pozzi dove andiamo a cercare la nostra acqua: là Cristo viene ad incontrare ogni essere umano; egli ci cerca per primo ed è lui che ci chiede da bere. Gesù ha sete; la sua domanda sale dalle profondità di Dio che ci desidera. Che lo sappiamo o non lo sappiamo, la preghiera è l'incontro della sete di Dio con la nostra sete. Dio ha sete che noi abbiamo sete di lui.

2561 - «Tu gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva» (Gv 4,10). La nostra preghiera di domanda è paradossalmente una ri­sposta. Risposta al lamento del Dio vivente: «Essi hanno abbandonato me, sorgente d'acqua viva, per scavarsi cisterne, cisterne screpolate» (Ger 2,13), risposta di fede alla promessa gratuita di salvezza, risposta d'amore alla sete del Figlio unigenito.

LA PREGHIERA COME ALLEANZA

2562 - Da dove viene la preghiera dell'uomo? Qualunque sia il linguaggio della preghiera (gesti e parole), è tutto l'uomo che prega. Ma, per indicare il luogo dal quale sgorga la preghiera, le Scritture parlano talvolta dell’anima o dello spirito, più spesso del cuore (più di mille volte). È il cuore che prega. Se esso è lontano da Dio, l'espressione della preghiera è vana.

2563 - Un cuore è la dimora dove sto, dove abito (secondo l'espressione semitica o biblica: dove «discendo»). E’ il nostro centro nascosto, ir­raggiungibile dalla nostra ragione e dagli altri; solo lo Spirito di Dio può scrutarlo e conoscerlo. E’ il luogo della decisione, che sta nel più profondo delle nostre facoltà psichiche. E’ il luogo della verità, là dove scegliamo la vita o la morte. E’ il luogo dell'incontro, poiché, ad imma­gine di Dio, viviamo in relazione: è il luogo dell'alleanza.

2564 - La preghiera cristiana è una relazione di alleanza tra Dio e l'uo­mo in Cristo. È azione di Dio e dell'uomo; sgorga dallo Spirito Santo e da noi, interamente rivolta al Padre, in unione con la volontà umana del Figlio di Dio fatto uomo.

LA PREGHIERA COME COMUNIONE

2565 - Nella Nuova Alleanza la preghiera è la relazione vivente dei figli di Dio con il loro Padre infinitamente buono, con il Figlio suo Gesù Cristo e con lo Spirito Santo. La grazia del Regno è «l'unione della Santa Trinità tutta intera con lo spirito tutto intero». La vita di pre­ghiera consiste quindi nell'essere abitualmente alla presenza del Dio tre volte Santo e in comunione con lui. Tale comunione di vita è sempre possibile, perché, mediante il Battesimo, siamo diventati un medesimo essere con Cristo. La preghiera è cristiana in quanto è comunione con Cristo e si dilata nella Chiesa, che è il suo corpo. Le sue dimensioni so­no quelle dell'amore di Cristo.

CAPITOLO PRIMO

LA RIVELAZIONE DELLA PREGHIERA

 

LA CHIAMATA UNIVERSALE ALLA PREGHIERA

2566 - L'uomo é alla ricerca di Dio. Mediante la creazione Dio chiama ogni essere dal nulla all'esistenza. Coronato di gloria e di splendore, l'uomo, dopo gli angeli, è capace di riconoscere che il nome del Signore è grande su tutta la terra. Anche dopo aver perduto la somi­glianza con Dio a causa del peccato, l'uomo rimane ad immagine del suo Creatore. Egli conserva il desiderio di colui che lo chiama all'esi­stenza. Tutte le religioni testimoniano questa essenziale ricerca da parte degli uomini.

2567 - Dio, per primo, chiama l'uomo. Sia che l'uomo dimentichi il suo Creatore oppure si nasconda lontano dal suo volto, sia che corra dietro ai propri idoli o accusi la divinità di averlo abbandonato, il Dio vivo e vero chiama incessantemente ogni persona al misterioso incontro della preghiera. Questo passo d'amore del Dio fedele viene sempre per primo nella preghiera; il passo dell'uomo è sempre una risposta. A mano a mano che Dio si rivela e rivela l'uomo a se stesso, la preghiera appare come un appello reciproco, un evento di alleanza. Attraverso parole e atti, questo evento impegna il cuore. Si svela lungo tutta la storia della salvezza.

Articolo 1

NELL'ANTICO TESTAMENTO

2568 - La rivelazione della preghiera nell'Antico Testamento si iscrive tra la caduta e il riscatto dell'uomo, tra la domanda accorata di Dio ai suoi primi figli: «Dove sei? (…) Che hai fatto?» sta del Figlio unigenito al suo entrare nel mondo: («Ecco, io vengo [...] per fare, o Dio, la tua volontà»: Eb l0,7). La preghiera in tal modo è legata alla storia degli uomini, è la relazione con Dio nelle vicende della storia.

LA CREAZIONE - SORGENTE DELLA PREGHIERA

2569 - È a partire innanzi tutto dalle realtà della creazione che vive la preghiera. I primi nove capitoli della Genesi descrivono questa relazio­ne con Dio come offerta dei primogeniti del gregge da parte di Abele, come invocazione del nome divino da parte di Enos, come «cammino con Dio». L'offerta di Noè è «gradita» a Dio, che lo benedice - e, attraverso lui, benedice tutta la creazione perché il suo cuore è giu­sto e integro; egli pure «camminava con Dio» (Gn 6,9). Questa qualità della preghiera è vissuta da una moltitudine di giusti in tutte le religioni. Nella sua Alleanza indefettibile con gli esseri viventi, Dio sempre chiama gli uomini a pregarlo. Ma è soprattutto a partire dal nostro padre Abramo che nell'Antico Testamento viene rivelata la preghiera.

LA PROMESSA E LA PREGHIERA DELLA FEDE

2570 - Non appena Dio lo chiama, Abramo parte «come gli aveva or­dinato il Signore» (Gn 12,4): il suo cuore è tutto «sottomesso alla parola»; egli obbedisce. L'ascolto del cuore che si decide secondo Dio è essenziale alla preghiera: le parole sono relative rispetto ad esso. Ma la preghiera di Abramo si esprime innanzi tutto con azioni: uomo del si­lenzio, ad ogni tappa costruisce un altare al Signore. Solo più tardi tro­viamo la sua prima preghiera in parole: un velato lamento che ricorda a Dio le sue promesse che non sembrano realizzarsi. Così, fin dall'ini­zio, appare uno degli aspetti del dramma della preghiera: la prova della fede nella fedeltà di Dio.

2571 - Avendo creduto in Dio, camminando alla sua presenza e in al­leanza con lui, il patriarca è pronto ad accogliere sotto la propria ten­da l'Ospite misterioso: è la stupenda ospitalità di Mamre, preludio al­l'annunciazione del vero Figlio della Promessa. Da quel momento, avendogli Dio confidato il proprio disegno, il cuore di Abramo è in sintonia con la compassione del suo Signore per gli uomini, ed egli osa intercedere per loro con una fiducia audace.

2572 - Quale ultima purificazione della sua fede, proprio a lui «che aveva ricevuto le promesse» (Eb 11,17) viene chiesto di sacrificare il fi­glio che Dio gli ha donato. La sua fede non vacilla: «Dio stesso prov­vederà l'agnello per l'olocausto» (Gn 22,8); «pensava infatti che Dio è capace di far risorgere anche dai morti» (Eb 11,19). Così il padre dei credenti è configurato al Padre che non risparmierà il proprio Figlio, ma lo darà per tutti noi. La preghiera restituisce all'uomo la somi­glianza con Dio e lo rende partecipe della potenza dell'amore di Dio che salva la moltitudine.

2573 - Dio rinnova la propria Promessa a Giacobbe, l'antenato delle dodici tribù d'Israele. Prima di affrontare il fratello Esaù, Giacobbe lotta per l'intera notte con un misterioso personaggio, che si rifiuta di rivelargli il proprio nome, ma lo benedice prima di lasciarlo allo spun­tar del sole. La tradizione spirituale della Chiesa ha visto in questo racconto il simbolo della preghiera come combattimento della fede e vittoria della perseveranza.

MOSE' E LA PREGHIERA DEL MEDIATORE

2574 - Quando incomincia a realizzarsi la Promessa (la Pasqua, l'Esodo, il dono della Legge e la stipulazione dell'Alleanza), la preghiera di Mo­sé è la toccante figura della preghiera di intercessione, che raggiungerà il pieno compimento nell'unico «mediatore tra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù» (1 Tm 2,5).

2575 - Anche qui l'iniziativa è di Dio. Egli chiama Mosè dal roveto ar­dente. Questo avvenimento rimarrà una delle figure fondamentali della preghiera nella tradizione spirituale ebraica e cristiana. In realtà, se «il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» chiama il suo servo Mosè, è perché egli è il Dio vivente che vuole la vita degli uomi­ni. Egli si rivela per salvarli, ma non da solo, né loro malgrado: chiama Mosè per inviarlo, per associarlo alla sua compassione, alla sua opera di salvezza. C'è come un'implorazione divina in questa missione, e Mo­sè, dopo un lungo dibattito, adeguerà la sua volontà a quella del Dio Salvatore. Ma in quel dialogo in cui Dio si confida, Mosè impara an­che a pregare: cerca di tirarsi indietro, muove obiezioni, soprattutto po­ne interrogativi, ed è in risposta alla sua domanda che il Signore gli confida il proprio nome indicibile, che si rivelerà nelle sue grandi gesta.

2576 - Ora, «il Signore parlava con Mosè faccia a faccia, come un uo­mo parla con un altro» (Es 33,1 I), con un suo amico. La preghiera di Mosè è tipica della preghiera contemplativa, grazie alla quale il servo di Dio è fedele alla propria missione. Mosè «s'intrattiene» spesso e a lun­go con il Signore, salendo la montagna per ascoltarlo e implorarlo, di­cendendo verso il popolo per riferirgli le parole del suo Dio e guidar­lo. «Egli è l'uomo di fiducia in tutta la mia casa. Bocca a bocca parlo con lui, in visione» (Nm 12,7-8); infatti «Mosè era molto più mansueto di ogni uomo che è sulla terra» (Nm 12,3).

2577 - In questa intimità con il Dio fedele, lento all'ira e ricco di grazia, Mosè ha attinto la forza e la tenacia della sua intercessione. Non prega per sé, ma per il popolo che Dio si è acquistato. Già durante il combattimento contro gli Amaleciti per ottenere la guarigione di Maria, Mosè intercede. Ma è soprattutto dopo l'apostasia del popolo che egli sta «sulla breccia» (SaI 106,23) di fronte a Dio per salvare il popolo. Gli argomenti della sua preghiera (l'intercessione è anch'essa un misterioso combattimento) ispireranno l'audacia dei grandi oranti del popolo ebreo, come anche della Chiesa: Dio è amore; dunque, è giusto e fedele; non può contraddirsi, deve ricordarsi delle sue meravi­gliose gesta; è in gioco la sua gloria, non può abbandonare questo po­polo che porta il suo Nome.

DAVIDE E LA PREGHIERA DEL RE

2578 - La preghiera del popolo di Dio si sviluppa all'ombra della dimo­ra di Dio, cioè dell'arca dell'Alleanza e più tardi del Tempio. Sono in­nanzi tutto le guide del popolo - i pastori e i profeti - che gli insegne­ranno a pregare. Il fanciullo Samuele ha dovuto apprendere dalla pro­pria madre Anna come «stare davanti al Signore» e dal sacerdote Eli come ascoltare la parola di Dio: «Parla, Signore, perché il tuo servo tì ascolta» (1 Sam 3,9-10). Più tardi, anch'egli conoscerà il prezzo e il pe­so dell'intercessione: «Quanto a me, non sia mai che io pecchi contro il Signore, tralasciando di supplicare per voi e di indicarvi la via buona e retta» (1 Sam 12,23).

2579 - Davide è per eccellenza il re «secondo il cuore di Dio», il pa­store che prega per il suo popolo e in suo nome, colui la cui sottomis­sione alla volontà di Dio, la cui lode e il cui il pentimento saranno modello di preghiera per il popolo. Unto di Dio, la sua preghiera è fe­dele adesione alla Promessa divina, fiducia colma di amore e di gioia in colui che è il solo Re e Signore. Nei salmi, Davide, ispirato dallo Spirito Santo, è il primo profeta della preghiera ebraica e cristiana. La preghiera di Cristo, vero Messia e figlio di Davide, rivelerà e compirà il senso di questa preghiera.

2580 - Il Tempio di Gerusalemme, la casa di preghiera che Davide vole­va costruire, sarà opera di suo figlio, Salomone. La preghiera della de­dicazione del Tempio fa affidamento sulla Promessa di Dio e sulla sua Alleanza, sulla presenza operante del suo Nome in mezzo al suo popolo e sulla memoria delle mirabili gesta dell'Esodo. Il re alza le ma­ni verso il cielo e supplica il Signore per sé, per tutto il popolo, per le generazioni future, per il perdono dei peccati e per le necessità quoti­diane, affinché tutte le nazioni sappiano che egli è l'unico Dio e il cuo­re del suo popolo sia tutto per lui.

ELlA, I PROFETI E LA CONVERSIONE DEL CUORE

2581 - Il Tempio doveva essere per il popolo di Dio il luogo dell'educa­zione alla preghiera: i pellegrinaggi, le feste, i sacrifici, l'offerta della se­ra, l'incenso, i pani della «proposizione», tutti questi segni della santità e della gloria del Dio, altissimo e vicinissimo, erano appelli e cammi­ni della preghiera. Spesso però il ritualismo trascinava il popolo verso un culto troppo esteriore. Era necessaria l'educazione della fede, la conversione del cuore. Questa fu la missione dei profeti, prima e dopo l'Esilio

2582 - Elia è il padre dei profeti, della generazione di coloro che cerca­no Dio, che cercano il suo volto. Il suo nome, «il Signore è il mio Dio», annuncia il grido del popolo in risposta alla sua preghiera sul monte Carmelo. San Giacomo rimanda a lui, per esortarci alla pre­ghiera: «Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza» (Gc 5,16).

2583 - Dopo avere imparato la misericordia nel suo ritiro presso il tor­rente Cherit, Elia insegna alla vedova di Zarepta la fede nella parola di Dio, fede che egli conferma con la sua preghiera insistente: Dio fa tor­nare in vita il figlio della vedova. Al momento del sacrificio sul monte Carmelo, prova decisiva per la fede del popolo di Dio, è per la sua supplica che il fuoco del Signore consuma l'olocausto, «all'ora in cui si presenta l'offerta della sera»: «Rispondimi, Signore, rispondimi!» (I Re 18,37); queste stesse parole di Elia sono riprese dalle liturgie orientali nell'epiclesi eucaristica. Infine, riprendendo il cammino nel deserto verso il luogo dove il Dio vivo e vero si è rivelato al suo popolo, Elia, come Mosè, entra «in una caverna» finché «passi» la presenza misteriosa di Dio. Ma è sol­tanto sul monte della trasfigurazione che si svelerà colui di cui essi cer­cano il volto: la conoscenza della gloria di Dio rifulge sul volto di Cristo crocifisso e risorto.

2584 - Stando «da solo a solo con Dio», i profeti attingono luce e for­za per la loro missione. La loro preghiera non è una fuga dal mondo infedele, ma un ascolto della parola di Dio, talora un dibattito o un lamento, sempre un'intercessione che attende e prepara l'intervento del Dio Salvatore, Signore della storia.

I SALMI, PREGHIERA DELL'ASSEMBLEA

2585 - Dopo Davide, fino alla venuta del Messia, i Libri Sacri conten­gono testi di preghiera che testimoniano come si sia fatta sempre piu profonda la preghiera per se stessi e per gli altri. I salmi sono stati a poco a poco riuniti in una raccolta di cinque libri: i Salmi (o «Lodi»), capolavoro della preghiera nell'Antico Testamento.

2586 - I salmi nutrono ed esprimono la preghiera del popolo di Dio co­me assemblea, in occasione delle solenni feste a Gerusalemme e ogni sa­bato nelle sinagoghe. Questa preghiera è insieme personale e comunita­ria; riguarda coloro che pregano e tutti gli uomini; sale dalla Terra san­ta e dalle comunità della Diaspora, ma abbraccia l'intera creazione; ri­corda gli eventi salvifici del passato e si estende fino al compimento della storia; fa memoria delle promesse di Dio già realizzate ed attende il Messia che le compirà definitivamente. Pregati da Cristo e attuati pienamente in lui, i salmi restano essenziali per la preghiera della sua Chiesa.

2587 - Il Salterio è il libro in cui la parola di Dio diventa preghiera del­l’uomo. Negli altri libri dell'Antico Testamento «le parole dichiarano le opere di Dio per gli uomini e chiariscono il mistero in esse contenu­to». Nel Salterio le parole del salmista esprimono, cantandole per Dio, le sue opere salvifiche. Il medesimo Spirito ispira l'opera di Dio e la risposta dell'uomo. Cristo unirà l'una e l'altra. In lui, i salmi non cessano di insegnarci a pregare.

2588 - Le espressioni multiformi della preghiera dei salmi nascono ad un tempo nella liturgia del Tempio e nel cuore dell'uomo. Si tratti di un inno, di una preghiera di lamentazione o di rendimento di grazie, di una supplica individuale o comunitaria, di un canto regale o di pellegri­naggio, di una meditazione sapienziale, i salmi sono lo specchio delle meraviglie di Dio nella storia del suo popolo e delle situazioni umane vissute dal salmista. Un salmo può rispecchiare un avvenimento del passato, ma è di una sobrietà tale da poter essere pregato in verità da­gli uomini di ogni condizione e di ogni tempo.

2589 - Nei salmi si scorgono alcuni tratti costanti: la semplicità e la spontaneità della preghiera; il desiderio di Dio stesso attraverso tutto e con tutto ciò che nella creazione è buono; la situazione penosa del cre­dente il quale, nel suo amore preferenziale per il Signore, è esposto a una folla di nemici e di tentazioni: e, nell'attesa di ciò che farà il Dio fedele, è certo del suo amore e si consegna alla sua volontà. La pre­ghiera dei salmi è sempre animata dalla lode ed è per questo che il tito­lo della raccolta si addice pienamente a ciò che essa ci consegna: «Le Lodi». Composta per il culto dell'assemblea, ci fa giungere l'invito alla preghiera e ne canta la risposta: «Halleluja!» (Alleluia), «Lodate il Si­gnore!». «Che cosa vi é di più bello del salmo? Bene ha detto lo stesso Davide: Lodate il Signore, poiché bello é il salmo. Al nostro Dio sia lode gioiosa e conveniente. Ed è vero! Il salmo infatti è benedizione del po­polo, lode a Dio, inno di lode del popolo, applauso generale, parola universale, voce della Chiesa, canora professione di fede...

In sintesi

2590 - «La preghiera é l'elevazione dell'anima a Dio o la domando a Dio di beni convenienti».

2591 - Dio instancabilmente chiama ogni persona all'incontro misterioso con lui. La preghiera accompagna tutta la storia della salvezza co­me un appello reciproco tra Dio e l'uomo.

2592 - La preghiera di Abramo e di Giacobbe si presenta come una lotta della fede ancorata alla fiducia nella fedeltà di Dio e alla certezza della vittoria promessa alla perseveranza.

2593 - La preghiera di Mosé è la risposta all'iniziativa del Dio vivente per la salvezza del suo popolo. Prefigura la preghiera d'intercessione dell’unico mediatore, Cristo Gesù.

2594 - La preghiera del popolo di Dio si sviluppa all'ombra della dimora di Dio, dell'arca dell’Alleanza e del Tempio, sotto la guida dei pastori, del re Davide principalmente, e dei profeti.

2595 - I profeti chiamano alla conversione del cuore e, mentre ricercano ardentemente il volto di Dio, come Elia, intercedono per il popolo.

2596 - I salmi costituiscono il capolavoro della preghiera nell’Antico Testamento. Presentano due componenti inseparabili: personale e comunitaria. Abbracciano tutte le dimensioni della storia, facendo memoria delle promesse di Dio già realizzate e sperando nella venuta del Messia.

2597 - Pregati da Cristo e attuati pienamente in lui, i salmi sono un ele­mento essenziale e permanente della preghiera della sua Chiesa. Sono adatti agli uomini di ogni condizione e di ogni tempo.

Articolo 2

NELLA PIENEZZA DEL TEMPO

2598 - L'evento della preghiera ci viene pienamente rivelato nel Verbo che si è fatto carne e dimora in mezzo a noi. Cercare di comprendere la sua preghiera, attraverso ciò che i suoi testimoni ci dicono di essa nel Vangelo, è avvicinarci al santo Signore Gesù come al roveto arden­te: dapprima contemplano mentre prega, poi ascoltare come ci insegna a pregare, infine conoscere come egli esaudisce la nostra preghiera.

GESU’ PREGA

2599 - Il Figlio di Dio diventato Figlio della Vergine ha anche imparato a pregare secondo il suo cuore d'uomo. Egli apprende le formule di preghiera da sua Madre, che serbava e meditava nel suo cuore tutte le «grandi cose» fatte dall'Onnipotente. Egli prega nelle parole e nei ritmi di preghiera del suo popolo, nella sinagoga di Nazaret e al Tempio. Ma la sua preghiera sgorga da una sorgente ben più segreta, come la­scia presagire già all'età di dodici anni: «Io devo occuparmi delle cose del Padre mio» (Lc 2,49). Qui comincia a rivelarsi la novità della pre­ghiera nella pienezza dei tempi: la preghiera filiale, che il Padre aspetta­va dai suoi figli, viene finalmente vissuta dallo stesso Figlio unigenito nella sua umanità, con gli uomini e per gli uomini.

2600 - Il Vangelo secondo san Luca sottolinea l'azione dello Spirito Santo e il senso della preghiera nel ministero di Cristo. Gesù prega pri­ma dei momenti decisivi della sua missione: prima che il Padre gli ren­da testimonianza, al momento del suo battesimo e della trasfigurazione, e prima di realizzare, mediante la sua passione, il disegno di amore del Padre. Egli prega anche prima dei momenti decisivi che danno inizio alla missione dei suoi Apostoli: prima di scegliere e chiamare i Dodici, prima che Pietro lo confessi come «il Cristo di Dio» e af­finché la fede del capo degli Apostoli non venga meno nella tentazio­ne. La preghiera di Gesù prima delle azioni salvifiche che il Padre gli chiede di compiere, è un'adesione umile e fiduciosa della sua volontà umana alla volontà piena d'amore del Padre.

2601 - «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e, quando ebbe finito, uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare”» (Lc 11,1). Non è forse anzitutto contemplando il suo Maestro orante che nel discepolo di Cristo nasce il desiderio di pregare? Può allora im­pararlo dal Maestro della preghiera. È contemplando ed ascoltando il Figlio che i figli apprendono a pregare il Padre.

2602 - Gesù si ritira spesso in disparte, nella solitudine, sulla montagna, generalmente di notte, per pregare. Egli porta gli uomini nella sua pre­ghiera, poiché egli ha pienamente assunto l'umanità nella sua incarna­zione, e li offre al Padre offrendo se stesso. Egli, il Verbo che «si è fat­to carne», nella sua preghiera umana partecipa a tutto ciò che vivono i «suoi fratelli»; compatisce le loro infermità per liberarli da esse. Proprio per questo il Padre l'ha mandato. Le sue parole e le sue azioni appaiono allora come la manifestazione visibile della sua preghiera «nel segreto».

2603 - Gli evangelisti hanno riportato in modo esplicito due preghiere pronunciate da Gesù durante il suo ministero. Ognuna comincia con il rendimento di grazie. Nella prima, Gesù confessa il Padre, lo ricono­sce e lo benedice perché ha nascosto i misteri del Regno a coloro che si credono dotti e li ha rivelati ai «piccoli» (i poveri delle beatitudini). il suo trasalire: «Si, Padre!» esprime la profondità del suo cuore, la sua adesione al «beneplacito» del Padre, come eco al «Fiat» di sua Madre al momento del suo concepimento e come preludio a quello che egli dirà al Padre durante la sua agonia. Tutta la preghiera di Gesù è in questa amorosa adesione del suo cuore di uomo al «mistero della volontà» del Padre.

2604 - La seconda preghiera è riferita da san Giovanni prima della ri­surrezione di Lazzaro. L'azione di grazie precede l'evento: «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato», il che implica che il Padre ascolta sem­pre la sua supplica; e Gesù subito aggiunge: «Io sapevo che sempre mi dai ascolto», il che implica che Gesù, dal canto suo, domanda in modo costante. Così, introdotta dal rendimento di grazie, la preghiera di Ge­sù ci rivela come chiedere: prima che il dono venga concesso, Gesù ade­risce a colui che dona e che nei suoi doni dona se stesso. Il Donatore è più prezioso del dono accordato; è il «Tesoro», ed il cuore del Figlio suo è in lui; il dono viene concesso «in aggiunta». La «preghiera sacerdotale» di Gesù occupa un posto unico nell'Econo­mia della salvezza. Su di essa si mediterà nella parte conclusiva della sezione prima. In realtà essa rivela la preghiera sempre attuale del nostro Sommo Sa­cerdote, e, al tempo stesso, è intessuta di ciò che Gesù ci insegna nella nostra preghiera al Padre, che sarà commentata nella sezione seconda.

2605 - Quando giunge l'Ora in cui porta a compimento il disegno di amore del Padre, Gesù lascia intravvedere l'insondabile profondità della sua preghiera filiale, non soltanto prima di consegnarsi volontariamente («Padre… non... la mia, ma la tua volontà»: Lc 22,42), ma anche nelle ultime sue parole sulla croce, là dove pregare e donarsi si identificano: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34); «In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43); «Donna, ecco il tuo figlio. (…) Ecco la tua Madre» (Gv 19,26-27); «Ho sete!»(Gv 19,28); «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34); 56 «Tutto è compiuto!» (Gv 19,30); «Padre, nelle tue mani con­segno il mio spirito» (Lc 23,46), fino a quel «forte grido» con il quale muore, rendendo lo spirito.

2606 - Tutte le angosce dell'umanità di ogni tempo, schiava del peccato e della morte, tutte le implorazioni e le intercessioni della storia della salvezza confluiscono in questo grido del Verbo incarnato. Ed ecco che il Padre le accoglie e, al di là di ogni speranza, le esaudisce risuscitando il Figlio suo. Così si compie e si consuma l'evento della preghiera nell'Economia della creazione e della salvezza. Il Salterio ce ne offre la chiave in Cristo. È nell'oggi della risurrezione che il Padre dice: «Tu sei mio Figlio, io oggi ti ho generato. Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra!» (SaI 2,7-8). La lettera agli Ebrei esprime in termini drammatici come la preghiera di Gesù operi la vittoria della salvezza: «Nei giorni della sua vita terre­na egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte e fu esaudito per la sua pietà; pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,7-9).

GESU’ INSEGNA A PREGARE

2607 - Quando Gesù prega, già ci insegna a pregare. Il cammino teolo­gaIe della nostra preghiera è la sua preghiera al Padre. Ma il Vangelo ci offre un esplicito insegnamento di Gesù sulla preghiera. Come un pe­dagogo, egli ci prende là dove siamo e, progressivamente, ci conduce al Padre. Rivolgendosi alle folle che lo seguono, Gesù prende le mosse da ciò che queste già conoscono della preghiera secondo l'Antica Alleanza e le apre alla novità del Regno che viene. Poi rivela loro tale novità con parabole. Infine, ai suoi discepoli, che dovranno essere pedagoghi della preghiera nella sua Chiesa, parlerà apertamente del Padre e dello Spirito Santo.

2608 - Fin dal discorso della montagna, Gesù insiste sulla conversione de cuore: la riconciliazione con il fratello prima di presentare un'offerta sull'altare, l'amore per i nemici e la preghiera per i persecutori, la preghiera al Padre «nel segreto» (Mt 6,6), senza sprecare molte paro­le, il perdono dal profondo del cuore nella preghiera, la purezza del cuore e la ricerca del Regno. Tale conversione è tutta orientata al Padre: è filiale.

2609 - Il cuore, deciso così a convertirsi, apprende a pregare nella fede. La fede è un'adesione filiale a Dio, al di là di ciò che sentiamo e com­prendiamo. È diventata possibile perché il Figlio diletto ci apre l'acces­so al Padre. Egli può chiederci di «cercare » e di «bussare», perché egli stesso è la porta e la via.

2610 - Come Gesù prega il Padre e rende grazie prima di ricevere i suoi doni, così egli ci insegna questa audacia filiale: «Tutto quello che do­mandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto» (Mc 11,24). Tale è la forza della preghiera: «Tutto è possibile per chi crede» (Mc 9,23), con una fede che non dubita. Quanto Gesù è rattristato dalla «incredulità» (Mc 6,6) dei suoi compaesani e dalla poca fede dei suoi discepoli, tanto si mostra pieno di ammirazione davanti alla fede dav­vero grande del centurione romano della Cananea.

2611 - La preghiera di fede non consiste soltanto nel dire: «Signore, Si­gnore», ma nel disporre il cuore a fare la volontà del Padre. Gesù esorta i suoi discepoli a portare nella preghiera questa passione di col­laborare al disegno divino.

2612 - In Gesù «il regno di Dio è vicino» (Mc 1,15); egli chiama alla conversione e alla fede, ma anche alla vigilanza. Nella preghiera, il di­scepolo veglia attento a colui che è e che viene, nella memoria della sua prima venuta nell'umiltà della carne e nella speranza del suo secondo avvento nella gloria. La preghiera dei discepoli, in comunione con il loro Maestro, è un combattimento, ed è vegliando nella preghie­ra che non si entra in tentazione.

2613 - Tre parabole sulla preghiera di particolare importanza ci sono tramanda­te da san Luca: La prima, «l'amico importuno», esorta ad una preghiera fatta con insi­stenza: «Bussate e vi sarà aperto». A colui che prega così, il Padre del cielo «darà tutto ciò di cui ha bisogno», e principalmente lo Spirito Santo che con­tiene tutti i doni. La seconda, «la vedova importuna» é centrata su una delle qualità della preghiera: si deve pregare sempre, senza stancarsi, con la pazienza della fede. «Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». La terza parabola, «il fariseo e il pubblicano», riguarda l'umiltà del cuo­re che prega: «O Dio, abbi pietà di me, peccatore». La Chiesa non cessa di fare sua questa preghiera: «Kyrie eleison!»

2614 - Quando Gesù confida apertamente ai suoi discepoli il mistero della preghiera al Padre, svela ad essi quale dovrà essere la loro pre­ghiera, e la nostra, allorquando egli, nella sua umanità glorificata, sarà tornato presso il Padre. La novità, attualmente, è di «chiedere nel suo nome». La fede in lui introduce i discepoli nella conoscenza del Padre, perché Gesù è «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). La fede porta il suo frutto nell'amore: osservare la sua parola, i suoi comandamenti, di­morare con lui nel Padre, che in lui ci ama fino a prendere dimora in noi. In questa nuova Alleanza, la certezza di essere esauditi nelle nostre suppliche è fondata sulla preghiera di Gesù.

2615 - Ancor più, quando la nostra preghiera è unita a quella di Gesù, il Padre ci dà un «altro Consolatore perché rimanga con voi per sem­pre, lo Spirito di verità» (Gv 14,16-17). Questa novità della preghiera e delle sue condizioni appare attraverso il discorso di addio. Nello Spiri­to Santo, la preghiera cristiana è comunione di amore con il Padre, non solamente per mezzo di Cristo, ma anche in lui: «Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena» (Gv 16,24).

GESU’ ESAUDISCE LA PREGHIERA

2616 - La preghiera a Gesù è già esaudita da lui durante il suo ministe­ro, mediante segni che anticipano la potenza della sua morte e della sua risurrezione: Gesù esaudisce la preghiera di fede, espressa a parole (dal lebbroso; da Giairo; dalla Cananea; dal buon ladrone oppure in silenzio (da coloro che portano il paralitico; dall'emoroissa che tocca il suo mantello; dalle lacrime e dall'olio profumato della peccatrice. La supplica accorata dei ciechi: «Figlio di Davide, abbi pietà di noi» (Mt 9,27): «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me» (Mc 10,47) è stata ripresa nella tradizione della Preghiera a Gesù: «Ge­sù, Cristo, Figlio di Dio, Signore, abbi pietà di me peccatore!». Si trat­ti di guarire le malattie o di rimettere i peccati, alla preghiera che im­plora con fede Gesù risponde sempre: «Va' in pace, la tua fede ti ha salvato!». Sant'Agostino riassume in modo mirabile le tre dimensioni della pre­ghiera di Gesù: «Prega per noi come nostro Sacerdote; prega in noi co­me nostro Capo; è pregato da noi come nostro Dio. Riconosciamo, dunque, in lui la nostra voce, e in noi la sua voce.

LA PREGHIERA DELLA VERGINE MARIA

2617 - La preghiera di Maria ci è rivelata all'aurora della pienezza dei tempi. Prima dell'incarnazione del Figlio di Dio e prima dell'effusione dello Spirito Santo, la sua preghiera coopera in una maniera unica al disegno benevolo del Padre: al momento dell'annunciazione per il concepimento dì Cristo, e in attesa della pentecoste per la formazione della Chiesa, corpo di Cristo. Nella fede della sua umile serva il dono di Dio trova l'accoglienza che fin dall'inizio dei tempi aspettava. Colei che l'Onnipotente ha fatto «piena di grazia», risponde con l'offerta di tut­to il proprio essere: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». «Fiat», è la preghiera cristiana: essere intera­mente per lui, dal momento che egli è interamente per noi.

2618 - Il Vangelo ci rivela come Maria preghi e interceda nella fede: a Cana la Madre di Gesù prega il Figlio suo per le necessità di un ban­chetto di nozze, segno di un altro Banchetto, quello delle nozze dell'A­gnello che, alla richiesta della Chiesa, sua Sposa, offre il proprio Corpo e il proprio Sangue. Ed è nell'ora della Nuova Alleanza, ai piedi della croce, che Maria viene esaudita come la Donna, la nuova Eva, la vera «Madre dei viventi».

2619 - È per questo che il cantico di Maria, il «Magnificat» latino, (…) bizantino, rappresenta ad un tempo il cantico della Madre di Dio e quello della Chiesa. cantico della Figlia di Sion e del nuovo popolo di Dio, cantico di ringraziamento per la pienezza di grazie elar­gite nell'Economia della salvezza, cantico dei «poveri», la cui speranza si realizza mediante il compimento delle promesse fatte ai nostri padri, «ad Abramo e alla sua discendenza per sempre».

In sintesi

2620 - Nel Nuovo Testamento il modello perfetto della preghiera si trova nella preghiera filiale di Gesù. Fatta spesso nella solitudine, nel silenzio, la preghiera di Gesù comporta un'adesione piena d'amore alla volontà del Padre fino alla croce e un'assoluta fiducia di essere esaudito.

2621 - Nel suo insegnamento, Gesù educa i suoi discepoli a pregare con un cuore purificato, con una fede viva e perseverante, con un audacia filiale. Li esorta alla vigilanza e li invita a rivolgere le loro doman­de a Dio nel suo nome. Gesù Cristo stesso esaudisce le preghiere che gli vengono rivolte.

2622 - La preghiera della Vergine Maria, nel suo «Fiat» e nel suo Ma­gnificat, é caratterizzata dalla generosa offerta di tutto il suo essere nella fede.

Articolo 3

NEL TEMPO DELLA CHIESA

2623 - Il giorno di pentecoste lo Spirito della Promessa è stato effuso sui discepoli, che «si trovavano tutti insieme nello stesso luogo» (At 2,1) ad attenderlo, «assidui e concordi nella preghiera» (At 1,14). Lo Spirito che istruisce la Chiesa e le ricorda tutto ciò che Gesù ha detto, la forma anche alla vita di preghiera.

2624 - Nella prima comunità di Gerusalemme, i credenti «erano assidui nell'ascoltare l'insegnamento degli Apostoli e nell'unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere» (At 2,42). La sequenza è tipica del­la preghiera della Chiesa: fondata sulla fede apostolica ed autenticata dalla carità, essa è nutrita nell'Eucaristia.

2625 - Le preghiere sono prima di tutto quelle che i fedeli ascoltano e leggono nelle Scritture, attualizzandole però, specialmente quelle dei salmi, a partire dal loro compimento in Cristo. Lo Spirito Santo, che in tal modo ricorda Cristo alla sua Chiesa orante, la conduce anche al­la verità tutta intera e suscita nuove formulazioni, le quali esprimeran­no l'insondabile mistero di Cristo, che opera nella vita, nei sacramenti e nella missione della sua Chiesa. Queste formulazioni si svilupperanno nelle grandi tradizioni liturgiche e spirituali. Le forme della preghiera, quali sono espresse negli Scritti apostolici e canonici rimarranno nor­mative per la preghiera cristiana.

I. La benedizione e l'adorazione.

2626 - La benedizione esprime il moto di fondo della preghiera cristiana: essa è incontro di Dio e dell'uomo; in essa il dono di Dio e l'accoglien­za dell'uomo si richiamano e si congiungono. La preghiera di benedi­zione è la risposta dell'uomo ai doni di Dio: poiché Dio benedice, il cuore dell'uomo può rispondere benedicendo colui che è la sorgente di ogni benedizione.

2627 - Due forme fondamentali esprimono questo moto: talvolta la be­nedizione si eleva, portata, nello Spirito Santo, da Cristo verso il Padre (lo benediciamo per averci benedetti); talvolta implora la grazia dello Spirito Santo che, per mezzo di Cristo, discende dal Padre (lui che ci benedice).

2628 - L'adorazione è la disposizione fondamentale dell'uomo che si ri­conosce creatura davanti al suo Creatore, Essa esalta la grandezza del Signore che ci ha creati e l'onnipotenza del Salvatore che ci libera dal male. É la prosternazione dello spirito davanti al «re della gloria», e il silenzio rispettoso al cospetto del Dio «sempre più grande di noi». L'adorazione del Dio tre volte Santo e sommamente amabile ci colma di umiltà e dà sicurezza alle nostre suppliche.

II. La preghiera di domanda.

2629 - Il vocabolario della supplica è ricco di sfumature nel Nuovo Te­stamento: domandare, implorare, chiedere con insistenza, invocare, im­petrare, gridare e perfino «lottare nella preghiera. Ma la sua forma più abituale, perché la più spontanea, è la domanda: proprio con la preghiera di domanda noi esprimiamo la coscienza della nostra relazio­ne con Dio: in quanto creature, non siamo noi il nostro principio, né siamo padroni delle avversità, né siamo il nostro ultimo fine; anzi, per di più, essendo peccatori, noi, come cristiani, sappiamo che ci allonta­niamo dal Padre, La domanda è già un ritorno a lui.

2630 - Il Nuovo Testamento non contiene preghiere di lamentazione, frequenti invece nell'Antico Testamento. Ormai, in Cristo risorto, la domanda della Chie­sa è sostenuta dalla speranza, quantunque siamo ancora nell'attesa e dobbiamo convertirci ogni giorno. Scaturisce da ben altra profondità la domanda cristia­na, quella che san Paolo chiama il gemito: quello della creazione «nelle doglie del parto» (Rm 8,22); ma anche il nostro, nell'attesa della «redenzione del no­stro corpo; poiché nella speranza noi siamo stati salvati» (Rm 8,23-24); infine i gemiti inesprimibili dello stesso Spirito Santo, il quale viene in aiuto alla no­stra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domanda­re» (Rm 8,26).

2631 - La domanda del perdono è il primo moto della preghiera di do­manda (cf il pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me peccatore», Lc 18,13). Essa è preliminare ad una preghiera giusta e pura. L'umiltà con­fidente ci pone nella luce della comunione con il Padre e il Figlio suo Gesù Cristo, e gli uni con gli altri: allora «qualunque cosa chiediamo la riceviamo da lui» (1 Gv 3,22). La domanda del perdono è l'atto pre­liminare della liturgia eucaristica, come anche della preghiera personale.

2632 - La domanda cristiana è imperniata sul desiderio e sulla ricerca del Regno che viene, conformemente all'insegnamento di Gesù. Nelle domande esiste una gerarchia: prima di tutto si chiede il Regno, poi ciò che è necessario per accoglierlo e per cooperare al suo avvento. Tale cooperazione alla missione di Cristo e dello Spirito Santo, che ora è la missione della Chiesa, è l'oggetto della preghiera della comunità aposto­lica. È la preghiera di Paolo, l'Apostolo per eccellenza, che ci manife­sta come la sollecitudine divina per tutte le Chiese debba animare la preghiera cristiana. Mediante la preghiera ogni battezzato opera per l'avvento del Regno.

2633 - Quando si condivide in questo modo l'amore salvifico di Dio, si comprende come ogni necessità possa diventare oggetto di domanda. Cristo, che tutto ha assunto al fine di tutto redimere, è glorificato dalle domande che noi rivolgiamo al Padre nel suo nome. È in forza di questa certezza che Giacomo e Paolo ci esortano a pregare in ogni circostanza.

III. La preghiera di intercessione.

2634 - L'intercessione è una preghiera di domanda che ci conforma da vicino alla preghiera di Gesù. È lui l'unico intercessore presso il Padre in favore di tutti gli uomini, particolarmente dei peccatori. Egli «può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, es­sendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (Eb 7,25). Lo Spirito Santo stesso «intercede (…), poiché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio» (Rm 8,26-27).

2635 - Intercedere, chiedere in favore di un altro, dopo Abramo, è la prerogativa di un cuore in sintonia con la misericordia di Dio. Nel tem­po della Chiesa, l'intercessione cristiana partecipa a quella di Cristo: è espressione della comunione dei santi. Nell'intercessione, colui che pre­ga non cerca solo «il proprio interesse, ma anche quello degli altri» (Fil 2,4), fino a pregare per coloro che gli fanno del male.

2636 - Le prime comunità cristiane hanno intensamente vissuto questa forma di condivisione. L'Apostolo Paolo le rende così partecipi del suo ministero del Vangelo, ma intercede anche per esse. L'intercessio­ne dei cristiani non conosce frontiere: «per tutti gli uomini, [...] per tutti quelli che stanno al potere» (1 Tm 2,1), per coloro che perseguitano, per la salvezza di coloro che rifiutano il Vangelo.

IV. La preghiera di ringraziamento.

2637 - L'azione di grazie caratterizza la preghiera della Chiesa, la quale, celebrando l'Eucaristia, manifesta e diventa sempre più ciò che è. In realtà, nell'opera della salvezza, Cristo libera la creazione dal peccato e dalla morte, per consacrarla nuovamente e farla tornare al Padre, per la sua gloria. Il rendimento di grazie delle membra di Cristo partecipa a quello del loro Capo.

2638 - Come nella preghiera di domanda, ogni avvenimento e ogni ne­cessità può diventare motivo di ringraziamento. Le lettere di san Paolo spesso cominciano e si concludono con un'azione di grazie e sempre vi è presente il Signore Gesù. «In ogni cosa rendete grazie; questa è infat­ti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi» (1 Ts 5,18). «Perseve­rate nella preghiera e vegliate in essa, rendendo grazie» (Col 4,2).

V. La preghiera di lode.

2639 - La lode è la forma di preghiera che più immediatamente ricono­sce che Dio è Dio! Lo canta per se stesso, gli rende gloria perché EGLI E’, a prescindere da ciò che fa. E una partecipazione alla beatitudine dei cuori puri, che amano Dio nella fede prima di vederlo nella gloria. Per suo mezzo, lo Spirito si unisce al nostro spirito per testimoniare che siamo figli di Dio, rende testimonianza al Figlio unigenito nel quale siamo adottati e per mezzo del quale glorifichiamo il Padre. La lode integra le altre forme di preghiera e le porta verso colui che ne è la sorgente e il termine: «un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui» (J Cor 8,6).

2640 - San Luca annota spesso nel suo Vangelo l'ammirazione e la lode davanti alle meraviglie operate da Cristo; le sottolinea anche per le azioni dello Spirito Santo che sono negli Atti degli Apostoli: la vita della comunità di Gerusalem­me, la guarigione dello storpio operata da Pietro e Giovanni, l'esultanza della folla che glorifica Dio per l'accaduto, la gioia dei pagani di Pisidia che «si rallegravano e glorificavano la parola di Dio» (At 13,48).

2641 - «Siate ricolmi dello Spirito intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore» (Ef 5,19). Come gli scrittori ispirati del Nuovo Testamento, le prime comunità cristiane rileggono il libro dei Salmi cantando in essi il mistero di Cristo. Nella novità dello Spirito, esse compongono anche inni e cantici ispirandosi all'evento inaudito che Dio ha realizzato nel Figlio suo: la sua incarnazione, la sua morte vincitrice della morte, la sua risurrezione, la sua ascensione alla propria destra. È da questa «meraviglia» di tutta l'Economia della salvezza che sale la dosso­logia, la lode di Dio.

2642 - La rivelazione delle «cose che devono presto accadere», l'Apocalisse, poggia sui cantici della liturgia celeste, ma anche sull'intercessione dei «testi­moni» (martiri). I profeti e i santi, tutti coloro che furono uccisi sulla terra per la testimonianza da loro data a Gesà, l'immensa folla di coloro che, venu­ti dalla grande tribolazione, ci hanno preceduto nel Regno, cantano la lode di gloria di colui che siede sul trono e dell'Agnello. In comunione con loro, an­che la Chiesa terrestre canta questi cantici, nella fede e nella prova. La fede, nella domanda e nell'intercessione, spera contro ogni speranza e rende grazie al Padre della luce, dal quale discende ogni dono perfetto. La fede è così una pura lode.

2643 - L'Eucaristia contiene ed esprime tutte le forme di preghiera: è «l'oblazione pura» di tutto il corpo di Cristo a gloria del suo nome. Secondo le tradizioni d'Oriente e d'Occidente, essa è «il sacrificio di lode».

In sintesi

2644 - Lo Spirito Santo che ammaestra la Chiesa e le ricorda tutto ciò che Gesù ha detto, la educa anche alla vita di preghiera, suscitando espressioni che si rinnovano in seno a forme permanenti: benedizio­ne, domanda, intercessione, azione di grazie e lode

2645 - Per il fatto che Dio lo benedice, il cuore dell'uomo può a sua volta benedire colui che è la sorgente di ogni benedizione.

2646 - La preghiera di domanda ha per oggetto il perdono, la ricerca del Regno, come pure ogni vera necessità.

2647 - La preghiera di intercessione consiste in una domanda in favore di un altro. Non conosce frontiere e si estende anche ai nemici.

2648 - Ogni gioia e ogni sofferenza, ogni avvenimento e ogni necessità può essere materia dell'azione di grazie, che, partecipando a quella di Cristo, deve riempire l'intera vita: «In ogni cosa rendete grazie» (1 Ts 5,18).

2649 - La preghiera di lode, completamente disinteressata, si concentra su Dio,' lo canta per se stesso, gli rende gloria perché EGLI È, a pre­scindere da ciò che egli fa

CAPITOLO SECONDO

LA TRADIZIONE DELLA PREGHIERA

2650 - La preghiera non si riduce allo spontaneo manifestarsi di un im­pulso interiore: per pregare, bisogna volerlo. Non basta neppure sapere quel che le Scritture rivelano sulla preghiera: è necessario anche impa­rare a pregare. È attraverso una trasmissione vivente (la santa Tradizio­ne) che lo Spirito Santo insegna a pregare ai figli di Dio, nella Chiesa che crede e che prega.

2651 - La tradizione della preghiera cristiana è una delle forme di cre­scita della tradizione della fede, in particolare per mezzo della contem­plazione e dello studio dei credenti, i quali conservano nel loro cuore gli eventi e le parole dell'Economia della salvezza, e mediante la pro­fonda comprensione delle realtà spirituali di cui fanno esperienza.

Articolo 1

ALLE SORGENTI DELLA PREGHIERA

2652 - Lo Spirito Santo è «l'acqua viva» che, nel cuore orante, «zam­pilla per la vita eterna». È lui che ci insegna ad attingerla alla stessa sorgente: Cristo. Nella vita cristiana ci sono fonti dove Cristo ci atten­de per abbeverarci dello Spirito Santo.

LA PAROLA DI DIO

2653 - La Chiesa «esorta con forza e insistenza tutti i fedeli (…) ad ap­prendere "la sublime scienza di Gesù Cristo" (FiI 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture (…) Però la lettura della Sacra Scrittura dev'essere accompagnata dalla preghiera, affinché possa svolgersi il col­loquio tra Dio e l'uomo; poiché gli parliamo quando preghiamo e lo ascoltiamo quando leggiamo gli oracoli divini».

2654 - I Padri della vita spirituale, parafrasando Mt 7,7, così riassumono le disposizioni del cuore nutrito dalla Parola di Dio nella preghiera: «Cercate leggendo e troverete meditando; bussate pregando e vi sarà aperto dalla contemplazione».

LA LITURGIA DELLA CHIESA

2655 - La missione di Cristo e dello Spirito Santo che, nella liturgia sa­cramentale della Chiesa, annunzia, attualizza e comunica il mistero del­la salvezza, prosegue nel cuore che prega. I Padri della vita spirituale talvolta paragonano il cuore a un altare. La preghiera interiorizza ed assimila la liturgia durante e dopo la sua celebrazione. Anche quando è vissuta «nel segreto» (Mt 6,6), la preghiera è sempre preghiera della Chiesa, è comunione con la Santissima Trinità.

LE VIRTÙ TEOLOGALI

2656 - Si entra nella preghiera come si entra nella liturgia: per la porta stretta della fede. Attraverso i segni della sua presenza, è il volto del Si­gnore che cerchiamo e desideriamo, è la sua parola che vogliamo ascol­tare e custodire.

2657 - Lo Spirito Santo, che ci insegna a celebrare la liturgia nell'attesa del ritorno di Cristo, ci educa a pregare nella speranza. A loro volta, la preghiera della Chiesa e la preghiera personale alimentano in noi la speranza. In modo particolarissimo i salmi, con il loro linguaggio con­creto e ricco, ci insegnano a fissare la nostra speranza in Dio: «Ho sperato, ho sperato nel Signore, ed egli su di me si è chinato, ha dato ascolto al mio grido» (SaI 40,2). «Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo» (Rm 15,13).

2658 - «La speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato riversa­to nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5). La preghiera, plasmata dalla vita liturgica, tutto attinge all'a­more con cui siamo amati in Cristo e che ci concede di rispondervi amando come lui ci ha amati. L'amore è la sorgente della preghiera; chi vi attinge, tocca il culmine della preghiera: «Vi amo, o mio Dio, e il mio unico desiderio è di amarvi fino all'ulti­mo respiro. Vi amo, o mio Dio infinitamente amabile, e preferisco mo­rire amandovi, che vivere senza amarvi. Vi amo, Signore, e la sola gra­zia che vi chiedo è di amarvi eternamente. [...] Mio Dio, se la mia lin­gua non può ripetere.

2659 - Noi impariamo a pregare in momenti particolari, quando ascol­tiamo la Parola del Signore e quando partecipiamo al suo mistero pa­squale; ma è in ogni tempo, nelle vicende di ogni giorno, che ci viene dato il suo Spirito perché faccia sgorgare la preghiera. L'insegnamento di Gesù sulla preghiera al Padre nostro è nella medesima linea di quel­lo sulla provvidenza: il tempo è nelle mani del Padre; è nel presente che lo incontriamo: né ieri né domani, ma oggi: «Ascoltate oggi la sua voce: "Non indurite il cuore"» (Sal 95,8).

2660 - Pregare negli avvenimenti di ogni giorno e di ogni istante è uno dei segreti del Regno rivelati ai «piccoli», ai servi di Cristo, ai poveri delle beatitudini. È cosa buona e giusta pregare perché l'avvento del regno di giustizia e di pace influenzi il cammino della storia, ma è al­trettanto importante «impastare» mediante la preghiera le umili situa­zioni quotidiane. Tutte le forme di preghiera possono essere quel lievito al quale il Signore paragona il Regno.

In sintesi

2661 - È attraverso una trasmissione vivente, la Tradizione, che, nello Chiesa, lo Spirito Santo insegna ai figli di Dio a pregare.

2662 - La Parola di Dio, la liturgia della Chiesa, le virtù della fede, della speranza e della carità sono fonti della preghiera.

Articolo 2

IL CAMMINO DELLA PREGHIERA

2663 - Nella tradizione vivente della preghiera, ogni Chiesa, in rapporto al contesto storico, sociale e culturale, propone ai propri fedeli il lin­guaggio della loro preghiera: parole, melodie, gesti, iconografia. Spetta al Magistero discernere la fedeltà di tali cammini di preghiera alla Tradizione della fede apostolica, ed è compito dei Pastori e dei catechi­sti spiegarne il senso, che è sempre legato a Gesù Cristo.

LA PREGHIERA AL PADRE

2664 - Per la preghiera cristiana non c'è altra via che Cristo. La nostra preghiera, sia essa comunitaria o personale, vocale o interiore, giunge al Padre soltanto se preghiamo «nel nome» di Gesù. Quindi, la santa umanità di Gesù è la via mediante la quale lo Spirito Santo ci insegna a pregare Dio nostro Padre.

LA PREGHIERA A GESÙ

2665 - La preghiera della Chiesa, nutrita dalla Parola di Dio e dalla cele­brazione della liturgia, ci insegna a pregare il Signore Gesù. Sebbene sia ri­volta soprattutto al Padre, essa comprende però, in tutte le tradizioni litur­giche, forme di preghiera rivolte a Cristo. Alcuni salmi, secondo la loro at­tualizzazione nella preghiera della Chiesa, e il Nuovo Testamento mettono sulle nostre labbra e imprimono nei nostri cuori le invocazioni di questa preghiera a Cristo: Figlio di Dio, Verbo di Dio, Signore, Salvatore, Agnello di Dio, Re, Figlio diletto, Figlio della Vergine, buon Pastore, nostra Vi­ta, nostra Luce, nostra Speranza, nostra Risurrezione, Amico degli uomini…

2666 - Ma il nome che comprende tutto è quello che il Figlio di Dio riceve nell'incarnazione: GESÙ. Il nome divino è indicibile dalle labbra umane, ma il Verbo di Dio, assumendo la nostra umanità, ce lo con­segna e noi possiamo invocarlo: «Gesù», «YHWH salva». Il nome di Gesù contiene tutto: Dio e l'uomo e l'intera Economia della creazio­ne e della salvezza. Pregare «Gesù» è invocarlo, chiamarlo in noi. Il suo nome è il solo che contiene la presenza che esso significa. Gesù è risorto, e chiunque invoca il suo nome accoglie il Figlio di Dio che lo ha amato e ha dato se stesso per lui.

2667 - Questa invocazione di fede estremamente semplice è stata sviluppata, nella tradizione della preghiera, sotto varie forme in Oriente e in Occidente. La formulazione più abituale, trasmessa dai monaci del Sinai, di Siria e dell'Athos, è l'invocazione: «Gesù, Cristo, Figlio di Dio, Signore, abbi pietà di noi, pecca­tori!». Essa coniuga l'inno cristologico di Fil 2,6-11 con l'invocazione del pub­blicano e dei mendicanti della luce. Mediante essa il cuore entra in sintonia con la miseria degli uomini e con la misericordia del loro Salvatore.

2668 - L'invocazione del santo nome di Gesù è la via più semplice della pre­ghiera continua. Ripetuta spesso da un cuore umilmente attento, non si disper­de in «tante parole» (Mt 6,7), ma custodisce la Parola e produce frutto con la perseveranza. Essa è possibile «in ogni tempo», giacché non è un'occupazione accanto ad un'altra, ma l'unica occupazione, quella di amare Dio, che anima e trasfigura ogni azione in Cristo Gesù.

2669 - La preghiera della Chiesa venera e onora il cuore di Gesù, come invoca il suo santissimo nome. Essa adora il Verbo incarnato e il suo cuore che, per amore degli uomini, si è lasciato trafiggere dai nostri peccati. La preghiera cri­stiana ama seguire la via della croce (via crucis) sulle orme del Salvatore. Le stazioni dal pretorio al Golgota e alla tomba scandiscono il cammino di Gesù, che con la sua santa croce ha redento il mondo.

«VIENI, SANTO SPIRITO»

2670 - «Nessuno può dire: Gesù è Signore se non sotto l'azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12,3). Ogni volta che incominciamo a pregare Gesù, è lo Spirito Santo che, con la sua grazia preveniente, ci attira sul cammino della preghiera. Poiché egli ci insegna a pregare ricordandoci Cristo, come non pregare lui stesso? Ecco perché la Chiesa ci invita ad implorare ogni giorno lo Spirito Santo, soprattutto all'inizio e al termi­ne di qualsiasi azione importante. «Se lo Spirito non deve essere adorato, come mi divinizza mediante il Battesimo? E se deve essere adorato, non deve essere oggetto di un cul­to particolare?».

2671 - La forma tradizionale di chiedere lo Spirito è invocare il Padre per mezzo di Cristo nostro Signore perché ci doni lo Spirito Consolato­re. Gesù insiste su questa domanda nel suo nome nel momento stesso in cui promette il dono dello Spirito di verità. Ma la preghiera più semplice e più diretta è anch'essa tradizionale: «Vieni, Santo Spirito», e ogni tradizione liturgica l'ha sviluppata in antifone e inni: «Vieni, Santo Spirito, riempi il cuore dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore» «Re celeste, Spirito Consolatore, Spirito di verità, che sei presente ovunque e tutto riempi, tesoro di ogni bene e sorgente della vita, vieni, abita in noi, purificaci e salvaci, tu che sei buono!».

2672 - Lo Spirito Santo, la cui unzione impregna tutto il nostro essere, è il maestro interiore della preghiera cristiana. È l'artefice della tradi­zione vivente della preghiera. Indubbiamente, vi sono tanti cammini di preghiera quanti sono coloro che pregano, ma è lo stesso Spirito che agisce in tutti e con tutti. È nella comunione dello Spirito Santo che la preghiera cristiana è preghiera nella Chiesa.

In comunione con la santa Madre di Dio.

2673 - Nella preghiera, lo Spirito Santo ci unisce alla persona del Figlio unigenito, nella sua umanità glorificata. Per essa ed in essa la nostra preghiera filiale entra in comunione, nella Chiesa, con la Madre di Gesù.

2674 - Dopo il consenso dato nella fede al momento dell'annunciazione e mantenuto, senza esitazione, sotto la croce, la maternità di Maria si estende ora ai fratelli e alle sorelle del Figlio suo, ancora pellegrini e posti in mezzo a pericoli e affanni. Gesù, l'unico mediatore, è la via della nostra preghiera; Maria, Madre sua e Madre nostra, è pura tra­sparenza di lui: ella «mostra la via» ne è «il segno», secondo l'iconografia tradizionale in Oriente e in Occidente.

2675 - È a partire da questa singolare cooperazione di Maria all'azione dello Spirito Santo che le Chiese hanno sviluppato la preghiera alla santa Madre di Dio, incentrandola sulla persona di Cristo manifestata nei suoi misteri. Negli innumerevoli inni e antifone in cui questa pre­ghiera si esprime, si alternano di solito due movimenti: l'uno «magnifi­ca» il Signore per le «grandi cose» che ha fatto per la sua umile serva e, mediante lei, per tutti gli uomini; l'altro affida alla Madre di Gesù le suppliche e le lodi dei figli di Dio, dal momento che ora ella conosce l'umanità, che in lei è sposata dal Figlio di Dio.

2676 - Questo duplice movimento della preghiera a Maria ha trovato un'espres­sione privilegiata nella preghiera dell'Ave Maria o: «Ave, Maria (rallegrati, Maria) o. Il saluto dell'angelo Gabriele apre la pre­ghiera dell'Ave. È Dio stesso che, tramite il suo angelo, saluta Maria. La no­stra preghiera osa riprendere il saluto a Maria con lo sguardo che Dio ha rivol­to alla sua umile serva, e ci fa rallegrare della gioia che egli trova in lei. «Piena di grazia, il Signore è con te». Le due espressioni del saluto dell'angelo si chiariscono reciprocamente. Maria è piena di grazia perché il Signore è con lei. La grazia della quale è colmata è la presenza di colui che è la sorgente di ogni grazia. o Rallegrati (…), figlia di Gerusalemme! [...] Il Signore [è] in mezzo a te» (Sof 3,14.17). Maria, nella quale il Signore stesso prende dimora, è la personificazione della figlia di Sion, dell'arca dell'Alleanza, il luogo dove abita la gloria del Signore: ella è la «dimora di Dio con gli uomini» (Ap 21,3). «Piena di grazia», Maria è interamente donata a colui che prende dimora in lei e che lei donerà al mondo. Tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù». Dopo il saluto dell'angelo, facciamo nostro quello di Elisabetta. «Piena di Spi­rito Santo» (Lc 1,41), Flisabetta è la prima della lunga schiera di generazioni che chiama Maria beata: «Beata colei che ha creduto...» (Lc 1,45); Maria è «benedetta fra le donne», perché ha creduto nell'adempimento della parola del Signore. Abramo, per la sua fede, è diventato una benedizione per «tutte le fmiglie della terra» (Gn 12,3). Per la sua fede, Maria è diventata la Madre dei credenti, grazie alla quale tutte le nazioni della terra ricevono colui che è la benedizione stessa di Dio: o Benedetto è il frutto del tuo seno, Gesù».

2677 - «Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi...». Con Elisabetta cì meravì­gliamo: «A che debbo che la Madre del mio Signore venga a me?» (Lc 1,43). Maria, poiché ci dona Gesù, suo figlio, è Madre di Dio e Madre nostra; pos­siamo confidarle tutte le nostre preoccupazioni e le nostre implorazioni: ella prega per noi come ha pregato per sé: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Affidandoci alla sua preghiera, con lei ci abbandoniamo alla volontà di Dio: «Sia fatta la tua volontà». Prega per noi, peccatori, adesso e nell'ora della nostra morte». Chiedendo a Maria di pregare per noi, ci riconosciamo poveri peccatori e ci rivolgiamo al­la o Madre della misericordia», alla tutta Santa. Ci affidiamo a lei «adesso», nell'oggi delle nostre esistenze. E la nostra fiducia si dilata per consegnare a lei, fin da adesso, «l'ora della nostra morte». Maria sia ad essa presente come alla morte in croce del Figlio suo, e nell'ora del nostro transito ci accolga come nostra Madre, per condurci al suo Figlio Gesù, in paradiso.

2678 - La pietà medievale dell'Occidente ha sviluppato la preghiera del Rosario, sostitutiva per il popolo della preghiera delle Ore. In Oriente, la forma litanica (…) è rimasta più vicina all'ufficio corale delle Chiese bizantine, mentre le tradizioni armena, copta e siriaca hanno preferito gli inni e i cantici popolari in onore della Madre di Dio. Ma nell'Ave Maria, (…) negli inni di sant'Efrem o di san Gregorio di Narek, la tradizione della preghiera rimane fondamentalmente la stessa.

2679 - Maria è l'orante perfetta, figura della Chiesa. Quando la pre­ghiamo, con lei aderiamo al disegno del Padre, che manda il Figlio suo per salvare tutti gli uomini. Come il discepolo amato, prendiamo con noi la Madre di Gesù, diventata la Madre di tutti i viventi. Possiamo pregare con lei e pregarla. La preghiera della Chiesa è come sostenuta dalla preghiera di Maria, alla quale è unita nella speranza.

In sintesi

2680 - La preghiera è principalmente rivolta al Padre; tuttavia essa è indi­rizzata anche a Gesù, soprattutto attraverso l'invocazione del suo santo nome: «Gesù, Cristo, Figlio di Dio, Signore, abbi pietà di noi, peccatori!».

2681 - «Nessuno può dire: "Gesù è Signore" se non sotto l'azione dello Spirito Santo» (1 Cor 12,3). La Chiesa ci esorta a invocare lo Spi­rito Santo come il maestro interiore della preghiera cristiana.

2682 - In forza della sua singolare cooperazione all'azione dello Spirito Santo, la Chiesa ama pregare in comunione con la Vergine Maria, per magnificare con lei le grandi cose che Dio ha fatto in lei e per affidarle suppliche e lodi.

Articolo 3

GUIDE PER LA PREGHIERA

UNA NUBE DI TESTIMONI

2683 - I testimoni che ci hanno preceduto nel Regno, specialmente co­loro che la Chiesa riconosce come «santi», partecipano alla tradizione vivente della preghiera, mediante l'esempio della loro vita, la trasmissio­ne dei loro scritti e la loro attuale preghiera. Essi contemplano Dio, lo lodano e non cessano di prendersi cura di coloro che hanno lasciato sulla terra. Entrando nella «gioia » del loro Signore, essi sono stati sta­biliti «su molto». La loro intercessione è il più alto servizio che ren­dono al disegno di Dio. Possiamo e dobbiamo pregarli di intercedere per noi e per il mondo intero.

2684 - Nella comunione dei santi si sono sviluppate, lungo la storia del­le Chiese, diverse spiritualità. Il carisma personale di un testimone del­l'amore di Dio per gli uomini si è potuto trasmettere, come «lo spiri­to» di Elia a Eliseo e a Giovanni Battista, perché alcuni discepoli avessero parte a tale spirito. La spiritualità è anche alla confluenza di altre correnti, liturgiche e teologiche, e testimonia dell'inculturazione della fede in un contesto umano e nella sua storia. Le spiritualità cri­stiane partecipano alla tradizione vivente della preghiera e sono guide indispensabili per i fedeli. Esse, nella loro ricca diversità, riflettono l'unica e pura luce dello Spirito Santo. Lo Spirito è veramente il luogo dei santi, e per lo Spirito il santo è una dimora particolarmente adatta, poiché il santo si offre ad abitare con Dio ed è chiamato suo tempio

SERVITORI DELLA PREGHIERA

2685 - La famiglia cristiana è il primo luogo dell'educazione alla pre­ghiera. Fondata sul sacramento del Matrimonio, essa è «la Chiesa do­mestica» dove i figli di Dio imparano a pregare «come Chiesa» e a perseverare nella preghiera. Per i fanciulli in particolare, la preghiera familiare quotidiana è la prima testimonianza della memoria vivente della Chiesa pazientemente risvegliata dallo Spirito Santo.

2686 - I ministri ordinati sono anch'essi responsabili della formazione al­la preghiera dei loro fratelli e delle loro sorelle in Cristo. Servitori del buon Pastore, essi sono ordinati per guidare il popolo di Dio alle vive sorgenti della preghiera: la Parola di Dio, la liturgia, la vita teologale, l'«Oggi» di Dio nelle situazioni concrete.

2687 - Numerosi religiosi hanno dedicato l'intera loro vita alla preghie­ra. Dopo gli anacoreti del deserto d'Egitto, eremiti, monaci e monache hanno consacrato il loro tempo alla lode di Dio e all'intercessione per il suo popolo. La vita consacrata non si sostiene e non si diffonde sen­za la preghiera; questa è una delle vive sorgenti della contemplazione e della vita spirituale nella Chiesa.

2688 - La catechesi dei fanciulli, dei giovani e degli adulti mira a che la Parola di Dio sia meditata nella preghiera personale, sia attualizzata nella preghiera liturgica ed interiorizzata in ogni tempo perché dia il suo frutto in una vita nuova. La catechesi rappresenta anche il momento in cui la pietà popolare può essere vagliata ed educata. La memorizzazione delle preghiere fondamentali offre un supporto indispensabile alla vita della pre­ghiera, però è di somma importanza che se ne faccia gustare il senso.

2689 - I gruppi di preghiera, come pure le «scuole di preghiera» sono, oggi, uno dei segni e uno degli stimoli al rinnovamento della preghiera nella Chiesa, a condizione che si attinga alle fonti autentiche della pre­ghiera cristiana. La sollecitudine per la comunione è segno della vera preghiera nella Chiesa.

2690 - Lo Spirito Santo dà ad alcuni fedeli doni di saggezza, di fede e di discernimento in vista di quel bene comune che è la preghiera (dire­zione spirituale). Gli uomini e le donne che ne sono dotati sono veri servitori della vivente tradizione della preghiera: Per questo l'anima che vuole progredire nella perfezione, deve, secondo il consiglio di san Giovanni della Croce, «guardare attentamente in quali mani si mette perché il discepolo sarà uguale al maestro, il figlio al padre». E ancora: «E’ necessario che [la guida] sia saggia, prudente e ricca di esperienza. [...] Se i direttori non hanno anche l'esperienza di quanto è più sublime, mai riusciranno ad incamminarvi le anime, allorché Dio ve le vorrà condurre, anzi non le comprenderanno neppure.

LUOGHI FAVOREVOLI ALLA PREGHIERA

2691 - La chiesa, casa di Dio, è il luogo proprio della preghiera liturgica per la comunità parrocchiale. E anche il luogo privilegiato dell'ado­razione della presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento. La scelta di un luogo adatto non è indifferente alla verità della pre­ghiera: per la preghiera personale, questo luogo può essere un «angolo di preghie­ra», con la Sacra Scrittura e con delle icone, per essere là, «nel segreto o davanti al nostro Padre. In una famiglia cristiana, questa specie di piccolo oratorio favorisce la preghiera in comune; - nelle regioni in cui ci sono monasteri, è vocazione di queste comunità favo­rire la condivisione della preghiera delle Ore con i fedeli e permettere la solitudine necessaria ad una preghiera personale più intensa; pellegrinaggi evocano il nostro cammino sulla terra verso il cielo. Sono tradizionalmente tempi forti di rinnovamento della preghiera. I santuari, per i pellegrini che sono alla ricerca delle loro vive sorgenti, sono luoghi ecce­zionali per vivere «come Chiesa» le forme della preghiera cristiana.

In sintesi

2692 - Nella sua preghiera la Chiesa pellegrina sulla terra è unita a quella dei santi, dei quali chiede l'intercessione.

2693 - Le varie spiritualità cristiane partecipano alla tradizione vivente della preghiera e sono guide preziose per la vita spirituale.

2694 - La famiglia cristiana è il primo luogo dell'educazione alla preghiera.

2695 - I ministri ordinati, la vita consacrata, la catechesi, i gruppi di pre­ghiera, la «direzione spirituale» assicurano, nella Chiesa, un aiuto per la preghiera.

2696 - I luoghi più propizi per la preghiera sono l'oratorio personale o fa­miliare, i monasteri, i santuari meta di pellegrinaggio e, soprattutto, la chiesa, che è il luogo proprio della preghiera liturgica per lo comunità parrocchiale e il luogo privilegiato dell'adorazione eucari­stica.

CAPITOLO TERZO

LA VITA DI PREGHIERA

2697 - La preghiera è la vita del cuore nuovo. Deve animarci in ogni momento. Noi, invece, dimentichiamo colui che è la nostra Vita e il no­stro Tutto. Per questo i Padri della vita spirituale, nella tradizione del Deuteronomio e dei profeti, insistono sulla preghiera come «ricordo di Dio», risveglio frequente della «memoria del cuore»: «E’ necessario ricordarsi di Dio più spesso di quanto si respiri». Ma non si può pregare «in ogni tempo» se non si prega in determinati momenti, volendolo: sono i tempi forti della preghiera cristiana, per intensità e durata.

2698 - La Tradizione della Chiesa propone ai fedeli ritmi di preghiera destinati ad alimentare la preghiera continua. Alcuni sono quotidiani: la preghiera del mattino e della sera, prima e dopo i pasti, la liturgia delle Ore. La domenica, al cui centro sta l'Eucaristia, è santificata soprattut­to mediante la preghiera. Il ciclo dell'anno liturgico e le sue grandi feste rappresentano i ritmi fondamentali della vita di preghiera dei cristiani.

2699 - Il Signore conduce ogni persona secondo strade e modi che a lui piacciono. Ogni fedele, a sua volta, gli risponde secondo la risoluzione del proprio cuore e le espressioni personali della propria preghiera. Tuttavia la tradizione cristiana ha conservato tre espressioni maggiori della vita di preghiera: la preghiera vocale, la meditazione, la preghiera contemplativa. Esse hanno in comune un tratto fondamentale: il racco­glimento del cuore. Tale vigilanza nel custodire la Parola e nel rimanere alla presenza di Dio fa di queste tre espressioni dei momenti forti della vita di preghiera.

Articolo 1

LE ESPRESSIONI DELLA PREGHIERA

I. La preghiera vocale.

2700 - Con la sua Parola Dio parla all'uomo. E la nostra preghiera prende corpo mediante parole, mentali o vocali. Ma la cosa più impor­tante è la presenza del cuore a colui al quale parliamo nella preghiera. «Che la nostra preghiera sia ascoltata dipende non dalla quantità delle parole, ma dal fervore delle nostre anime».

2701 - La preghiera vocale è una componente indispensabile della vita cristiana. Ai discepoli, attratti dalla preghiera silenziosa del loro Mae­stro, questi insegna una preghiera vocale: il «Padre nostro». Gesù non ha pregato soltanto con le preghiere liturgiche della sinagoga; i Vangeli ce lo presentano mentre esprime ad alta voce la sua preghiera personale, dalla esultante benedizione del Padre, fino all'angoscia del Getse­mani.

2702 - Il bisogno di associare i sensi alla preghiera interiore risponde ad un'esigenza della natura umana. Siamo corpo e spirito, e quindi avver­tiamo il bisogno di tradurre esteriormente i nostri sentimenti. Dobbia­mo pregare con tutto il nostro essere per dare alla nostra supplica la maggiore forza possibile.

2703 - Questo bisogno risponde anche ad una esigenza divina. Dio cer­ca adoratori in Spirito e verità, e, conseguentemente, la preghiera che sale viva dalle profondità dell'anima. Vuole anche l'espressione esteriore che associa il corpo alla preghiera interiore, affinché la preghiera gli renda l'omaggio perfetto di tutto ciò a cui egli ha diritto.

2704 - Essendo esteriore e così pienamente umana, la preghiera vocale è per eccellenza la preghiera delle folle. Ma anche la più interiore delle preghiere non potrebbe fare a meno della preghiera vocale. La preghie­ra diventa interiore nella misura in cui prendiamo coscienza di colui «al quale parliamo». Allora la preghiera vocale diventa una prima forma della preghiera contemplativa.

II. La meditazione.

2705 - La meditazione è soprattutto una ricerca. Lo spirito cerca di comprendere il perché e il come della vita cristiana, per aderire e ri­spondere a ciò che il Signore chiede. Ci vuole un'attenzione difficile da disciplinare. Abitualmente ci si aiuta con qualche libro, e ai cristiani non mancano: la Sacra Scrittura, particolarmente il Vangelo, le sante icone, i testi liturgici del giorno o del tempo, gli scritti dei Padri della vita spirituale, le opere di spiritualità, il grande libro della creazione e quello della storia, la pagina dell'«Oggi» di Dio.

2706 - Meditare quanto si legge porta ad appropriarsene, confrontando­lo con se stessi. Qui si apre un altro libro: quello della vita. Si passa dai pensieri alla realtà. A misura dell'umiltà e della fede che si ha, vi si scoprono i moti che agitano il cuore e li si può discernere. Si tratta di fare la verità per venire alla luce: «Signore, che cosa vuoi che io faccia?».

2707 - I metodi di meditazione sono tanti quanti i maestri spirituali. Un cristiano deve meditare regolarmente, altrimenti rassomiglia ai tre primi terreni della parabola del seminatore. Ma un metodo non è che una guida; l'importante è avanzare, con lo Spirito Santo, sull'unica via della preghiera: Cristo Gesù.

2708 - La meditazione mette in azione il pensiero, l'immaginazione, l'e­mozione e il desiderio. Questa mobilitazione è necessaria per approfon­dire le convinzioni di fede, suscitare la conversione del cuore e rafforza­re la volontà di seguire Cristo. La preghiera cristiana di preferenza si sofferma a meditare «i misteri di Cristo», come nella lecuo divina o nel Rosario. Questa forma di riflessione orante ha un grande valore, ma la preghiera cristiana deve tendere più lontano: alla conoscenza d'amore del Signore Gesù, all'unione con lui.

La preghiera contemplativa.

2709 - Che cosa è la preghiera contemplativa? Santa Teresa risponde: «L'orazione mentale, a mio parere, non è che un intimo rapporto di amicizia, nel quale ci si intrattiene spesso da solo a solo con quel Dio da cui ci si sa amati». La preghiera contemplativa cerca «l'amore dell'anima mia» (Ct l,7). È Gesù e, in lui, il Padre. Egli è cercato, perché il desiderio è sempre l'inizio dell'amore, ed è cercato nella fede pura, quella fede che ci fa nascere da lui e vivere in lui. Si può meditare anche nella preghie­ra contemplativa, ma lo sguardo è rivolto al Signore.

2710 - La scelta del tempo e della durata della preghiera contemplativa dipende da una volontà determinata, rivelatrice dei segreti del cuore. Non si fa preghiera contemplativa quando si ha tempo: si prende il tempo di essere per il Signore, con la ferma decisione di non riprenderglielo lungo il cammino, quali che siano le prove e l'aridità dell'incontro. Non si può meditare sempre; sempre si può entrare in preghiera contemplativa, indipendentemente dalle condizioni di salute, di lavoro o di sentimento. Il cuore è il luogo della ricerca e dell'incontro, nella povertà e nella fede.

2711 - L'entrata nella preghiera contemplativa è analoga a quella della liturgia eucaristica: «raccogliere» il cuore, concentrare tutto il nostro es­sere sotto l'azione dello Spirito Santo, abitare la dimora del Signore che siamo noi, ridestare la fede per entrare nella presenza di colui che ci attende, far cadere le nostre maschere e rivolgere il nostro cuore ver­so il Signore che ci ama, al fine di consegnarci a lui come un'offerta da purificare e da trasformare.

2712 - La preghiera contemplativa è la preghiera del figlio di Dio, del peccatore perdonato che si apre ad accogliere l'amore con cui è amato e che vuole corrispondervi amando ancora di più. Ma egli sa che l'amore con cui risponde è quello che lo Spirito effonde nel suo cuore; infatti, tutto è grazia da parte di Dio. La preghiera contemplativa è l'abbandono umile e povero all'amorosa volontà del Padre in unione sempre più profonda con il Figlio suo diletto.

2713 - Così la preghiera contemplati va è la più semplice espressione del mistero della preghiera. La preghiera contemplativa è un dono, una gra­zia; non può essere accolta che nell'umiltà e nella povertà. La preghiera contemplativa è un rapporto di alleanza, concluso da Dio nella profon­dità del nostro essere. La preghiera contemplativa è comunione: in essa la Santissima Trinità conforma l'uomo, immagine di Dio, «a sua somi­glianza».

2714 - La preghiera contemplativa è anche il tempo forte per eccellenza della preghiera. Durante la preghiera contemplativa, il Padre ci rafforza potentemente con il suo Spirito nell'uomo interiore, perché Cristo abiti per la fede nei nostri cuori e noi veniamo radicati e fondati nella carità.

2715 - La preghiera contemplativa è sguardo di fede fissato su Gesù. «lo lo guardo ed egli mi guarda», diceva, al tempo del suo santo Curato, il contadino d'Ars in preghiera davanti al Tabernacolo. Que­sta attenzione a lui è rinuncia all'«io». Il suo sguardo purifica il cuore. La luce dello sguardo di Gesù illumina gli occhi del nostro cuore; ci in­segna a vedere tutto nella luce della sua verità e della sua compassione per tutti gli uomini. La preghiera contemplativa porta il suo sguardo anche sui misteri della vita di Cristo. In questo modo conduce alla «conoscenza interiore del Signore» per amarlo e seguirlo di più.

2716 - La preghiera contemplativa è ascolto della Parola di Dio. Lungi dall'essere passivo, questo ascolto si identifica con l'obbedienza della fe­de, incondizionata accoglienza del servo e adesione piena d'amore del figlio. Partecipa al «si» del Figlio fattosi Servo e al «fiat » della sua umile serva.

2717 - La preghiera contemplativa è silenzio, «simbolo del mondo futu­ro» «silenzioso amore». Nella preghiera contemplativa le parole non sono discorsi, ma come ramoscelli che alimentano il fuoco del­l'amore. È in questo silenzio, insopportabile all'uomo «esteriore», che il Padre ci dice il suo Verbo incarnato, sofferente, morto e risorto, e che lo Spirito filiale ci fa partecipare alla preghiera di Gesù.

2718 - La preghiera contemplativa è unione alla preghiera di Cristo nel­la misura in cui fa partecipare al suo mistero. Il mistero di Cristo è celebrato dalla Chiesa nell'Eucaristia, e lo Spirito Santo lo fa vivere nella preghiera contemplativa, affinché sia manifestato attraverso la carità in atto.

2719 - La preghiera contemplativa è una comunione d'amore portatrice di vita per la moltitudine, nella misura in cui è consenso a dimorare nella notte oscura della fede. La notte pasquale della risurrezione passa attraverso quella dell'agonia e della tomba. Il suo Spirito (e non la «carne» che è «debole») fa si che nella preghiera contemplativa traduciamo in vita questi tre tempi forti. E’ necessario acconsentire a vegliare un'ora con lui.

In sintesi

2720 - La Chiesa esorta i fedeli a una preghiera regolare: preghiere quoti­diane, liturgia delle Ore, Eucaristia domenicale, feste dell'anno liturgico.

2721 - La tradizione cristiana comprende tre espressioni maggiori della vita di preghiera: la preghiera vocale, la meditazione e la preghiera contemplativa. Esse hanno in comune il raccoglimento del cuore.

2722 - La preghiera vocale, basata sull'unità del corpo e dello spirito nella natura umana, associa il corpo alla preghiera interiore del cuore, sull'esempio di Cristo che prega il Padre suo e insegna il «Padre nostro» ai suoi discepoli.

2723 - La meditazione é una ricerca orante che mobilita il pensiero, l'im­maginazione, l'emozione, il desiderio. Essa ha come fine l'appropria­zione nella fede del soggetto considerato, considerato con la realtà della propria vita.

2724 - La preghiera contemplativa é l'espressione semplice del mistero della preghiera, uno sguardo di fede fissato su Gesù, un ascolto della pa­rola di Dio, un silenzioso amore. Realizza l'unione alla preghiera di Cristo nella misura in cui ci fa partecipare al suo mistero.

Articolo 2

IL COMBATTIMENTO DELLA PREGHIERA

2725 - La preghiera è un dono della grazia e da parte nostra una decisa risposta. Presuppone sempre uno sforzo. I grandi oranti dell'Antica Al­leanza prima di Cristo, come pure la Madre di Dio e i santi con lui ce lo insegnano: la preghiera è una lotta. Contro chi? Contro noi stessi e contro le astuzie del tentatore che fa di tutto per distogliere l'uomo dal­la preghiera, dall'unione con il suo Dio. Si prega come si vive, perché si vive come si prega. Se non si vuole abitualmente agire secondo lo Spirito di Cristo, non si può nemmeno abitualmente pregare nel suo nome. Il «combattimento spirituale» della vita nuova del cristiano è inseparabile dal combattimento della preghiera.

I. Le obiezioni alla preghiera.

2726 - Nel combattimento della preghiera dobbiamo opporci, in noi stessi e intorno a noi, ad alcune concezioni erronee della preghiera. Alcu­ni vedono in essa una semplice operazione psicologica, altri uno sforzo di concentrazione per arrivare al vuoto mentale. C'è chi la riduce ad al­cune attitudini e parole rituali. Nell'inconscio di molti cristiani, pregare è un'occupazione incompatibile con tutto ciò che hanno da fare: non ne hanno il tempo. Coloro che cercano Dio mediante la preghiera si scoraggiano presto allorquando ignorano che la preghiera viene anche dallo Spirito Santo e non solo da loro.

2727 - Dobbiamo anche opporci ad alcune mentalità di «questo mon­do»; se non siamo vigilanti, ci contaminano, per esempio: l'affermazio­ne secondo cui vero sarebbe soltanto ciò che è verificato dalla ragione e dalla scienza (pregare è, invece, un mistero che oltrepassa la nostra coscienza e il nostro inconscio); i valori della produzione e del rendi­mento (la preghiera, improduttiva, è dunque inutile); il sensualismo e le comodità, eretti a criteri del vero, del bene e del bello (la preghiera, invece, «amore della Bellezza» (…), è passione per la gloria del Dio vivo e vero); per reazione contro l'attivismo, ecco la preghiera pre­sentata come fuga dal mondo (la preghiera cristiana, invece, non è un estraniarsi dalla storia né un divorzio dalla vita).

2728 - Infine la nostra lotta deve affrontare ciò che sentiamo come no­stri insuccessi nella preghiera: scoraggiamento dinanzi alle nostre aridità, tristezza di non dare tutto al Signore, poiché abbiamo «molti beni», delusione per non essere esauditi secondo la nostra volontà, ferita al nostro orgoglio che si ostina sulla nostra indegnità di peccatori, allergia alla gratuità della preghiera, ecc. La conclusione è sempre la stessa: perché pregare? Per vincere tali ostacoli, si deve combattere in vista di ottenere l'umiltà, la fiducia e la perseveranza.

II. L'umile vigilanza del cuore.

DI FRONTE ALLE DIFFICOLTÀ DELLA PREGHIERA

2729 - La difficoltà abituale della nostra preghiera è la distrazione. Può essere relativa alle parole e al loro senso, nella preghiera vocale; può invece riguardare, più profondamente, colui che preghiamo, nella pre­ghiera vocale (liturgica o personale), nella meditazione e nella preghiera contemplativa. Andare a caccia delle distrazioni equivarrebbe a cadere nel loro tranello, mentre basta tornare al nostro cuore: una distrazione ci rivela ciò a cui siamo attaccati, e questa umile presa di coscienza da­vanti al Signore deve risvegliare il nostro amore preferenziale per lui, offrendogli risolutamente il nostro cuore, perché lo purifichi. Qui si situa il combattimento: nella scelta del Padrone da servire.

2730 - Positivamente, la lotta contro il nostro io possessivo e dominato­re è la vigilanza, la sobrietà del cuore. Quando Gesù insiste sulla vigi­lanza, essa è sempre relativa a lui, alla sua venuta nell'ultimo giorno ed ogni giorno: «Oggi». Lo Sposo viene a mezzanotte; la luce che non deve spegnersi è quella della fede: «Di te ha detto il mio cuore: "Cer­cate il suo volto"» (Sal 27,8).

2731 - Un'altra difficoltà, specialmente per coloro che vogliono sincera­mente pregare, è l'aridità. Fa parte dell'orazione nella quale il cuore è insensibile, senza gusto per i pensieri, i ricordi e i sentimenti anche spi­rituali. E’ il momento della fede pura, che rimane con Gesù nell'agonia e nella tomba. «Il chicco di grano, (…) se muore, produce molto frut­to» (Gv 12,24). Se l'aridità è dovuta alla mancanza di radice, perché la parola è caduta sulla pietra, il combattimento rientra nel campo della conversione.

DI FRONTE ALLE TENTAZIONI NELLA PREGHIERA

2732 - La tentazione più frequente, la più nascosta, è la nostra mancan­za di fede. Si manifesta non tanto in una incredulità dichiarata, quanto piuttosto in una preferenza di fatto. Quando ci mettiamo a pregare, mille lavori o preoccupazioni, ritenuti urgenti, si presentano come prio­ritari; ancora una volta è il momento della verità del cuore e del suo amore preferenziale. Talvolta ci rivolgiamo al Signore come all'ultimo rifugio: ma ci crediamo veramente? Talvolta prendiamo il Signore come alleato, ma il cuore è ancora nella presunzione. In tutti i casi, la nostra mancanza di fede palesa che non siamo ancora nella disposizione del cuore umile: «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5).

2733 - Un'altra tentazione, alla quale la presunzione apre la porta, è l'accidia. Con questo termine i Padri della vita spirituale intendono una forma di depressione dovuta al rilassamento dell'ascesi, ad un venire meno della vigilanza, alla mancata custodia del cuore. «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole» (Mt 26,41). Quanto più si cade dall'alto, tanto più ci si fa male. Lo scoraggiamento, doloroso, è l'opposto della presunzione. L'umile non si stupisce della propria miseria; essa lo con­duce ad una maggior fiducia, a rimanere saldo nella costanza.

III. La confidenza filiale.

2734 - La fiducia filiale è messa alla prova e si manifesta nella tribolazione. La difficoltà principale riguarda la preghiera di domanda, nell'intercessione per sé o per gli altri. Alcuni smettono perfino di pre­gare perché, pensano, la loro supplica non è esaudita. Qui si pongono due interrogativi: Perché riteniamo che la nostra domanda non sia stata esaudita? In che modo la nostra preghiera è esaudita, è «efficace»?

PERCHE' LAMENTARCI DI NON ESSERE ESAUDITI?

2735 - Una constatazione dovrebbe innanzi tutto sorprenderci. Quando lodiamo Dio o gli rendiamo grazie per i suoi benefici in generale, noi non ci preoccupiamo affatto di sapere se la nostra preghiera gli è gradi­ta. Invece abbiamo la pretesa di vedere il risultato della nostra doman­da. Qual è, dunque, l'immagine di Dio che motiva la nostra preghiera: un mezzo di cui servirci oppure il Padre del Signore nostro Gesù Cristo?

2736 - Siamo convinti che «nemmeno sappiamo che cosa sia convenien­te domandare» (Rm 8,26)? Chiediamo a Dio «i beni convenienti»? Il Padre nostro sa di quali cose abbiamo bisogno, prima che gliele chie­diamo, ma aspetta la nostra domanda perché la dignità dei suoi figli sta nella loro libertà. Pertanto è necessario pregare con il suo Spirito di libertà, per poter veramente conoscere il suo desiderio.

2737 - «Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri» (Gc 4,2-3). Se noi chiediamo con un cuore diviso, «adultero», Dio non ci può esaudire, perché egli vuole il nostro bene, la nostra vita. «O forse pensate che la Scrittura dichiari invano: “Fino alla gelosia ci ama lo Spirito che egli ha fatto abitare in noi”?» (Gc 4,5). Il nostro Dio è «geloso» di noi, e questo è il segno della verità del suo amore. Entriamo nel desiderio del suo Spirito e saremo esauditi: «Non rammaricarti se non ricevi subito da Dio ciò che gli chiedi; egli vuole beneficarti molto di più, per la tua perseveranza nel rimanere con lui nella preghiera». gli vuole «che nella preghiera si eserciti il nostro desiderio, in modo che diventiamo capaci di ricevere ciò che egli è pronto a darci».

IN CHE MODO LA NOSTRA PREGHIERA E' EFFICACE?

2738 - La rivelazione della preghiera nell'Economia della salvezza ci insegna che la fede si appoggia sull'azione di Dio nella storia. La fiducia filiale è suscitata dall'azione di Dio per eccellenza: la passione e la ri­surrezione del Figlio suo. La preghiera cristiana è cooperazione alla provvidenza di Dio, al suo disegno di amore per gli uomini.

2739 - In san Paolo questa fiducia è audace, fondata sulla preghiera dello Spirito in noi e sull'amore fedele del Padre che ci ha donato il suo unico Figlio. La trasformazione del cuore che prega è la prima risposta alla nostra domanda.

2740 - La preghiera di Gesù fa della preghiera cristiana una domanda efficace. Egli ne è il modello, egli prega in noi e con noi. Poiché il cuo­re del Figlio non cerca se non ciò che piace al Padre, come il cuore dei figli di adozione potrebbe attaccarsi ai doni piuttosto che al Donatore?

2741 - Gesù prega anche per noi, al nostro posto e in nostro favore. Tutte le nostre domande sono state raccolte una volta per sempre nel suo grido sulla croce ed esaudite dal Padre nella sua risurrezione, ed è per questo che egli non cessa di intercedere per noi presso il Padre. Se la nostra preghiera è risolutamente unita a quella di Gesù, nella fiducia e nell'audacia filiale, noi otteniamo tutto ciò che chiediamo nel suo nome; ben più di questa o quella cosa: lo stesso Spirito Santo, che comprende tutti i doni.

IV. Perseverare nell'amore.

2742 - «Pregate incessantemente» (I Ts 5,17), «rendendo continuamen­te grazie per ogni cosa a Dio Padre nel nome del Signore nostro Gesù Cristo» (Ef 5,20); «pregate incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseve­ranza e pregando per tutti i santi» (Ef 6,18). «Non ci è stato coman­dato di lavorare, di vegliare e di digiunare continuamente, mentre la preghiera incessante è una legge per noi». Questo ardore instancabile non può venire che dall'amore. Contro la nostra pesantezza e la nostra pigrizia il combattimento della preghiera è il combattimento dell'amore umile, confidente, perseverante. Questo amore apre i nostri cuori su tre evidenze di fede, luminose e vivificanti.

2743 - Pregare è sempre possibile: il tempo del cristiano è il tempo di Cristo risorto, che è con noi «tutti i giorni» (Mt 28,20), quali che sia­no le tempeste. Il nostro tempo è nelle mani di Dio: «È possibile, anche al mercato o durante una passeggiata solitaria, fare una frequente e fervorosa preghiera. È possibile pure nel vostro nego­zio, sia mentre comperate sia mentre vendete, o anche mentre cucinate».

2744 - Pregare è una necessità vitale. La prova contraria non è meno convincente: se non ci lasciamo guidare dallo Spirito, ricadiamo sotto la schiavitù del peccato. Come può lo Spirito Santo essere la «nostra vita», se il nostro cuore è lontano da lui? Niente vale quanto la preghiera; essa rende possibile ciò che è impos­sibile, facile ciò che è difficile [...] È impossibile che cada in peccato l'uomo che prega». «Chi prega, certamente si salva; chi non prega certamente si danna».

2745 - Preghiera e vita cristiana sono inseparabili, perché si tratta del medesimo amore e della medesima abnegazione che scaturisce dall'amore. La medesima conformità filiale e piena d'amore al disegno d'a­more del Padre. La medesima unione trasformante nello Spirito Santo, che sempre più ci configura a Cristo Gesù. Il medesimo amore per tutti gli uomini, quell'amore con cui Gesù ci ha amati. «Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome ve lo concederà. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri» (Gv 15,16-17). Prega incessantemente colui che unisce la preghiera alle opere e le opere alla preghiera. Soltanto così possiamo ritenere realizzabile il prin­cipio di pregare incessantemente.

V. La preghiera dell'Ora di Gesù.

2746 - Quando la sua Ora è giunta, Gesù prega il Padre. La sua pre­ghiera, la più lunga trasmessaci dal Vangelo, abbraccia tutta l'Econo­mia della creazione e della salvezza, come anche la sua morte e la sua risurrezione. La preghiera dell'Ora di Gesù rimane sempre la sua pre­ghiera, così come la sua pasqua, avvenuta «una volta per tutte», resta presente nella liturgia della sua Chiesa.

2747 - La tradizione cristiana a ragione la definisce la «preghiera sacer­dotale» di Gesù. È quella del nostro Sommo Sacerdote, è inseparabile dal suo sacrificio, dal suo passaggio («pasqua») al Padre, dove egli è interamente «consacrato» al Padre.

2748 - In questa preghiera pasquale, sacrificale, tutto ricapitolato» in lui: Dio e il mondo, il Verbo e la carne, la vita eterna e il tempo, l'amore che si consegna e il peccato che lo tradisce, i discepoli presenti e quelli che per la loro parola crederanno in lui, l'annientamento e la gloria. È la preghiera dell'Unità.

2749 - Gesù ha portato a pieno compimento l'opera del Padre, e la sua preghiera, come il suo sacrificio, si estende fino alla consumazione dei tempi. La preghiera dell'Ora riempie gli ultimi tempi e li porta verso la loro consumazione. Gesù, il Figlio al quale il Padre ha dato tutto, sì consegna interamente al Padre, e, al tempo stesso, si esprime con una libertà sovrana per il potere che il Padre gli ha dato sopra ogni essere umano. Il Figlio, che si è fatto Servo, è il Signore, il nostro Sommo Sacerdote che prega per noi è anche colui che prega in noi e il Dio che ci esaudisce.

2750 - È entrando nel santo nome del Signore Gesù che noi possiamo accogliere, dall'interno, la preghiera che egli ci insegna: «Padre no­stro!». La sua «preghiera sacerdotale» ispira, dall'interno, le grandi domande del «Pater»: la sollecitudine per il nome del Padre, la pas­sione per il suo Regno (la gloria), il compimento della volontà del Padre, del suo disegno di salvezza e la liberazione dal male.

2751 - Infine è in questa preghiera che Gesù ci rivela e ci dona la «conoscenza» indissociabile del Padre e del Figlio, che è il mistero stesso della vita di preghiera.

In sintesi

2752 - La preghiera suppone uno sforzo e una lotta contro noi stessi e contro le insidie del tentatore. Il combattimento della preghiera è inseparabile dal «combattimento spirituale», necessario per agire abitualmente secondo lo Spirito di Cristo: si prega come si vive, perché si vive come si prega.

2753 - Nel combattimento della preghiera dobbiamo affrontare concezioni erronee, varie mentalità diffuse, l'esperienza dei nostri insuccessi. A queste tentazioni, che inducono a dubitare dell'utilità e perfino della possibilità della preghiera, occorre rispondere con l'umiltà, la fiducia e la perseveranza.

2754 - Le principali difficoltà nell'esercizio della preghiera sono la distra­zione e l'aridità. Il rimedio si trova nella fede, nella conversione e nella custodia del cuore.

2755 - Due tentazioni frequenti minacciano la preghiera: la mancanza di fede e l'accidia, che è una forma di depressione, dovuta al rilassa­mento dell'ascesi, e che porta allo scoraggiamento.

2756 - La fiducia filiale viene messa alla prova quando abbiamo la sensa­zione di non essere sempre esauditi. Il Vangelo ci invita a interro­garci sulla conformità della nostra preghiera al desiderio dello Spirito.

2757 - «Pregate incessantemente» (I Ts 5,17). È sempre possibile prega­re. Anzi, è una necessità vitale. Preghiera e vita cristiana sono inse­parabili.

2758 - La preghiera dell'Ora di Gesù, detta a ragione «preghiera sacerdo­tale», ricapitola l'intera Economia della creazione e della salvezza. Essa ispira le grandi petizioni del «Padre nostro».

SEZIONE SECONDA

LA PREGHIERA DEL SIGNORE:

«PADRE NOSTRO»

2759 - «Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando eb­be finito uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli"» (Lc 11,1). E in rispo­sta a questa domanda che il Signore affida ai suoi discepoli e alla sua Chiesa la preghiera cristiana fondamentale. San Luca ne dà un testo breve (di cinque domande), san Matteo una versione più ampia (di sette domande). La tradizione liturgica della Chiesa ha sempre usato il testo di san Matteo (Mt 6,9-13). Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Dacci oggi il nostro pane quotidiano, e rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori, e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male.

2760 - Ben presto l'uso liturgico ha concluso la Preghiera del Signore con una dossologia. Nella Didaché: «Perchè tuo è il potere e la gloria nei secoli». Le Costituzioni apostoliche aggiungono all'inizio della dossologia: «il regno»; ed è questa la formula usata ai nostri giorni nella preghiera ecumenica. La tradi­zione bizantina aggiunge dopo «la gloria»: «Padre, Figlio e Spirito Santo». Il Messale Romano sviluppa l'ultima domanda nella prospettiva esplicita della attesa della beata speranza e della venuta del Signore nostro Gesù Cnsto se­gue l'acclamazione dell'assemblea, che riprende la dossologia delle Costituzioni apostoliche.

Articolo 1

«LA SINTESI DI TUTTO IL VANGELO»

2761 - «L'Orazione domenicale è veramente la sintesi di tutto il Vange­lo». «Dopo che il Signore ci ebbe trasmesso questa formula di pre­ghiera, aggiunse: “Chiedete e ottenete” (Gv 16,24). Ognuno può, dun­que, innalzare al cielo preghiere diverse secondo i suoi propri bisogni, però incominciando sempre con la Preghiera del Signore, la quale resta la preghiera fondamentale».

I. AI centro delle Scritture.

2762 - Dopo avere mostrato come i salmi siano il principale alimento della preghiera cristiana e confluiscano nelle domande del «Padre nostro», sant'Agostino conclude: «Se passi in rassegna tutte le parole delle preghiere contenute nella Sa­cra Scrittura, per quanto io penso, non ne troverai una che non sia contenuta e compendiata in questa preghiera insegnataci dal Signore».

2763 - Tutte le Scritture (la Legge, i Profeti e i Salmi) sono compiute in Cristo. Il Vangelo è questa «Lieta Notizia». Il suo primo annunzio è riassunto da san Matteo nel discorso della montagna. Ebbene, la pre­ghiera al Padre nostro è al centro di questo annuncio. E in questo con­testo che si illumina ogni domanda della preghiera che ci ha lasciato il Signore: «La preghiera del Pater noster è perfettissima [...]. Nella Preghiera del Signore non solo vengono domandate tutte le cose che possiamo retta­mente desiderare, ma anche nell'ordine in cui devono essere desiderate: cosicché questa preghiera non solo insegna a chiedere, ma plasma anche tutti i nostri affetti».

2764 - Il discorso della montagna è dottrina di vita, l'Orazione domenicale è preghiera, ma nell'uno e nell'altra lo Spirito del Signore dà una nuova forma ai nostri desideri, ai moti interiori che animano la nostra vita. Gesù ci insegna la vita nuova con le sue parole e ci educa a chiederla mediante la preghiera. Dalla rettitudine della nostra preghiera dipenderà quella della nostra vita in lui.

II. «La Preghiera del Signore».

2765 - L'espressione tradizionale «Orazione domenicale» (cioè «Pre­ghiera del Signore») significa che la preghiera al Padre nostro ci è inse­gnata e donata dal Signore Gesù. Questa preghiera che ci viene da Gesù è veramente unica: è «del Signore». Da una parte, infatti, con le parole di questa preghiera, il Figlio unigenito ci dà le parole che il Padre ha dato a lui: è il maestro della nostra preghiera. Dall'altra, Verbo incarnato, egli conosce nel suo cuore di uomo i bisogni dei suoi fratelli e delle sue sorelle in umanità, e ce li manifesta: è il modello della nostra preghiera.

2766 - Ma Gesù non ci lascia una formula da ripetere meccanicamen­te. Come per qualsiasi preghiera vocale, è attraverso la Parola di Dio che lo Spirito Santo insegna ai figli di Dio a pregare il loro Padre. Ge­sù non ci dà soltanto le parole della nostra preghiera filiale: ci dà al tempo stesso lo Spirito, per mezzo del quale quelle parole diventano in noi «spirito e vita » (Gv 6,63). Di più: la prova e la possibilità della nostra preghiera filiale è che il Padre «ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del suo Figlio che grida: Abbà, Padre!» (GaI 4,6). Poiché la no­stra preghiera interpreta i nostri desideri presso Dio, è ancora «colui che scruta i cuori», il Padre, che «sa quali sono i desideri dello Spiri­to, poiché egli intercede per i credenti secondo i desideri di Dio» (Rm 8,27). La preghiera al Padre nostro sì inserisce nella missione misteriosa del Figlio e dello Spirito.

III. La preghiera della Chiesa.

2767 - Questo dono inscindibile, delle parole del Signore e dello Spirito Santo che le vivifica nel cuore dei credenti, è stato ricevuto e vissuto dalla Chiesa fin dalle origini. Le prime comunità pregano la Preghiera del Signore «tre volte al giorno», in luogo delle «Diciotto benedizio­ni» in uso nella pietà ebraica.

2768 - Secondo la Tradizione apostolica, la Preghiera del Signore è essenzialmente radicata nella preghiera liturgica: Il Signore Ci insegna a pregare insieme per tutti i nostri fratelli. Infatti egli non dice Padre mio che sei nei cieli, ma Padre nostro, affinché la nostra preghiera salga, da un cuore solo, per tutto il corpo della Chiesa». In tutte le tradizioni liturgiche la Preghiera del Signore è parte inte­grante delle Ore maggiori dell'Ufficio divino. Ma il suo carattere eccle­siale appare in tutta evidenza particolarmente nei tre sacramenti del­l'iniziazione cristiana.

2769 - Nel Battesimo e nella Confermazione la consegna («traditio») del­la Preghiera del Signore significa la nuova nascita alla vita divina. Poi­ché la preghiera cristiana è parlare a Dio con la Parola stessa di Dio, coloro che sono stati «rigenerati [...] dalla Parola di Dio viva ed eter­na» (I Pt 1,23) imparano ad invocare il loro Padre con la sola Parola che egli sempre esaudisce. Ed ormai lo possono, perché il sigillo del­l'unzione dello Spirito Santo è impresso, indelebile, sul loro cuore, sulle loro orecchie, sulle loro labbra, su tutto il loro essere filiale. Per questo la maggior parte dei commenti patristici del Padre nostro sono destinati ai catecumeni e ai neofiti. Quando la Chiesa prega la Preghiera del Si­gnore, è sempre il popolo dei «rinati» che prega e ottiene misericordia.

2770 - Nella liturgia eucaristica la Preghiera del Signore appare come la preghiera di tutta la Chiesa. È lì che si rivela il suo pieno senso e la sua efficacia. Posta tra l'anafora (preghiera eucaristica) e la liturgia del­la Comunione, essa da un lato ricapitola tutte le domande e le interces­sioni espresse lungo lo sviluppo dell'epiclesi, e, dall'altro, bussa alla porta del Banchetto del Regno, di cui la Comunione sacramentale è un anticipo

2771- Nell'Eucaristia, la Preghiera del Signore manifesta anche il carat­tere escatologico delle proprie domande. Essa è la preghiera tipica degli «ultimi tempi», i tempi della salvezza, che sono cominciati con l'effu­sione dello Spirito Santo e che si compiranno con il ritorno del Signo­re. Le domande al Padre nostro, a differenza delle preghiere dell'Antica Alleanza, si fondano sul mistero della salvezza già realizzato, una volta per tutte, in Cristo crocifisso e risorto.

2772 - Da questa fede incrollabile sgorga la speranza che anima ognuna delle sette domande. Esse esprimono i gemiti del tempo presente, di questo tempo della pazienza e dell'attesa, in cui «ciò che noi saremo non è stato ancora rivelato» (I Gv 3,2). L'Eucaristia e il «Padre nostro» sono protesi verso la venuta del Signore, «finché egli venga» (1 Cor 11,26).

In sintesi

2773 - In risposta alla domanda dei suoi discepoli («Signore, insegnaci a pregare»: Lc 11,1), Gesù consegna loro la preghiera cristiana fon­damentale del «Padre nostro»

2774 - «L 'Orazione domenicale è veramente la sintesi di tutto il Vange­lo», «la preghiera perfettissima». Essa è al centro delle Scritture.

2775 - È chiamata «Orazione domenicale» perché ci viene dal Signore Gesù, maestro e modello della nostra preghiera.

2776 - L’orazione domenicale è, per eccellenza, la preghiera della Chiesa. È parte integrante delle Ore maggiori dell'Ufficio divino e dei sacramenti dell'iniziazione cristiana. Battesimo, Confermazione ed Eucaristia. Inserita nell'Eucaristia, manifesta il carattere «escato­logico» delle proprie domande, nella speranza del Signore, «finché egli venga» (I Cor 11,26).

Articolo 2

«PADRE NOSTRO CHE SEI NEI CIELI»

I. «Osare avvicinarci in piena fiducia».

2777 - Nella liturgia romana l'assemblea eucaristica è invitata a pregare il «Padre nostro» con filiale audacia; le liturgie orientali utilizzano e sviluppano espressioni analoghe: «Osare con tutta sicurezza», «Rendici degni di». Davanti al roveto ardente fu detto a Mosè: «Non avvicinar­ti! Togliti i sandali dai piedi» (Es 3,5). Solo Gesù poteva superare la soglia della santità divina: è lui che, avendo «compiuto la purificazione dei peccati» (Eb 1,3), ci introduce davanti al volto del Padre: «Eccoci, io e i figli che Dio mi ha dato» (Eb 2,13): «La consapevolezza che abbiamo della nostra condizione di schiavi ci farebbe sprofondare sotto terra, il nostro essere di terra si scioglierebbe in polvere se l'autorità dello stesso nostro Padre e lo Spirito del Figlio suo non ci spingessero a proferire questo grido: “Abbà, Padre!” (Rm 8,15). [...] Quando la debolezza di un mortale oserebbe chiamare Dio suo Padre, se non soltanto allorché l'intimo dell'uomo è animato dalla potenza dall'alto?».

2778 - Questa potenza dello Spirito che ci introduce alla Preghiera del Signore è indicata nelle liturgie d'Oriente e di Occidente con una felice espressione tipicamente cristiana: vale a dire semplicità schiet­ta, fiducia filiale, gioiosa sicurezza, umile audacia, certezza di essere amati.

II. « Padre! ».

2779 - Prima di fare nostro questo slancio iniziale della Preghiera del Signore, non è superfluo purificare umilmente il nostro cuore da certe false immagini di «questo mondo». L'umiltà ci fa riconoscere: «Nessu­no conosce il Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27), cioè «ai piccoli» (Mt 11,25). La purificazione del cuore concerne le immagini paterne e materne, quali si sono configurate nella nostra storia personale e culturale, e che influiscono sulla nostra relazione con Dio. Dio, nostro Padre, trascende le categorie del mondo creato. Trasferire su di lui, o contro di lui, le nostre idee in questo campo, equivarrebbe a fabbricare idoli da adorare o da abbattere. Pre­gare il Padre è entrare nel suo mistero, quale egli è, e quale il Figlio ce lo ha rivelato: «L'espressione Dio-Padre non era mai stata rivelata a nessuno. Quando lo stesso Mosè chiese a Dio chi fosse, si sentì rispondere un altro no­me. A noi questo nome è stato rivelato nel Figlio: questo nome, infatti, implica il nuovo nome di Padre».

2780 - Possiamo invocare Dio come «Padre» perché ci è rivelato dal Figlio suo fatto uomo e perché il suo Spirito ce lo fa conoscere. Ciò che l'uomo non può concepire, né le potenze angeliche intravvedere, cioè la relazione personale del Figlio nei confronti del Padre, ecco che lo Spirito del Figlio lo comunica a noi, a noi che crediamo che Gesù è il Cristo e che siamo nati da Dio.

2781 - Quando preghiamo il Padre, siamo in comunione con lui e con il Figlio suo Gesù Cristo. E allora che lo conosciamo e lo riconosciamo in uno stupore sempre nuovo. La prima parola della Preghiera del Si­gnore è una benedizione di adorazione, prima di essere un'implorazio­ne. Questa è infatti la gloria di Dio: che noi lo riconosciamo come «Padre», Dio vero. Gli rendiamo grazie per averci rivelato il suo No­me, per averci fatto il dono di credere in esso e di essere inabitati dalla sua presenza.

2782 - Possiamo adorare il Padre perché egli ci ha fatti rinascere alla sua vita adottandoci come suoi figli nel suo Figlio unigenito: per mezzo del Battesimo, ci incorpora al corpo del suo Cristo, e, per mezzo del­l'unzione del suo Spirito che scende dal Capo nelle membra, fa di noi dei «cristi» (unti): «In realtà, Dio che ci ha predestinati all'adozione di figli, ci ha resi conformi al corpo glorioso di Cristo. Ormai divenuti partecipi di Cristo, siete naturalmente chiamati «“cristi”». «L'uomo nuovo, che è rinato e restituito, mediante la grazia, al suo Dio, dice innanzi tutto: Padre, perchè è diventato figlio».

2783 - In tal modo, attraverso la Preghiera del Signore, noi siamo rive­lati a noi stessi, mentre ci viene rivelato il Padre. «O uomo, tu non osavi levare il tuo volto verso il cielo, rivolgevi i tuoi occhi verso terra, e, ad un tratto, hai ricevuto la grazia di Cristo: ti so­no stati rimessi lutti i tuoi peccati. Da servo malvagio sei diventato un figlio buono. [...] Leva, dunque, gli occhi tuoi al Padre [...] che ti ha re­dento per mezzo del Figlio e di': "Padre nostro!". [...] Ma non rivendi­care per te un rapporto particolare. Del solo Cristo è Padre in modo speciale, per noi tutti è Padre in comune, perché ha generato lui solo, noi, invece, ci ha creati. Dì anche tu per grazia: “Padre nostro”, per meritare di essere suo figlio».

2784 - Questo dono gratuito dell'adozione esige da parte nostra una conversione continua e una vita nuova. Pregare il Padre nostro deve svi­luppare in noi due disposizioni fondamentali: il desiderio e la volontà di somigliargli. Creati a sua immagine, per grazia ci è restituita la somi­glianza e noi dobbiamo corrispondervi. «Bisogna che, quando chiamiamo Dio “Padre nostro”, ci ricordiamo del dovere di comportarci come figli di Dio. Non potete chiamare vostro Padre il Dio di ogni bontà, se conservate un cuore crudele e disumano; in tal caso, infatti, non avete più in voi l'impronta della bontà del Padre celeste». È necessario contemplare incessantemente la bellezza del Padre e im­pregnarne l'anima.

2785 - Un cuore umile e confidente che ci faccia «diventare come bambi­ni» (Mt 18,3): infatti è ai «piccoli» che il Padre si rivela (Mt 11,25). «È uno sguardo su Dio solo, un grande fuoco d'amore. L'anima allora sprofonda e s'innalza nella carità e tratta con Dio come con il proprio Padre, in una tenerezza specialissima di pietà «Padre nostro: questo nome suscita in noi, contemporaneamente, l'a­more, il fervore nella preghiera, [...] ed anche la speranza di ottenere ciò che stiamo per chiedere (…) Che cosa infatti può Dio negare alla preghiera dei suoi figli, dal momento che ha loro concesso, prima di tutto, di essere suoi figli?

III. Padre «nostro».

2786 - Padre «nostro» è riferito a Dio. L'aggettivo, per quel che ci ri­guarda, non esprime un possesso, ma una relazione con Dio totalmente nuova.

2787 - Quando diciamo Padre «nostro» riconosciamo anzitutto che tutte le sue promesse d'amore annunziate dai profeti sono compiute nella Nuova ed eterna Alleanza nel suo Cristo: noi siamo diventati il «suo» popolo ed egli è ormai il «nostro» Dio. Questa nuova relazione è un'appartenenza reciproca donata gratuitamente: è con l'amore e la fedeltà che dobbiamo rispondere alla «grazia» e alla «verità» che ci sono date in Gesù Cristo.

2788 - Poiché la Preghiera del Signore è quella del suo popolo negli «ultimi tempi», questo «nostro» esprime anche la nostra speranza nel­l'ultima promessa di Dio: nella nuova Gerusalemme egli dirà del vinci­tore: «Io sarò il suo Dio ed egli sarà mio figlio» (Ap 21,7).

2789 - Pregando il Padre «nostro» ci rivolgiamo personalmente al Padre del Signore nostro Gesù Cristo. Non dividiamo la divinità, poiché il Padre ne è «la sorgente e l'origine», ma confessiamo in tal modo che il Figlio è eternamente generato da lui e che da lui procede lo Spirito Santo. Non confondiamo neppure le Persone, perché confessiamo che la nostra comu­nione è con il Padre e il Figlio suo, Gesù Cristo, nel loro unico Santo Spi­rito. La Santissima Trinità è consostanziale e indivisibile. Quando preghia­mo il Padre, lo adoriamo e lo glorifichiamo con il Figlio e lo Spirito Santo.

2790 - Grammaticalmente, «nostro» qualifica una realtà comune a più persone. Non c'è che un solo Dio ed è riconosciuto Padre da coloro che, mediante la fede nel suo Figlio unigenito, da lui sono rinati mediante l'acqua e lo Spirito Santo. La Chiesa è questa nuova comunione di Dio e degli uomini: unita al Figlio unico diventato «il primogenito di molti fra­telli» (Rm 8,29), essa è in comunione con un solo e medesimo Padre, in un solo e medesimo Spirito Santo. Pregando il Padre «nostro», ogni bat­tezzato prega in questa comunione: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuor solo e un'anima sola» (At 4,32).

2791 - Per questo, nonostante le divisioni dei cristiani, la preghiera al Padre «nostro» rimane il bene comune e un appello urgente per tutti i battezzati. In comunione con Cristo mediante la fede e il Battesimo, es­si devono partecipare alla preghiera di Gesù per l'unità dei suoi discepoli.

2792 - Infine, se preghiamo in verità il «Padre nostro», usciamo dal­l'individualismo, perché ne siamo liberati dall'amore che accogliamo. Il «nostro» dell'inizio della Preghiera del Signore, come il «noi» delle ultime quattro domande, non esclude nessuno. Perché sia detto in veri­tà, le nostre divisioni e i nostri antagonismi devono essere superati.

2793 - I battezzati non possono pregare il Padre «nostro» senza portare davanti a lui tutti coloro per i quali egli ha dato il Figlio suo dilet­to. L'amore di Dio è senza frontiere, anche la nostra preghiera deve es­serlo. Pregare il Padre «nostro» ci apre alle dimensioni del suo amo­re, manifestato in Cristo: pregare con tutti gli uomini e per tutti gli uo­mini che ancora non lo conoscono, affinché siano riuniti in unità. Questa sollecitudine divina per tutti gli uomini e per l'intera creazione ha animato tutti i grandi oranti: deve dilatare la nostra preghiera agli spazi immensi dell'amore, quando osiamo dire: Padre «nostro».

IV. «Che sei nei cieli».

2794 - Questa espressione biblica non significa un luogo («lo spazio»), bensì un modo di essere; non la lontananza di Dio, ma la sua maestà. Il nostro Padre non è «altrove»: egli è «al di là di tutto» ciò che pos­siamo concepire della sua santità. Proprio perché è tre volte Santo, egli è vicinissimo al cuore umile e contrito: «Ben a ragione queste parole, Padre nostro cbe sei nei cieli, si intendono ri­ferite al cuore dei giusti, dove Dio abita come nel suo tempio. Pertanto colui che prega desidererà che in lui prenda dimora colui che invoca». «I cieli potrebbero essere anche coloro che portano l'immagine del cielo tra i quali Dio abita e si muove.

2795 - Il simbolo dei cieli ci rimanda al mistero dell'Alleanza che vivia­mo quando preghiamo il Padre nostro. Egli è nei cieli: questa è la sua dimora; la casa del Padre è dunque la nostra «patria». Il peccato ci ha esiliati dalla terra dell'Alleanza ed è verso il Padre, verso il cielo, che ci fa tornare la conversione del cuore. Ora, è in Cristo che il cielo e la terra sono riconciliati, perché il Figlio «è disceso dal cielo», da solo, e al cielo fa tornare noi insieme con lui, per mezzo della sua croce, della sua risurrezione e della sua ascensione.

2796 - Quando la Chiesa prega: «Padre nostro che sei nei cieli», professa che siamo il popolo di Dio, già fatti sedere nei cieli, in Cristo Gesù, nascosti con Cristo in Dio, mentre, al tempo stesso, «sospiriamo in questo nostro stato, desiderosi di rivestirci del nostro corpo celeste» (2 Cor 5,2). I cristiani «sono nella carne, ma non vivono secondo la carne, Passano la loro vita sulla terra, ma sono cittadini del cielo».

In sintesi

2797 - La fiducia semplice e filiale, la sicurezza umile e gioiosa sono le disposizioni che convengono a chi prega il «Padre nostro».

2798 - Possiamo invocare Dio come «Padre» perché ce lo ha rivelato il Figlio di Dio fatto uomo, nel quale, mediante il Battesimo, siamo incorporati e adottati come figli di Dio.

2799 - La Preghiera del Signore ci mette in comunione con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Nel medesimo tempo rivela noi a noi stessi

2800 - Pregare il Padre nostro deve sviluppare in noi la volontà di somi­gliargli e (far crescere) in noi un cuore umile e confidente.

2801 - Dicendo Padre «nostro» noi invochiamo la Nuova Alleanza in Ge­sù Cristo, la comunione con la Santissima Trinità e l'amore divino che, attraverso la Chiesa, abbraccia il mondo intero.

2802 - L'espressione «che sei nei cieli» non indica un luogo, ma la maestà di Dio e la sua presenza nel cuore dei giusti. Il cielo, la casa del Padre, costituisce la vera patria, verso la quale siamo in cammino e alla quale già apparteniamo.

Articolo 3

LE SETTE DOMANDE

2803 - Dopo averci messo alla presenza di Dio nostro Padre per ado­rarlo, amarlo, benedirlo, lo Spirito filiale fa salire dai nostri cuori sette domande, sette benedizioni. Le prime tre, più teologali, ci attirano ver­so la gloria del Padre, le ultime quattro, come altrettante vie verso di lui, offrono alla sua grazia la nostra miseria. «L'abisso chiama l'abis­so» (Sal 42,8).

2804 - Il primo gruppo di domande ci porta verso di lui, a lui: il tuo nome, il tuo regno, la tua volontà! É proprio dell'amore pensare innanzi tutto a colui che si ama. In ognuna di queste tre petizioni noi non «ci» nominiamo, ma siamo presi dal «desiderio ardente», dall'«ango­scia» stessa del Figlio diletto per la gloria del Padre suo «Sia santifi­cato [...]. Venga [...]. Sia fatta...»: queste tre suppliche sono già esaudi­te nel sacrificio di Cristo Salvatore, ma sono ora rivolte, nella speranza, verso il compimento finale, in quanto Dio non è ancora tutto in tutti.

2805 - Il secondo gruppo di domande si snoda con il movimento di cer­te epiclesi eucaristiche: è offerta delle nostre attese e attira lo sguardo del Padre delle misericordie. Sale da noi e ci riguarda, adesso, in questo mondo: «Dacci [...]; rimetti a noi [...]; non ci indurre (…); liberaci». La quarta e la quinta domanda riguardano la nostra vita in quanto tale, sia per sostenerla con il nutrimento, sia per guarirla dal peccato; le ulti­me due riguardano il nostro combattimento per la vittoria della vita, lo stesso combattimento della preghiera.

2806 - Attraverso le prime tre domande veniamo rafforzati nella fede, colmati di speranza e infiammati di carità. Creature e ancora peccatori, dobbiamo supplicare per noi, quel «noi» a misura del mondo e della storia, che offriamo all'amore senza misura del nostro Dio. Infatti è per mezzo del nome del suo Cristo e mediante il regno del suo Santo Spiri­to che il Padre nostro realizza il suo disegno di salvezza per noi e per il mondo intero.

I. «Sia santificato il tuo nome».

2807 - Il termine «santificare» qui va inteso non già nel suo senso cau­sativo (Dio solo santifica, rende santo), ma piuttosto nel suo senso esti­mativo: riconoscere come santo, trattare in una maniera santa. Per que­sto, nell'adorazione, tale invocazione talvolta è sentita come una lode e un'azione di grazie. Ma questa petizione ci è insegnata da Gesù come un ottativo: una domanda, un desiderio e un'attesa in cui sono impe­gnati Dio e l'uomo. Fin dalla prima domanda al Padre nostro, siamo immersi nell'intimo mistero della sua divinità e nel dramma della sal­vezza della nostra umanità. Chiedergli che il suo nome sia santificato ci coinvolge nel disegno che egli «nella sua benevolenza aveva [...] presta­bilito» (Ef 1,9), «per essere santi e immacolati al suo cospetto nella ca­rità» (Ef l,4)

2808 - Nei momenti decisivi della sua Economia, Dio rivela il suo nome, ma lo rivela compiendo la sua opera. Questa però si realizza per noi e in noi solo se il suo nome da noi e in noi è santificato.

2809 - La santità di Dio è il centro inaccessibile del suo mistero eterno. Ciò che di esso è manifestato nella creazione e nella storia, dalla Scrit­tura viene chiamato la gloria, l'irradiazione della sua maestà. Creando l'uomo «a sua immagine e somiglianza» (Gn 1,26), Dio lo corona di gloria, ma l'uomo, peccando, viene privato «della gloria di Dio». Da allora, Dio manifesta la propria santità rivelando e donando il proprio nome per restaurare l'uomo «a immagine del suo Creatore» (Col 3,10).

2810 - Nella Promessa fatta ad Abramo e nel giuramento che l'accom­pagna, Dio si impegna personalmente ma senza svelare il proprio no­me. Incomincia a rivelarlo a Mosè e lo manifesta agli occhi di tutto il popolo salvandolo dagli Egiziani: «Ha mirabilmente trionfato» (Es 15,1). Dopo l'Alleanza del Sinai, questo popolo è «suo» e deve essere una «nazione santa» (o consacrata, poiché in ebraico è la stessa parola), perché il nome di Dio abita in mezzo ad essa.

2811 - Ma, nonostante la Legge santa che il Dio Santo gli dà e torna a dargli, e benché il Signore, «per riguardo al suo nome», usi pazien­za, il popolo si allontana dal Santo d'Israele e «profana il suo nome in mezzo alle nazioni». Per questo i giusti dell'Antica Alleanza, i poveri tornati dall'esilio e i profeti sono stati infiammati dalla passione per il suo nome.

2812 - Infine, è in Gesù che il nome del Dio Santo ci viene rivelato e donato, nella carne, come Salvatore: rivelato da ciò che egli E’, dalla sua parola e dal suo sacrificio. È il cuore della sua preghiera sacerdo­tale: Padre santo, «per loro io consacro me stesso; perché siano an­ch'essi consacrati nella verità» (Gv 17,19). È perché egli stesso «santifi­ca» il suo nome che Gesù «ci fa conoscere» il nome del Padre. Compiuta la sua pasqua, il Padre gli dà il nome che è al di sopra di ogni altro nome: Gesù è il Signore a gloria di Dio Padre.

2813 - Nell'acqua del Battesimo siamo stati «lavati [...], santificati [...], giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio» (1 Cor 6,11). Lungo tutta la nostra vita il Padre nostro ci chiama «alla santificazione» (1 Tt 4,7), e, poiché è per lui che noi siamo «in Cristo Gesù, il quale [...] è diventato per noi santificazione» (1 Cor 1,30), riguarda la sua gloria e la nostra vita che il suo nome sia santifi­cato in noi e da noi. Sta qui l'urgenza della nostra prima domanda. «Chi potrebbe santificare Dio, giacché è lui che santifica? Ma traendo ispirazione da queste parole: “siate santi, perché io sono santo” (Lv 11,44), noi chiediamo che, santificati dal Battesimo, possiamo perseverare in ciò che abbiamo incominciato ad essere. E lo chiediamo ogni giorno, perché ogni giorno ci lasciamo sedurre dal male, e perciò dobbiamo purificarci dai nostri peccati con una purificazione incessantemente ricominciata [...]. Ricorriamo, dunque, alla preghiera perché la santità dimori in noi.

2814 - Dipende inseparabilmente dalla nostra vita e dalla nostra preghie­ra che il suo nome sia santificato tra le nazioni: «Chiediamo a Dio di santificare il suo nome, perché è mediante la san­tità che egli salva e santifica tutta la creazione. [...] Si tratta del nome che dà la salvezza al mondo perduto, ma domandiamo che il nome di Dio sia santificato in noi dalla nostra vita. Infatti, se viviamo con rettI­tudine, il nome divino è benedetto; ma se viviamo nella disonestà, il nome divino è bestemmiato, secondo quanto dice l'Apostolo: “Il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra i pagani” (Rm 2,24). Noi, dunque, preghiamo per meritare di essere santi come è santo il nome del nostro Dio «Quando diciamo: “Sia santificato il tuo nome”, chiediamo che venga santificato in noi, che siamo in lui, ma anche negli altri che non si so­no ancora lasciati raggiungere dalla grazia di Dio; ciò per conformarci al precetto che ci obbliga a pregare per tutti, perfino per i nostri nemici. Ecco perché non diciamo espressamente: il tuo nome sia santificato in noi; non lo diciamo perché chiediamo che sia santificato in tutti gli uomini».

2815 - Questa domanda, che le compendia tutte, è esaudita attraverso la preghiera di Cristo, come le sei domande successive. La preghiera al Padre nostro è preghiera nostra se si prega nel nome di Gesù. Gesù nella sua preghiera sacerdotale chiede: «Padre Santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato» (Gv 17,11).

II. «Venga il tuo regno».

2816 - Nel Nuovo Testamento la parola (…) può essere tradotta con «regalità» (nome astratto), «regno » (nome concreto) oppure «signo­ria» (nome d'azione). Il regno di Dio è prima di noi. Si è avvicinato nel Verbo incarnato, viene annunciato in tutto il Vangelo, è venuto nel­la morte e risurrezione di Cristo. Il regno di Dio viene fin dalla santa Cena e nell'Eucaristia, esso è in mezzo a noi. Il Regno verrà nella gloria allorché Cristo lo consegnerà al Padre suo: «È anche possibile che il regno di Dio significhi Cristo in persona, lui che invochiamo con i nostri desideri tutti i giorni, lui di cui bramiamo affrettare la venuta con la nostra attesa. Come egli è la nostra risurre­zione, perché in lui risuscitiamo, così può essere il regno di Dio, perché in lui regneremo.

2817 - Questa richiesta è il « Marana tha», il grido dello Spirito e della Sposa: «Vieni, Signore Gesù». «Anche se questa preghiera non ci avesse imposto il dovere di chiedere l'avvento del Regno, noi avremmo, con incontenibile spontaneità, lan­ciato questo grido, bruciati dalla fretta di andare ad abbracciare ciò che forma l'oggetto delle nostre speranze. Le anime dei martiri, sotto l'alta­re, invocano il Signore gridando a gran voce: "Fino a quando, Sovra­no, non vendicherai il nostro sangue sopra gli abitanti della terra?" (Ap 6,10). A loro, in realtà, dev'essere fatta giustizia, alla fine dei tem­pi. Signore, affretta, dunque, la venuta del tuo regno!

2818 - Nella Preghiera del Signore si tratta principalmente della venuta finale del regno di Dio con il ritorno di Cristo. Questo desiderio non distoglie però la Chiesa dalla sua missione in questo mondo, anzi, la impegna maggiormente. Infatti, dopo la pentecoste, lù venuta del Regno è opera dello Spirito del Signore, inviato «a perfezionare la sua opera nel mondo e compiere ogni santificazione».

2819 - «Il regno di Dio [...] è giustizia, pace e gioia nello Spirito San­to» (Rm 14,17). Gli ultimi tempi, nei quali siamo, sono i tempi dell'ef­fusione dello Spirito Santo. Pertanto è ingaggiato un combattimento decisivo tra «la carne» e lo Spirito: «Solo un cuore puro può dire senza trepidazione alcuna: "Venga il tuo regno". Bisogna essere stati alla scuola di Paolo per dire: "Non regni più dunque il peccato nel nostro corpo mortale" (Rm 6,12). Colui che nelle azioni, nei pensieri, nelle parole si conserva puro, può dire a Dio: "Venga il tuo regno!"».

2820 - Con un discernimento secondo lo Spirito, i cristiani devono di­stinguere tra la crescita del regno di Dio e il progresso della cultura e della società in cui sono inseriti. Tale distinzione non è una separazio­ne. La vocazione dell'uomo alla vita eterna non annulla ma rende più imperioso il dovere di utilizzare le energie e i mezzi ricevuti dal Creato­re per servire in questo mondo la giustizia e la pace.

2821 - Questa domanda è assunta ed esaudita nella preghiera di Gesù, presente ed efficace nell'Eucaristia; produce il suo frutto nella vita nuo­va secondo le beatitudini.

III. «Sia fatta la tua volontà come in cielo cosi in terra».

2822 - La volontà del Padre nostro è «che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4). Egli «usa pazienza (…), non volendo che alcuno perisca» (2 Pi 3,9). Il suo comandamen­to, che compendia tutti gli altri e ci manifesta la sua volontà, è che ci amiamo gli uni gli altri, come egli ci ha amato.

2823 - «Egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva [...] prestabilito (…), il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose [...]. In lui siamo stati fatti anche eredi, essendo stati predestinati secondo il piano di colui che tut­to opera efficacemente conforme alla sua volontà» (Ef 1,9-lì). Noi chiediamo con insistenza che si realizzi pienamente questo disegno di benevolenza sulla terra, come già è realizzato in cielo.

2824 - È in Cristo e mediante la sua volontà umana che la volontà del Padre è stata compiuta perfettamente e una volta per tutte. Gesù, en­trando in questo mondo, ha detto: «Ecco, io vengo, [...] per fare, o Dio, la tua volontà» (Eb l0,7). Solo Gesù può affermare: «Io faccio sempre le cose che gli sono gradite» (Gv 8,29). Nella preghiera della sua agonia, egli acconsente totalmente alla volontà del Padre: «Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!» (Lc 22,42). Ecco perché Gesù «ha dato se stesso per i nostri peccati [...] secondo la volontà di Dio» (GaI 1,4). «È appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell'offerta del corpo di Gesù Cristo» (Eb 10,10)

2825 - Gesù, «pur essendo Figlio, imparò tuttavia l'obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8); a maggior ragione, noi, creature e peccatori, diventati in lui figli di adozione. Noi chiediamo al Padre nostro di uni­re la nostra volontà a quella del Figlio suo per compiere la sua volon­tà, il suo disegno di salvezza per la vita del mondo. Noi siamo radicalmente incapaci di ciò, ma, uniti a Gesù e con la potenza del suo Santo Spirito, possiamo consegnare a lui la nostra volontà e decidere di sce­gliere ciò che sempre ha scelto il Figlio suo: fare ciò che piace al Padre: Aderendo a Cristo, possiamo diventare un solo Spirito con lui e così compiere la sua volontà; in tal modo essa sarà fatta perfettamente in terra come in cielo». «Considerate come [Gesù Cristo] ci insegni ad essere umili, mostrandoci che la nostra virtù non dipende soltanto dai nostri sforzi, ma anche dalla grazia di Dio. Egli comanda ad ogni fedele che prega, di farlo con respiro universale. cioè per tutta la terra. Egli, infatti, non dice: “Sia fatta la tua volontà” in me o in voi, “ma in terra, su tutta la terra”; e ciò perché dalla terra sia eliminato l'errore e sulla terra regni la verità, sia distrutto il vizio, rifiorisca la virtù, e la terra non sia diversa dal cielo».

2826 - È mediante la preghiera che possiamo discernere la volontà di Dio ed ottenere la costanza nel compierla. Gesù ci insegna che si en­tra nel regno dei cieli non a forza di parole, ma facendo «la volontà del Padre mio che è nei cieli » (Mi 7,21).

2827 - Se uno (…) fa la sua volontà, egli [DioJ lo ascolta» (Gv 9,3l). Tale è la potenza della preghiera della Chiesa nel nome del suo Signo­re, soprattutto nell'Eucaristia; essa è comunione di intercessione con la santissima Madre di Dio e con tutti i santi che sono stati «graditi» al Signore per non aver voluto che la sua volontà: possiamo anche, senza offendere la verità, dare alle parole: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra” questo significato: sia fatta nella Chiesa come nel Signore nostro Gesù Cristo; sia fatta nella Sposa, che a lui è stata fidanzata, come nello Sposo che ha compiuto la volontà del Padre».

IV. «Dacci oggi il nostro pane quotidiano».

2828 - «Dacci»: è bella la fiducia dei figli che attendono tutto dal loro Padre. Egli «fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45) e dà a tutti i viventi «il cibo in tempo opportuno» (SaI 104,27). Gesù ci insegna questa domanda, che in realtà glorifica il Padre nostro perché è il riconoscimento di quanto egli sia buono al di sopra di ogni bontà.

2829 - «Dacci» è anche l'espressione dell'Alleanza: noi siamo suoi ed egli è nostro, è per noi. Questo «noi» però lo riconosce anche come il Padre di tutti gli uomini, e noi lo preghiamo per tutti, solidali con le loro necessità e le loro sofferenze.

2830 - «Il nostro pane». Il Padre, che ci dona la vita, non può non darci il nutrimento necessario per la vita, tutti i beni «convenienti», materiali e spirituali. Nel discorso della montagna Gesù insiste su que­sta fiducia filiale che coopera con la provvidenza del Padre nostro. Egli non ci spinge alla passività, ma vuole liberarci da ogni affanno e da ogni preoccupazione. Tale è l'abbandono filiale dei figli di Dio: «A chi cerca il regno di Dio e la sua giustizia egli promette di dare tutto in aggiunta. In realtà. tutto appartiene a Dio e nulla manca all'uomo che possiede Dio, se egli stesso non manca a Dio.

2831 - Il fatto però che ci siano coloro che hanno fame per mancanza di pane svela un'altra profondità di questa domanda. Il dramma della fame nel mondo chiama i cristiani che pregano in verità ad una respon­sabilità fattiva nei confronti dei loro fratelli, sia nei loro comportamenti personali sia nella loro solidarietà con la famiglia umana. Questa peti­zione della Preghiera del Signore non può essere isolata dalle parabole del povero Lazzaro e del giudizio finale.

2832 - Come il lievito nella pasta, così la novità del Regno deve «fer­mentare» la terra per mezzo dello Spirito di Cristo. Deve rendersi evi­dente attraverso l'instaurarsi della giustizia nelle relazioni personali e sociali, economiche e internazionali; né va mai dimenticato che non ci sono strutture giuste senza uomini che vogliono essere giusti.

2833 - Si tratta del «nostro» pane, «uno» per «molti». La povertà delle beatitudini è la virtù della condivisione: sollecita a mettere in comune e a condividere i beni materiali e spirituali, non per costrizione, ma per amore, perché l'abbondanza degli unì supplisca alla indigenza degli altri.

2834 - «Prega e lavora». «Dobbiamo pregare come se tutto dipendes­se da Dio, e agire come se tutto dipendesse da noi». Dopo avere ese­guito il nostro lavoro, il cibo resta un dono del Padre nostro; è giusto chiederglielo e di questo rendergli grazie. Questo è il senso della benedi­zione della mensa in una famiglia cristiana.

2835 - Questa domanda e la responsabilità che comporta, valgono an­che per un'altra fame di cui gli uomini soffrono: «Non di solo pane vi­vrà l'uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4), cioè della sua Parola e del suo Spirito. I cristiani devono mobilitare tutto il loro impegno per «annunziare il Vangelo ai poveri». C'è una fame sulla terra, «non fame di pane, né sete di acqua, ma di ascoltare la Parola di Dio» (Am 8,11). Perciò il senso specificamente cristiano di questa quarta domanda riguarda il Pane di vita: la Parola di Dio da accogliere nella fede, il Corpo di Cristo ricevuto nell'Eucaristia.

2836 - «Oggi». È anch'essa un'espressione di fiducia. Ce la insegna il Signore; non poteva inventarla la nostra presunzione. Poiché si tratta soprattutto della sua Parola e del Corpo del Figlio suo, questo «oggi» non è soltanto quello del nostro tempo mortale: è l'Oggi di Dio: «Se ricevi il Pane ogni giorno, per te ogni giorno è oggi. Se oggi Cri­sto è tuo, egli risorge per te ogni giorno. In che modo? “Tu sei mio Fi­glio, oggi io ti ho generato” (Sal 2,7). L'oggi è quando Cristo risorge.

2837 - «Quotidiano». Questa parola, (…), non è usata in nessun al­tro passo del Nuovo Testamento. Intesa nel suo significato temporale, è una ripresa pedagogica di «oggi» per confermarci in una fiducia «senza riserve». Intesa in senso qualitativo, significa il necessario per la vita e, in senso più ampio, ogni bene sufficiente per il sostentamento. Presa alla lettera: «sovra-sostanziale»), la parola indica diret­tamente il Pane di vita, il Corpo di Cristo, «farmaco d'immortalità» senza il quale non abbiamo in noi la vita. Infine, legato al precedente, è evidente il senso celeste: «questo giorno» è il giorno del Signore, il giorno del Banchetto del Regno, anticipato nell'Eucaristia, che è già pregustazione del Regno che viene. Per questo è bene che la liturgia eucaristica sia celebrata «ogni giorno». «L'Eucaristia è il nostro pane quotidiano […]. La virtù propria di que­sto nutrimento è quella di produrre l'unità, affinché, resi corpo di Cri­sto, divenuti sue membra, siamo ciò che riceviamo [...], ma anche le let­ture che ascoltate ogni giorno in chiesa sono pane quotidiano, e l'ascol­tare e recitare inni è pane quotidiano. Questi sono i sostegni necessari al nostro pellegrinaggio terreno». Il Padre del cielo ci esorta a chiedere come figli del cielo il Pane del cielo. Cristo «stesso è il pane che, seminato nella Vergine, lievitato nella carne, impastato nella passione, cotto nel forno del sepolcro, con­servato nella chiesa, portato sugli altari, somministra ogni giorno ai fedeli un alimento celeste».

V. «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori»

2838 - Questa domanda è sorprendente. Se consistesse soltanto nel pri­mo membro della frase «Rimetti a noi i nostri debiti», potrebbe essere implicitamente inclusa nelle prime tre domande della Preghiera del Signore, dal momento che il sacrificio di Cristo è «per la remissio­ne dei peccati». Ma, secondo l'altro membro della frase, la nostra domanda verrà esaudita solo a condizione che noi, prima, abbiamo risposto ad un'esigenza. La nostra domanda è rivolta verso il futuro, la nostra risposta deve averla preceduta; una parola le collega: «come».

«RIMETTI A NOI I NOSTRI DEBITI»...

2839 - Abbiamo iniziato a pregare il Padre nostro con una fiducia au­dace. Implorando che il suo nome sia santificato, gli abbiamo chiesto di essere sempre più santificati. Ma, sebbene rivestiti della veste battesi­male, noi non cessiamo di peccare, di allontanarci da Dio. Ora, con questa nuova domanda, torniamo a lui, come il figlio prodigo, e ci riconosciamo peccatori, davanti a lui, come il pubblicano. La nostra richiesta inizia con una «confessione», con la quale confessiamo ad un tempo la nostra miseria e la sua misericordia. La nostra speranza è sicura, perché, nel Figlio suo, «abbiamo la redenzione, la remissione dei peccati» (Col l,14). Il segno efficace ed indubbio del suo perdono lo troviamo nei sacramenti della sua Chiesa.

2840 - Ora, ed è cosa tremenda, questo flusso di misericordia non può giungere al nostro cuore finché noi non abbiamo perdonato a chi ci ha offeso. L'amore, come il corpo di Cristo, è indivisibile: non possiamo amare Dio che non vediamo, se non amiamo il fratello, la sorella che vediamo. Nel rifiuto di perdonare ai nostri fratelli e alle nostre sorelle, il nostro cuore si chiude e la sua durezza lo rende impermeabile all'amore misericordioso del Padre; nella confessione del nostro peccato, il nostro cuore si apre alla sua grazia.

2841 - Questa domanda è tanto importante che è la sola su cui il Si­gnore torna sviluppandola nel discorso della montagna. All'uomo è impossibile soddisfare questa cruciale esigenza del mistero dell'Alleanza. «Ma a Dio tutto è possibile» (Mi 19,26). «COME NOI LI RIMETTIAMO AI NOSTRI DEBITORI»

2842 - Questo «come» non è unico nell'insegnamento di Gesù: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48); «Siate mise­ricordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36); «Vi dò un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amati, così amatevi anche voi» (Gv ~3,34). È impossibile osservare il comandamento del Signore, se si tratta di imitare il modello divino dall'esterno. Si tratta invece di una partecipazione vitale, che scaturisce «dalla profondità del cuore», alla santità, alla misericordia, all'amore del nostro Dio. Soltanto lo Spirito, del quale «viviamo» (Gal 5,25), può fare «nostri» i medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù. Allora diventa possibile l'unità del perdono, perdonarci «a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo» (Ef 4,32).

2843 - Così prendono vita le parole del Signore sul perdono, su questo amore che ama fino alla fine. La parabola del servo spietato, che co­rona l'insegnamento del Signore sulla comunione ecclesiale, termina con queste parole: «Così anche il mio Padre celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello». È lì, infatti, «nella profondità del cuore» che tutto si lega e si scioglie. Non è in nostro potere non sentire più e dimenticare l'offesa; ma il cuore che si offre al­lo Spirito Santo tramuta la ferita in compassione e purifica la memoria trasformando l'offesa in intercessione.

2844 - La preghiera cristiana arriva fino al perdono dei nemici. Essa trasfigura il discepolo configurandolo al suo Maestro. Il perdono è un culmine della preghiera cristiana; il dono della preghiera non può essere ricevuto che in un cuore in sintonia con la compassione divina. Il per­dono sta anche a testimoniare che, nel nostro mondo, l'amore è più forte del peccato. I martiri di ieri e di oggi rinnovano questa testimo­nianza di Gesù. Il perdono è la condizione fondamentale della Riconci­liazione dei figli di Dio con il loro Padre e degli uomini tra loro.

2845 - Non c'è né limite né misura a questo perdono essenzialmente divino. Se si tratta di offese (di «peccati» secondo Lc 11,4 o di «debi­ti» secondo Mt 6,12), in realtà noi siamo sempre debitori: «Non ab­biate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevo­le» (Rm 13,8). La comunione della Santissima Trinità è la sorgente e il criterio della verità di ogni relazione. Essa è vissuta nella preghiera, specialmente nell'Eucaristia: «Dio non accetta il sacrificio di coloro che fomentano la divisione; dice loro di lasciare sull'altare l'offerta e di andare, prima, a riconciliarsi con i loro fratelli, affinché mediante preghiere di pace anche Dio possa riconciliarsi con essi. Ciò che piò fortemente obbliga Dio è la nostra pace, la nostra concordia, l'unità di tutto il popolo dei credenti, nel Padre nel Figlio e nello Spirito Santo.

VI. «Non ci indurre in tentazione».

2846 - Questa domanda va alla radice della precedente, perché i nostri peccati sono frutto del consenso alla tentazione. Noi chiediamo al Padre nostro di non «indurci» in essa. Tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa «non permettere di entrare in», «non lasciarci soccombere alla tentazione». «Dio non può essere ten­tato dal male e non tenta nessuno al male» (Gc 1,13); al contrario, vuole liberarcene. Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato. Siamo impegnati nella lotta «tra la carne e lo Spirito». Questa domanda implora lo Spirito di discernimento e di for­tezza.

2847 - Lo Spirito Santo ci porta a discernere tra la prova, necessaria al­la crescita dell'uomo interiore in vista di una «virtù provata e la tentazione, che conduce al peccato e alla morte. Dobbiamo anche distinguere tra «essere tentati» e «consentire» alla tentazione. Infine, il discernimento smaschera la menzogna della tentazione: apparentemente il suo oggetto è «buono, gradito agli occhi e desiderabile» (Gn 3,6), mentre, in realtà, il suo frutto è la morte. «Dio non vuole costringere al bene: vuole persone libere [...]. La tenta­zione ha una sua utilità. Tutti, all'infuori di Dio, ignorano ciò che l'a­nima nostra ha ricevuto da Dio; lo ignoriamo perfino noi. Ma la tenta­zione lo svela, per insegnarci a conoscere noi stessi e, in tal modo, a scoprire ai nostri occhi la nostra miseria e per obbligarci a rendere gra­zie per i beni che la tentazione ci ha messo in grado di riconoscere».

2848 - «Non entrare nella tentazione» implica una decisione del cuore: «Là dov'è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore. [...] Nessuno può servire a due padroni» (Mt 6,21.24). «Se viviamo dello Spirito, camminia­mo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,25). In questo «consenso» allo Spirito Santo il Padre ci dà la forza. «Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze; ma con la tentazione vi darà anche la via d'uscita e la forza per sopportarla» (1 Cor 10,13).

2849 - Il combattimento e la vittoria sono possibili solo nella preghiera. È per mezzo della sua preghiera che Gesù è vittorioso sul tentatore, fin dall'inizio e nell'ultimo combattimento della sua agonia. Ed è al suo combattimento e alla sua agonia che Cristo ci unisce in questa doman­da al Padre nostro. La vigilanza del cuore, in unione alla sua, è richia­mata insistentemente. La vigilanza è «custodia del cuore» e Gesù chiede al Padre di custodirci nel suo nome. Lo Spirito Santo opera per suscitare in noi, senza posa, questa vigilanza. Questa domanda ac­quista tutto il suo significato drammatico in rapporto alla tentazione fi­nale del nostro combattimento quaggiù; implora la perseveranza finale. «Ecco, io vengo come un ladro. Beato chi è vigilante» (Ap 16,15).

VIII. «Ma liberaci dal male».

2850 - L'ultima domanda al Padre nostro si trova anche nella preghiera di Gesù: «Non chiedo che tu li tolga dal mondo, ma che li custodisca dal maligno» (Gv 17,15). Riguarda ognuno di noi personalmente; però siamo sempre «noi» a pregare, in comunione con tutta la Chiesa e per la liberazione dell'intera famiglia umana. La Preghiera del Signore ci apre continuamente alle dimensioni dell'Economia della salvezza. La nostra interdipendenza nel dramma del peccato e della morte diventa solidarietà nel corpo di Cristo, nella «comunione dei santi».

2851 - In questa richiesta, il male non è un'astrazione; indica invece una persona: Satana, il maligno, l'angelo che si oppone a Dio. Il «dia­volo» (…) è colui che «si getta di traverso» al disegno di Dio e alla sua «opera di salvezza» compiuta in Cristo.

2852 - «Omicida fin dal principio [...], menzognero e padre di menzo­gna» (Gv 8,44), «Satana, che seduce tutta la terra» (Ap 12,9), è a cau­sa sua che il peccato e la morte sono entrati nel mondo, ed è in virtù della sua sconfitta definitiva che tutta la creazione sarà «liberata dalla corruzione del peccato e della morte» «Sappiamo che chiunque è na­to da Dio non pecca: chi è nato da Dio preserva se stesso e il maligno non lo tocca. Noi sappiamo che siamo nati da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno» (I Gv 5,18-19): (Il Signore, che ha cancellato il vostro peccato e ha perdonato le vo­stre colpe, è in grado di proteggervi e di custodirvi contro le insidie del diavolo che è il vostro avversario, perché il nemico, che suole generare la colpa, non vi sorprenda. Ma chi si affida a Dio non teme il diavolo. “Se infatti Dio è dalla nostra parte, chi sarà contro di noi?” (Rm 8,31)».

2853 - La vittoria sul «principe del mondo» e conseguita, una volta per tutte, nell'Ora in cui Gesù si consegna liberamente alla morte per darci la sua vita. Avviene allora il giudizio di questo mondo e il princi­pe di questo mondo è «gettato fuori». Egli «si avventò contro la Donna» (Ap l2,l3), ma non la poté ghermire: la nuova Eva, «piena di grazia» dello Spirito Santo, è preservata dal peccato e dalla corru­zione della morte (concezione immacolata e assunzione della santissi­ma Madre di Dio, Maria, sempre Vergine). «Allora il drago si infuriò contro la Donna e se ne andò a far guerra contro il resto della sua di­scendenza» (Ap 12,17). È per questo che lo Spirito e la Chiesa prega­no: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,17.20): la sua venuta, infatti, ci libe­rerà dal male.

2854 - Chiedendo di essere liberati dal male, noi preghiamo nel contem­po per essere liberati da tutti i mali, presenti, passati e futuri, di cui egli è l'artefice o l'istigatore. In quest'ultima domanda la Chiesa porta davanti al Padre tutta la miseria del mondo. Insieme con la liberazione dai mali che schiacciano l'umanità, la Chiesa implora il dono prezioso della pace e la grazia dell'attesa perseverante del ritorno di Cristo. Pre­gando così, anticipa nell'umiltà della fede la ricapitolazione di tutti e di tutto in colui che ha «potere sopra la morte e sopra gli inferi»(Ap 1,18), «colui che è, che era e che viene, l'Onnipotente!» (Ap l,8). «Liberaci, o Signore, da tutti i mali, concedi la pace ai nostri giorni e con l'aiuto della tua misericordia vivremo sempre liberi dal peccato e sicuri da ogni turbamento, nell'attesa che si compia la beata speranza e venga il nostro Salvatore Gesù Cristo».

LA DOSSOLOGIA FINALE

2855 - La dossologia finale: «Perché tuo è il regno, la gloria e il pote­re» riprende, per inclusione, le prime tre domande al Padre nostro: la glorificazione del suo nome, la venuta del suo regno e il potere della sua volontà salvifica. Ma questa ripresa ha la forma dell'adorazione e dell'azione di grazie, come nella liturgia celeste. Il principe di questo mondo si era attribuito in modo menzognero questi tre titoli di regalità, di potere e di gloria; Cristo, il Signore, li restituisce al Padre suo e Padre nostro, finché gli consegnerà il Regno, quando il mistero della salvezza sarà definitivamente compiuto e Dio sarà tutto in tutti.

2856 - «Al termine della preghiera, tu dici: “Amen”, sottoscrivendo con l'Amen, che significa "Così sia", tutto ciò che è contenuto nella pre­ghiera insegnata da Dio».

In sintesi

2857 - Nel «Padre nostro» le prime tre domande hanno come oggetto la gloria del Padre: la santificazione del nome, l'avvento del regno e il compimento della volontà divina. Le altre quattro presentano a lui i nostri desideri: queste domande riguardano la nostra vita per nutrir­la e guarirla dal peccato, e si ricollegano al nostro combattimento per la vittoria del bene sul male.

2858 - Chiedendo: «Sia santificato il tuo nome», entriamo nel disegno di Dio: la santi del suo nome - rivelato a Mosè, poi in Gesù - da parte nostra e in noi, come anche in ogni popolo e in ogni uomo.

2859 - Con la seconda domanda la Chiesa guarda principalmente al ritorno di Cristo e alla venuta finale del regno di Dio. Ma prega anche per la crescita del regno di Dio nell '«oggi» delle nostre vite.

2860 - Nella terza domanda preghiamo il Padre nostro di unire la nostra volontà a quella del Figlio suo, perché si compia il suo disegno di salvezza nella vita del mondo

2861 - Nella quarta domanda, dicendo «Dacci», esprimiamo, in comunione con i nostri fratelli, la nostra fiducia filiale verso il Padre nostro dei cieli. «Il nostro pane» significa il nutrimento terreno a tutti necessario per il proprio sostentamento, ma indica pure il Pane di vita: Parola di Dio e Corpo di Cristo. Esso è ricevuto nell'«Oggi» di Dio, come il cibo indispensabile, (sovra-)essenziale del Banchetto del Regno, che l'Eucaristia anticipa.

2862 - La quinta domanda implora la misericordia di Dio per le nostre of­fese; essa però non può giungere al nostro cuore, se non abbiamo saputo perdonare ai nostri nemici, sull'esempio e con l'aiuto di Cristo.

2863 - Dicendo: «Non ci indurre in tentazione», chiediamo a Dio che non ci permetta di prendere la strada che conduce al peccato. Questa domanda implora lo Spirito di discernimento e di fortezza e chiede la grazia della vigilanza e della perseveranza finale.

2864 - Nell'ultima domanda: «Ma liberaci dal male», il cristiano insieme con la Chiesa prega Dio di manifestare la vittoria, già conseguita da Cristo, sul «principe di questo mondo», su Satana, l'angelo che si oppone personalmente a Dio e al suo disegno di salvezza.

2865 - Con l'«Amen» finale esprimiamo il nostro «fiat» alle sette domande: «c'osi sia».

 

 

INDICE GENERALE

Prefazione pag. 1

PARTE PRIMA

LA PROFESSIONE DELLA FEDE

SEZIONE PRIMA

«IO CREDO» - «NOI CREDIAMO»

CAPITOLO PRIMO: L'UOMO E «CAPACE» DI DIO pag. 4

CAPITOLO SECONDO: DIO VIENE INCONTRO ALL'UOMO pag. 7

Articolo 1: La rivelazione di Dio pag. 7

Articolo 2: La trasmissione della rivelazione divina pag. 10

Articolo 3: La Sacra Scrittura pag. 13

CAPITOLO TERZO: LA RISPOSTA DELL'UOMO A DIO

Articolo 1: Io Credo pag, 18

Articolo 2: Noi crediamo pag. 22

SEZIONE SECONDA

LA PROFESSIONE DELLA FEDE CRISTIANA

I SIMBOLI DELLA FEDE pag. 24

CAPITOLO PRIMO: IO CREDO IN DIO PADRE pag. 26

Articolo 1: «Io credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e …» pag. 26

Paragrafo 1: Io credo in Dio pag. 26

Paragrafo 2: Il Padre pag. 30

Paragrafo 3: Onnipotente pag. 35

Paragrafo 4: Creatore pag. 37

Paragrafo 5: Il cielo e la terra pag. 44

Paragrafo 6: L'uomo pag. 47

Paragrafo 7: La caduta pag. 50

CAPITOLO SECONDO: CREDO IN GESÙ CRISTO UNICO FIGLIO DI DIO pag. 56

Articolo 2: «E in Gesù Cristo suo unico Figlio, nostro Signore» pag. 57

Articolo 3: Gesù Cristo «fu concepito di Spirito Santo nacque da Maria Vergine» pag61

Paragrafo 1: Il Figlio di Dio si é fatto uomo pag. 61

Paragrafo 2: .... Fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine» pag. 65

Paragrafo 3: I misteri della vita di Cristo pag. 69

Articolo 4: «Gesù Cristo patì sotto Ponzio Pilato fu crocifisso, morì e fu sepolto»pag78.

Paragrafo 1: Gesù e Israele pag 78

Paragrafo 2: Gesù morì crocifisso pag. 81

Paragrafo 3.. Gesù Cristo fu sepolto pag. 86

Articolo 5: «Gesù Cristo discese agli inferi, il terzo giorno risuscitò da morte» pag. 87

Paragrafo I: Cristo discese agli inferi pag. 87

Paragrafo 2: Il terzo giorno risuscitò da morte pag.

Articolo 6: «Gesù sali al cielo, siede alla destra di Dio Padre onni­potente» pag. 92

Articolo 7: «Di là verrà a giudicare i vivi e i morti» pag. 93

 

CAPITOLO TERZO: CREDO NELLO SPIRITO SANTO pag. 95

Articolo 8: «Credo nello Spirito Santo» pag. 96

Articolo 9: «Credo la santa Chiesa Cattolica» pag. 105

Paragrafo 1: La Chiesa nel disegno di Dio pag.105

Paragrafo 2: La Chiesa - popolo di Dio, corpo di Cristo, tempio dello Spirito Santo pag. 110

Paragrafo 3: La Chiesa é una, santa, cattolica e apostolica pag. 114

Paragrafo 4: I fedeli: gerarchia, laici, vita consacrata pag. 123

Paragrafo 5: La comunione dei santi pag. 132

Paragrafo 6: Maria - Madre di Cristo, Madre della Chiesa pag. 134

Articolo 10: «Credo la remissione dei peccati» pag. 136

Articolo 11: «Credo la risurrezione della carne» pag. 137

Articolo 12: «Credo la vita eterna» pag. 141

PARTE SECONDA

LA CELEBRAZIONE DEL MISTERO CRISTIANO pag. 147

SEZIONE PRIMA

L'ECONOMIA SACRAMENTALE

CAPITOLO PRIMO: IL MISTERO PASQUALE NEL TEMPO CHIESA pag. 149

Articolo 1: Liturgia Opera della Santissima Trinità pag. 149

Articolo 2: Il mistero pasquale nei sacramenti della Chiesa pag. 154

CAPITOLO SECONDO: LA CELEBRAZIONE SACRAMENTALE DEL MISTERO PASQUALE Articolo 1: Celebrare la liturgia della Chiesa pag. 157

Articolo 2: Diversità liturgica e unità del mistero pag. 166

SEZIONE SECONDA

I SETTE SACRAMENTI DELLA CHIESA

CAPITOLO PRIMO: I SACRAMENTI DELL'INIZIAZIONE CRISTIANA pag. 167

Articolo 1: Il sacramento del Battesimo pag. 167

Articolo 2: Il sacramento della Confermazione pag. 176

Articolo 3: Il sacramento dell'Eucaristia pag. 181

CAPITOLO SECONDO: I SACRAMENTI DI GUARIGIONE

Articolo 4: Il sacramento della Penitenza e della Riconciliazione pag. 195

Articolo 5: L'Unzione degli infermi pag. 206

CAPITOLO TERZO: I SACRAMENTI AL SERVIZIO DELLA COMUNIONE

Articolo 6: Il sacramento dell'Ordine pag. 211

Articolo 7: Il sacramento del Matrimonio pag. 220

CAPITOLO QUARTO: LE ALTRE CELEBRAZIONI LITURGICHE

Articolo 1: I sacramentali pag. 230

Articolo 2: Le esequie cristiane pag. 232

PARTE TERZA

LA VITA IN CRISTO pag. 233

SEZIONE PRIMA

LA VOCAZIONE DELL'UOMO: LA VITA NELLO SPIRITO pag. 235

CAPITOLO PRIMO: LA DIGNITÀ DELLA PERSONA UMANA pag.235

Articolo 1: L'uomo immagine di Dio pag. 235

Articolo 2: La nostra vocazione alla beatitudine pag. 236

Articolo 3: La libertà dell'uomo pag. 238

Articolo 4: La moralità degli atti umani pag. 240

Articolo 5: La moralità delle passioni pag. 241

Articolo 6: La coscienza morale pag. 242

Articolo 7: Le virtù pag. 245

Articolo 8: Il peccato pag. 250

CAPITOLO SECONDO: LA COMUNITÀ UMANA

Articolo I: La persona e la società pag. 253

Articolo 2: La partecipazione alla vita sociale pag. 255

Articolo 3: La giustizia sociale pag. 258

CAPITOLO TERZO: LA SALVEZZA DI DIO: LA LEGGE E LA GRAZIA

Articolo 1: La legge morale pag. 261

Articolo 2: Grazia e giustificazione pag. 265

Articolo 3: La Chiesa, Madre e Maestra pag. 270

SEZIONE SECONDA

I DIECI COMANDAMENTI pag. 274

CAPITOLO PRIMO: «AMERAI IL SIGNORE DIO TUO IL TUO CUORE, CON TUTTA LA TUA ANIMA E LA TUA MENTE»

Articolo 1: Il primo comandamento pag. 278

Articolo 2: Il secondo comandamento pag. 285

Articolo 3: Il terzo comandamento pag. 287

CAPITOLO SECONDO: «AMERAI IL PROSSIMO TUO COME TE STESSO»

Articolo 4: Il quarto comandamento pag. 291

Articolo 5: Il quinto comandamento pag. 299

Articolo 6: Il sesto comandamento pag. 308

Articolo 7: Il settimo comandamento pag. 317

Articolo 8: L'ottavo comandamento pag. 325

Articolo 9: Il nono comandamento pag. 331

Articolo 10: il decimo comandamento pag. 333

PARTE QUARTA

LA PREGHiERA CRISTIANA

SEZIONE PRIMA

LA PREGHIERA NELLA VITA CRISTIANA pag. 336

CAPITOLO PRIMO: LA RIVELAZIONE DELLA PREGHIERA pag. 337

Articolo 1: Nall'Antico Testamento pag. 337

Articolo 2: Nella pienezza del tempo pag. 342

Articolo 3: Nel tempo della Chiesa pag. 346

 

CAPITOLO SECONDO: LA TRADIZIONE DELLA PREGHIERA

Articolo 1: Alle sorgenti della preghiera pag. 349

Articolo 2: Il cammino della preghiera pag. 351

Articolo 3: Guide per la preghiera pag. 354

 

CAPITOLO TERZO: LA VITA DI PREGHIERA

Articolo 1: Le espressioni della preghiera pag. 356

Articolo 2: Il combattimento della preghiera pag. 359

 

SEZIONE SECONDA

LA PREGHIERA DEL SIGNORE: «PADRE NOSTRO»

Articolo 1: «La sintesi di tutto il Vangelo» pag. 364

Articolo 2: «Padre nostro che sei nei cieli» pag. 366

Articolo 3: Le sette domande pag. 369

 

 

(Questo lavoro, durato tre mesi è un atto d’amore verso Gesù)